02 aprile 2010

Pomilio, maestro della narrativa cristiana

di Alessandro Zaccuri
Esiste, è mai esistita, una tradizione cattolica del romanzo? Un modo, cioè, per far convivere le ragioni della fede e quelle della letteratura, senza negare le une facendo appello alle altre, senza sovrapporle né contraddirle?
L’occasione per tornare a formulare la domanda è offerta in questi giorni dal ventesimo anniversario della scomparsa di Mario Pomilio, lo scrittore di origine abruzzese (era nato a Orsogna, in provincia di Chieti, il 14 gennaio 1921) morto a Napoli il 3 aprile 1990. Insieme con Luigi Santucci, Italo Alighiero Chiusano, Raffaele Crovi e altri autori affermatisi a partire dagli anni Sessanta, Pomilio ha vissuto il proprio ruolo di narratore e di intellettuale nella prospettiva di questa possibile convivenza. Lo ha fatto in una stagione storicamente segnata dalla presenza del Concilio Vaticano II, ereditando le inquietudini del romanzo francese del primo Novecento (Mauriac, Bernanos) e arrivando a riconoscere in Manzoni un inatteso, ma non per questo imprevedibile 'compagno di strada'.
Pubblicato nel 1983 e vincitore del premio Strega, 'Il Natale del 1833' aveva già la profondità e l’andamento della riflessione definitiva, un omaggio a Manzoni, appunto, che nascondeva in realtà una sorta di autoritratto.
Era, per certi aspetti, l’approdo di un’avventura iniziata nel 1954 con la pubblicazione de 'L’uccello nella cupola', e che aveva trovato il suo momento decisivo in uno dei romanzi italiani più eleganti e strutturati dell’ultimo mezzo secolo, 'Il quinto evangelio'. Qui, all’altezza del 1975, Pomilio si era trovato a giocare d’anticipo sulle raffinatezze postmoderne del 'Nome della rosa' e persino sulle semplificazioni in stile 'Codice Da Vinci'. Sorretto da una straordinaria abilità mimetica e filologica, il libro descriveva l’immaginaria ricerca di un ulteriore Vangelo 'canonico', inizialmente adottato dalla Chiesa e poi ritiratosi, in modo misterioso, nella penombra della Storia. Un manoscritto perduto che, di pagina in pagina, di testimonianza in testimonianza, finisce per rivelarsi non come un testo, quanto piuttosto come l’esperienza viva dei credenti.
'Il quinto evangelio' era, ed è, uno strabiliante pezzo di bravura, ma a renderlo ancora oggi attuale è più che altro la convinzione da cui è sorretto.
Se mai esiste un punto di contatto tra letteratura e fede, sembra dirci Pomilio, questo non può stare se non nel riconoscimento dell’intima serietà e della necessaria complessità di ogni racconto che abbia protagonista l’uomo.
Si tratta di un punto di contatto, certo, anzi di una zona di attrito, come lo stesso Pomilio ricordava nelle annotazioni saggistiche dei suoi 'Scritti cristiani' (1979), perché il cristianesimo non è una cultura. Eppure, proprio in virtù di questa radicale estraneità a ciò che è solamente culturale, il cristianesimo è in grado di dialogare con ogni cultura, ascoltandola ed essendone ascoltato. Un autore da riscoprire, dunque, e libri da rileggere. Una decina di anni fa Bompiani aveva avviato la riproposta delle opere di Pomilio, ma il progetto si arenò dopo un paio di titoli.
Riprenderlo oggi sarebbe, tutto sommato, una bella dimostrazione di lungimiranza.
«Avvenire» del 2 aprile 2010

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