13 febbraio 2010

La svolta di Togliatti aprì la strada agli Usa

La politica degli Alleati ricostruita da Di Nolfo e Serra: attraverso il Patto Atlantico si rinsaldò il regime già molto forte
Di Paolo Mieli
L'ingresso del Pci nel governo Badoglio del 1944 convinse gli americani a impegnarsi per l’Italia
Altro che discontinuità. Quando, nella seconda metà degli Anni Quaranta, l’Italia divenne una potenza amica degli Stati Uniti, in realtà non fece che portare a compimento una politica sotterranea che, a dispetto (ma forse non del tutto) di quella mussoliniana, si era sviluppata sotto traccia già nel corso dei due decenni precedenti. Del resto, come scrisse Giuseppe Prezzolini, «uno Stato può essere democratico o totalitario, monarchico o repubblicano nella politica interna; ma in politica estera è soltanto uno Stato». E nel libro La gabbia infranta. Gli Alleati e l’Italia dal 1943 al 1945, che uscirà il 18 febbraio da Laterza (pp. 320, 20), Ennio Di Nolfo e Maurizio Serra sostengono che la storia del nostro Paese dalla caduta del regime fascista alla liberazione e alla resa tedesca sembra confermare che la politica estera fu il motore della continuità dello Stato nazionale. Nel senso che tutto quello che venne alla luce dopo, nell’Italia liberata, era stato già ampiamente preparato prima nell’Italia fascista. «Il mancato equilibrio tra emozioni e realismo - altro paradosso nella patria di Machiavelli - conduce a vedere nelle "catastrofi" come nelle "vittorie" (con una preferenza mediatica soprattutto per le prime) più di quanto esse non contengano», scrivono Di Nolfo e Serra; «ma le une e le altre fanno parte dell’evoluzione storica, segnano l’alternanza tra epoche di maggiore e minore rigoglio che caratterizza ogni Stato-nazione, ogni soggetto dell’ordine internazionale considerato nel lungo periodo; a valutarle con la dovuta ponderatezza, entrano le une e le altre nella coscienza di un popolo, nella sua memoria collettiva e sarà così finché non prevarranno altre, ancora lontane, aggregazioni dei soggetti internazionali». Ma torniamo alle relazioni con gli Stati Uniti. Al di là «dell’alleanza occasionale tra Hitler e Mussolini avviata nel 1936 e conclusa formalmente nel 1939», scrivono Di Nolfo e Serra, «durante il periodo tra le due guerre si erano invece formati vincoli ben più solidi tra l’Italia (e l’Europa) e gli Stati Uniti che solo l’incontrollabile progetto hitleriano poteva, per qualche anno, accantonare senza poterli spezzare... Ciò significa che, nonostante la guerra, la struttura delle relazioni bilaterali non veniva distrutta, poiché essa era costruita sulle basi ben solide della contiguità finanziaria, imprenditoriale e commerciale che la politica economica protezionistica o "autarchica" adottata da Mussolini nella seconda metà degli anni Trenta non riuscì a sradicare». E chi erano gli uomini di questo rapporto con l’America? Il conte Giuseppe Volpi, che al mercato americano si era rivolto per sviluppare le proprie iniziative; Amedeo Giannini e Achille Olcese fondatore (all’indomani della Prima guerra mondiale) e amministratore (alla vigilia della Seconda) della Banca d’America e d’Italia che gestiva le rimesse degli emigranti; il figlio di Luigi Einaudi, Mario, che emigrato nel ‘33 negli Stati Uniti insegnava alla Cornell University nello Stato di New York; personalità dell’emigrazione antifascista quali Gaetano Salvemini e Carlo Sforza; Giovanni Agnelli, Vittorio Valletta, Alberto Pirelli, il governatore della Banca d’Italia Giuseppe Toeplitz. Ma anche Mussolini fu quantomeno ambivalente nei confronti degli Stati Uniti. Ufficialmente nemico, ma in realtà... Fino alla primavera del 1940, cioè poche settimane prima dell’ingresso dell’Italia in guerra, restò sul tappeto l’ipotesi di un suo incontro con il presidente americano Franklin Delano Roosevelt e, ancora all’inizio del ‘42, dopo che l’Italia aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti, il capo del fascismo diceva al capo della polizia Carmine Senise: «Non vi meravigliate se un giorno mi sentirete fare un discorso alla radio in onore di Roosevelt». Del resto il libro attribuisce «eccezionale importanza» a un episodio spesso trascurato dagli storici: quando l’Italia dichiarò guerra agli Usa, l’ambasciatore italiano, il principe Ascanio Colonna di Paliano, che lasciava Washington imbarcandosi su una nave passeggeri di un Paese neutrale, la Danimarca, fu raggiunto da un funzionario governativo americano, Frederick Lyon, il quale gli disse di riferire a Mussolini che gli Stati Uniti avrebbero avuto sempre una considerazione più benevola nei confronti del nostro Paese e molto diversa da quella riservata alla Germania. E quando venne meno il riguardo americano per Mussolini, grande attenzione fu riservata agli ambienti antifascisti milanesi che si muovevano attorno all’ufficio studi della Banca commerciale italiana (Ugo La Malfa, Adolfo e Sinibaldo Tino, Ferruccio Parri). Un loro documento programmatico fu inviato a Washington su iniziativa di Rino de’ Nobili, un diplomatico italiano rifugiato in Svizzera dopo che aveva lasciato la carriera per avversione al fascismo. E un secondo documento fu inviato nel giugno del 1942 tramite Enrico Cuccia, allora semplice funzionario della Banca commerciale che, sotto la copertura di una missione bancaria, riuscì a raggiungere Lisbona e a contattare George F. Kennan, in quel momento addetto all’ambasciata americana in Portogallo. Altra importante personalità di questa trama segreta fu Myron C. Taylor, rappresentante personale di Roosevelt presso Pio XII, a cui il regime fascista concesse di atterrare a Ciampino e raggiungere il Vaticano passando per le strade di Roma, nonostante fosse la capitale di un Paese in guerra con gli Stati Uniti. Fino all’ultimo ci fu nella stessa Italia fascista chi cercava una via per evitare al nostro Paese la catastrofe. Personaggio chiave di questa fase politica (di più, a detta degli autori del libro: «protagonista») fu Giuseppe Bastianini, già sottosegretario agli Esteri con Galeazzo Ciano (1936-39), successivamente ambasciatore a Londra (1939-40), quindi governatore della Dalmazia occupata dalle forze italiane e dal febbraio 1943, quando Ciano fu rimosso e mandato a fare l’ambasciatore presso la Santa Sede, di fatto ministro degli Esteri, nei panni di sottosegretario di Mussolini, che aveva avocato a sé la titolarità del ministero. Tra il febbraio e la fine di luglio Bastianini, fortemente inviso ai tedeschi e soprattutto a Joachim von Ribbentrop per le sue riconosciute inclinazioni filo-occidentali, effettuò un ampio e mirato movimento diplomatico (in particolare inviò a Lisbona, centro nevralgico per le trattative con i «nemici», Renato Prunas, destinato a svolgere successivamente le funzioni di ministro degli Esteri nel Regno del Sud) per cercare un canale di comunicazione con gli anglo-americani. Il fine di Bastianini era quello di costruire (con Romania e Ungheria) un asse trasversale danubiano balcanico che mettesse l’Italia in condizione di uscire dalla guerra e di resistere, in una stagione successiva, a una penetrazione sovietica. Bisogna riconoscere, scrivono Di Nolfo e Serra, che Bastianini «nei limiti della sua visione, mostrava coerenza e preveggenza nell’anticipare in una certa misura gli scenari della guerra fredda». Ma Bastianini rimase inascoltato e per Mussolini fu la fine nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943. Il suo successore, Pietro Badoglio, riprese a tessere la trama del rapporto con gli americani. E però la pregiudiziale antimonarchica (cioè la richiesta da parte delle formazioni antifasciste di dimissioni del re Vittorio Emanuele III) tenne bloccato il suo governo anche dopo la firma dell’armistizio, resa pubblica l’8 settembre di quello stesso anno. «L’impedimento che urge rimuovere», dichiarò Benedetto Croce a un quotidiano inglese, «è la persona del re, Vittorio Emanuele III, che ha aperto le porte al fascismo, lo ha favorito, sostenuto, servito per oltre vent’anni, lo ha seguito in tutte le sue azioni e persecuzioni più contrarie alla moralità... Pretendere che l’Italia conservi il presente re, è come pretendere che un redivivo resti abbracciato con un cadavere». Tesi che fu ribadita con decisione nel congresso dei partiti antifascisti riuniti a Bari il 28 e 29 gennaio 1944. E riaffermata senza tentennamenti dai comunisti Velio Spano ed Eugenio Reale in un incontro con Badoglio che chiedeva loro di entrare al governo. Finché a fine marzo 1944 il leader comunista Palmiro Togliatti, rientrato in Italia dall’Unione Sovietica, sbloccò la situazione con la «svolta di Salerno», accantonando la pregiudiziale di cui si è detto. Ed è su questo passaggio che si concentrano i capitoli più interessanti di La gabbia infranta. Già Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky avevano assai approfondito il tema, dimostrando l’intreccio e la complementarietà tra le decisioni di Stalin e quelle di Togliatti anche in quello specifico frangente. Di Nolfo e Serra si spingono più in là, investigando su una missione in Italia compiuta dal viceministro degli Esteri sovietico Andrej Vyshinskij tra la fine di novembre e i primi di dicembre del 1943, allorché l’emissario di Stalin incontrò rappresentanti del governo italiano, Guido Pazzi, Raimondo Mancini nonché il già citato Prunas, per discutere di come giungere al riconoscimento diplomatico del governo Badoglio e di come far rientrare in Italia Togliatti. Il progetto andò in porto e rese possibile la nascita (il 21 aprile 1944) di un secondo governo, presieduto sempre da Badoglio ma appoggiato dai partiti antifascisti. E qui viene il capitolo significativamente intitolato «La leggenda della svolta di Salerno», nel quale i due autori ridimensionano fortemente la portata della mossa di Togliatti. Secondo Di Nolfo e Serra gli americani erano pronti già in quel momento a dare un avallo alla svolta e, non fosse stato per un veto di Churchill, «avrebbero accelerato lo sviluppo della dialettica politica interna, senza dare al Partito comunista quel ruolo demiurgico che esso parve assumere dopo il ritorno di Togliatti in Italia e isolandolo, piuttosto, nelle sue posizioni di estrema contrarietà a un compromesso che presupponeva il riconoscimento della continuità del sistema politico italiano, così come esso era stato ricostituito da Badoglio dopo la caduta di Mussolini e, più ancora, dopo l’armistizio e la dichiarazione di guerra alla Germania». Fu, dunque, solo il braccio di ferro tra Gran Bretagna e Stati Uniti sul destino immediato del nostro Paese che consentì a Stalin e Togliatti l’incursione tattica. La quale fece però «perdere di vista a Togliatti e ai suoi suggeritori le conseguenze che l’accelerazione imposta alla politica italiana avrebbero inevitabilmente provocato; Togliatti barattò per una questione importante dal punto di vista del Pci, ma tale da provocare un effetto controproducente per il suo stesso partito, il colpo di teatro a un prezzo troppo elevato perché fosse davvero accettabile per gli altri partiti, inoltre offrì a Badoglio e agli Alleati il destro per rovesciare, e in maniera ben più durevole, l’equilibrio esistente tra le forze politiche italiane; ciò che ottenne in cambio fu la partecipazione del Pci a un governo che sarebbe durato poco più di un mese e che sarebbe poi stato sostituito da un altro governo, nel cui ambito il Pci non avrebbe avuto una posizione egemone ma subalterna». L’effetto più immediato «fu di risvegliare dal sonno gli americani che sino a poco prima avevano guardato distrattamente alle cose d’Italia». In questo modo «la manovra di Togliatti e il riconoscimento sovietico finivano per ritorcersi contro chi ne era stato l’autore» per «la maniera unilaterale e segreta con la quale la diplomazia sovietica, aggirando lo spirito dell’armistizio, e sorvolando sulla questione della piena fluidità delle informazioni fra alleati, aveva cercato di eludere le preclusioni anglo-americane, senza tener conto delle suscettibilità che ciò avrebbe sollevato e dei sospetti che avrebbe fatto sorgere». Il tutto nella continuità e nella piena legittimità formale del governo Badoglio, «il che accentua il carattere della cosiddetta svolta di Salerno come momento conclusivo e non come momento costituente del nuovo assetto politico italiano». La svolta di Salerno, in altre parole, è l’occasione in cui Roosevelt si rende conto che le divisioni tra Stati Uniti e Gran Bretagna offrono a Stalin l’occasione per incunearsi più di quanto lui stesso avesse messo nel conto. E da questo momento il presidente americano si mostra molto più risoluto nei confronti di Churchill. A giugno (1944) le truppe alleate entrano a Roma e in un batter d’occhio Badoglio viene sostituito alla guida del governo da Ivanoe Bonomi. Churchill scrive al presidente americano: «La sostituzione di Badoglio con questo gruppo di vecchi e famelici politicanti è, credo, un grande disastro; dal momento in cui, sfidando il nemico, Badoglio ci ha consegnata sana e salva la flotta, egli è stato per noi un utile strumento. Era inteso, credo, che egli sarebbe dovuto rimanere al suo posto...». Stalin prova ad appoggiare le rimostranze di Churchill, ma Roosevelt tira dritto. Da questo momento, per chi sa osservare i movimenti delle cose, gli Stati Uniti sono la nuova stella polare della politica italiana. Parte una missione per gli Usa guidata dal già menzionato Guido Pazzi («pressoché ignorata dalla ricerca storica», lamentano i due autori). Ma Pazzi ha il torto - agli occhi di un’amministrazione americana che già intravede all’orizzonte il rischio di un nuovo conflitto con la Russia staliniana - di prospettare un ruolo italiano nell’ambito di un’alleanza Usa-Urss in funzione anti-inglese. Parte poi una seconda missione, ancor meno nota della precedente, guidata da Enrico Scaretti. E poi una terza - più conosciuta - di Quinto Quintieri (già ministro delle Finanze con Badoglio, poi presidente della Banca di Calabria) e di Raffaele Mattioli (amministratore delegato della Banca commerciale italiana), assistiti rispettivamente da Mario Morelli e da Enrico Cuccia. Ma anche da un funzionario del ministero degli Esteri voluto da Prunas: Egidio Ortona. Questa terza missione è connotata da un intento ostile alla Gran Bretagna, ma assai meglio dissimulato e soprattutto senza nessuna apertura di credito all’Urss. E costituisce la pietra miliare del nascente rapporto tra Italia e Stati Uniti, di un’importanza pari a quella del viaggio di Alcide De Gasperi in America nel 1947. La svolta di Salerno era servita dunque, più che a mettere i comunisti al centro del nuovo gioco politico, a risvegliare gli Stati Uniti e a far nascere oltre Atlantico una politica per l’Italia che nel secondo dopoguerra avrebbe fatto da cardine alla ricostruzione del nostro Paese.

Sui rapporti fra Italia e Usa sono usciti diversi saggi. Per l’anteguerra: Gian Giacomo Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo (Feltrinelli). Per il periodo successivo: Mauro Campus, L’Italia, gli Stati Uniti e il piano Marshall, 1947-1951 (Laterza); Mario Del Pero, L’alleato scomodo (Carocci); Leopoldo Nuti Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra (Laterza). Opere di sintesi: Massimo Teodori, Benedetti americani (Mondadori); Sergio Romano, Lo scambio ineguale (Laterza). Sulla svolta di Salerno: Elena Aga Rossi, Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin (Il Mulino). Sulla nostra politica estera : Antonio Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992 (Laterza).
Giuseppe Bastianini (1899-1961) fu un diplomatico di primo piano in epoca fascista. Sottosegretario agli Esteri con Ciano, fu poi ambasciatore a Londra e governatore della Dalmazia. Quindi tornò sottosegretario agli Esteri dal febbraio 1943 alla caduta del regime e in quei mesi cercò di stabilire contatti con gli americani. Le sue memorie s’intitolano Volevo fermare Mussolini (Rizzoli)
Il cagliaritano Renato Prunas (1892-1951) entrò nella carriera diplomatica nel 1923. Dopo la caduta del fascismo divenne segretario generale degli Esteri e si adoperò per reinserire l’Italia nella comunità internazionale. In seguito fu consigliere di De Gasperi. Gianluca Borzoni gli ha dedicato la biografia Renato Prunas diplomatico (Rubbettino).
«Corriere della Sera» del 9 febbraio 2010

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