02 aprile 2010

La morale di Kant messa alla prova dal postmoderno

di Vittorio Possenti
In sei profondi studi su libertà e moralità Ivaldo scandaglia i nuclei centrali della vita etica, includendo importanti esponenti del pensiero etico moderno: Fich­te soprattutto, ma anche Lauth, Pareyson, Lévinas, Apel, Ricoeur.
L’intento però è valorizzare al mas­simo l’apporto kantiano, mostran­do che la sua elaborazione non è consegnata al passato, ma apre prospettive attuali. Ciò si sviluppa mediante una rilettura dell’idea di ragion pratica, di legge morale e di libertà in lui. La ragion pratica de­termina la volontà grazie al porsi della legge morale come norma: dunque la ragion pratica è di per sé normativa e non soltanto pro­cedurale, secondo la formulazione depotenziata dei neokantiani con­temporanei come Habermas. Il punto forse più impegnativo con­cerne il nesso tra libertà e bene: «La libertà di arbitrio è il potere di serbare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa». Questa frase di sant’Anselmo svela la natura profonda della volontà li­bera come volontà per il bene; è difficile dire però se Kant l’avesse presente. Nell’interpretazione che Ivaldo dà del pensiero kantiano, la persona diventa consapevole della sua capacità di volere liberamente in quanto ha dinanzi la legge mo­rale col suo imperativo categorico: dunque «posso perché devo». Ma questo comando proviene dalla volontà stessa o da altrove? L’auto­re illustra come vada intesa l’auto­nomia kantiana di una volontà che è legge a se stessa, senza con ciò mettere da parte Dio come unico legislatore morale: «L’autonomia morale della volontà si oppone al­la eteronomia, ma non alla teono­mia, all’intenzione santa dell’ 'es­sere incondizionatamente buo­no' ». Su questo punto cruciale di­verse sono state le interpretazioni, sino a quelle in cui l’autonomia kantiana è apertamente intesa in senso antiteonomo (si pensi ad H. Kelsen). Nel solco della grande meditazione sul «male radicale» cui è dedicato un capitolo, porrei l’interrogativo se nel sistema kan­tiano la domanda religiosa (che cosa mi è lecito sperare?) sia origi­naria o accada dopo che è avvenu­ta l’esperienza della legge morale e del suo rispetto. Suggestivo è l’in­serimento di Kant e Fichte nella li­nea novecentesca dell’intersogget­tività, pensata in primo luogo co­me relazione morale, ma senza e­levare una barriera tra etica ed on­tologia. La base di partenza per ri­conoscere l’intersoggettività è che l’imperativo categorico include l’essere con altri, cioè una comu­nità universale di esseri morali: in certo modo l’imperativo categori­co è sociale, e questo mette in luce il carattere relazionale della perso­na e i possibili sviluppi pedagogici. La formazione del «cucciolo d’uo­mo » molto dipende dalla capacità iniziante di chi lo chiama, gli ac­corda fiducia e lo coinvolge.
Marco Ivaldo, LIBERTÀ E MORALITÀ, A partire da Kant, Il Prato, pp. 236, € 15,00
«Avvenire» del 2 aprile marzo 2010

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