02 aprile 2010

«Autodeterminazione», una caricatura di giustizia

Per entrare nella vera giustizia – ricorda Benedetto XVI – è necessario uscire dalla pretesa di bastare a se stessi. Un monito che vale anche per il «biodiritto»
in classe
di Claudio Sartea
Il centro tematico del complesso messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima 2010 è la giustizia: e se è vero che essa costituisce la chiave semantica del diritto, ritengo che ciò debba valere anche, senza eccezione, per il biodiritto.
«Per entrare nella giustizia è necessario uscire da quell’illusione di autosufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è l’origine stessa dell’ingiustizia».
L’affermazione centrale del Santo Padre, ovviamente riferita all’agire di Dio con e per gli uomini e alla conseguente chiamata rivolta a ognuno affinché esca effettivamente da se stesso per aprirsi al Creatore e Redentore, appare perfettamente adatta anche ad un’applicazione alla sfera della giustizia umana. Anche il diritto – purché si riconosca che la giustizia è il suo senso ultimo e decisivo – dipende dalla strutturale relazionalità degli uomini, legati gli uni agli altri da vincoli che diventano giuridici proprio perché sono antropologici. Il senso profondo del diritto di famiglia, ad esempio, si radica nella dipendenza dei coniugi l’uno dall’altro per la loro realizzazione esistenziale; e dei figli dai genitori per la vita e l’inserimento nel mondo. Il diritto civile, per non perdere se stesso, non può mai smarrire un fondamento più o meno esplicito di fiducia reciproca, di affidamento tra contraenti, d’intesa strategica nell’attività societaria, e così via. Il diritto penale mostra il lato più grave della patologia di questa fiducia, la tragica e conturbante lacerazione di legami che proprio perché indispensabili al vivere umano esigono un ripristino immediato anche a costo di sofferenze, di sanzioni, di pene riparative.
Il biodiritto, proprio perché è diritto, non fa eccezione a questa regola. Anche in esso, nei suoi principi e, auspicabilmente, nelle sue regole legali, occorre «uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza». Bastano poche parole, dunque, per comprendere la fallacia delle impostazioni libertarie e radicalmente autonomiche: semplicemente non è vero che ognuno può e deve badare a se stesso, specie nei casi estremi (l’inizio e la fine della vita) in cui al contrario ognuno si trova più drammaticamente che mai dipendente dalla sollecitudine altrui. Non c’è bisogno di declinare questo principio per tutti i numerosi casi possibili, di cui il biodiritto è chiamato a farsi carico nella dottrina dei teorici e nella applicazioni dei legislatori e dei giudici: dall’aborto – dramma di solitudine e abbandono, più che mai ora nella sua versione farmacologica – alla richiesta eutanasica, quasi sempre espressione della disperazione di chi contempla atterrito la desertificazione reale o immaginaria delle relazioni e dei significati che prima lo circondavano e riempivano di senso la sua vita.
È giustizia – la giustizia del soggetto debole e la giustizia di chi è chiamato a prendersi cura di lui – lasciare da parte puerili rivendicazioni di indipendenza, ricostruzioni formalistiche di irreali contesti di autonomia e lucida 'autodeterminazione'.
Smette di essere cosa di uomini per gli uomini un diritto che prescinde dalla giustizia: da una giustizia intesa in modo perfettamente compatibile, anzi, strutturalmente connesso, con il riconoscimento realistico dei bisogni e dei legami che vi sopperiscono, con la sollecitudine per l’altro, con un’idea forte e mai soffocante – perché antropologicamente meditata – di solidarietà.
Il Papa ci invita a riflettere sul nuovo canone di giustizia che la storia della salvezza ci svela come l’unico autentico e radicale: «La giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare. Proprio forte di questa esperienza, il cristiano è spinto a contribuire a formare società giuste, dove tutti ricevono il necessario per vivere secondo la propria dignità di uomini e dove la giustizia è vivificata dall’amore». Non scherziamo con la giustizia: perderla, significa perdere il diritto, e così svuotare di senso ogni regola. Comprenderla, viverla, ci colloca sulla giusta strada per risolvere i numerosi problemi che odiernamente, anche nel biodiritto, ci sfidano a costruire un mondo veramente umano.
«Avvenire» del 1 aprile 2010

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