01 novembre 2009

Requiem per la vita privata: è la società dei tanti «piccoli fratelli»

Politica e scandali
di Pierluigi Battista
Smaltita l'ebbrezza per l'immagine della casta politica messa in mutande, troveremo la lucidità per intonare un requiem alla riservatezza deceduta? La vita privata è morta, espugnata non dalla vecchia Inquisizione, ma da un' inedita e spietata dittatura tecno-pettegola. Il mito della trasparenza si sta rovesciando nel suo contrario. Altro che Grande Fratello: è piuttosto la moltitudine dei piccoli fratelli, delle piccole sorelle (e dei trans-fratelli o trans-sorelle?) che con un video può distruggere chiunque. I cittadini devono sapere tutto, recita la prima massima dell'ideologia della trasparenza assoluta. Ma proprio tutto tutto è esagerato. E pericoloso. Bisogna sapere se gli amministratori pagano le tasse, quanto guadagnano, se sono a posto con i contributi, che ovviamente non siano corrotti, che non frequentino il malaffare, che ogni euro incassato sia registrato. Ma l'idea del pedinamento soffocante, di una telecamera che segue ventiquattro ore su ventiquattro una persona, delle abitudini sessuali incamerate, registrate, impacchettate, rese obbligatoriamente di pubblico dominio è proprio l'idea giusta? E così l'idea che non esistano pareti, ripari, confini, recinti che arginino la tirannia della visibilità assoluta. E invece tutto è fotografabile, intercettabile, registrabile. Non è detto che oggi ci siano più «vizi» di ieri. È sicuro che però viviamo nell' epoca, già indicata da Walter Benjamin, della loro infinita e totale riproducibilità. Qui sta la differenza con il passato: nell'estinzione tecnologicamente possibile di ogni dimensione privata. È un bene o un male? È un bene per una società che vuole controllare tutto, che non conosce chiaroscuri, sfumature, gradazioni di visibilità, che travolge ogni barriera che divide l'esistenza pubblica da quella privata. È un male se affidiamo l'idea di democrazia informata agli strumenti sofisticatissimi con cui Google scruta ogni nostro passaggio, se ogni conversazione telefonica è ascoltabile, se ogni sms è riproducibile, se ogni mail cade preda del guardone universale, se ogni movimento della carta di credito rende visibile qualsiasi abitudine d'acquisto, se il telepass dice dove vai e in quanto tempo, se il tuo profilo sanitario compare su Internet, se milioni e milioni di individui diventano improvvisati registi che fanno di qualunque frammento della vita un film, un video con o senza sonoro. Da mesi oramai l'attenzione pubblica è fissata su eventi che, all'incrocio mai limpido tra sesso e potere, sono alla portata di tutti grazie a strumenti inimmaginabili nel passato: le foto con il telefonino nei bagni di Palazzo Grazioli, il video che inchioda Marrazzo, le telefonate tra Berlusconi e la D'Addario. Si dice che la Prima Repubblica sapeva essere più sanamente ipocrita e relegava tutto il sessualmente disdicevole della classe politica nella penombra del silenzio. Per forza: non c' erano i telefonini. Ma i telefonini li hanno tutti, non solo il Grande Fratello. Quando scoppiò lo scandalo dei dossier ricattatori del Sifar, si poteva pensare a un comando unico, a una centrale di potere che agiva nell'ombra, che accumulava dati che attenevano alla sfera privata degli spiati per poterli ricattare. Ma nella moltiplicazione democratica degli strumenti di riproduzione audio-video-fotografica si moltiplica anche il numero potenziale degli agenti del ricatto. Il ricatto si democratizza, diventa potenzialmente pratica comune, diffusa, capillarmente articolata come una piovra anonima e senza confini che coinvolge il vicino di casa come l'avversario politico, il collega di lavoro invidioso e risentito e l' amante delusa e tradita. La lettera anonima di un tempo, magari fabbricata artigianalmente con i frammenti del giornale, poteva anche essere considerata non credibile. Oggi tutto è credibile: è fissato da un video, una foto, una registrazione. Tutto taroccato, se necessario. Ma quando i periti se ne accorgeranno sarà sempre troppo tardi: il tribunale dell'opinione pubblica, sbrigativo e crudele, avrà già emesso la sua inappellabile condanna. Quando poi la possibilità tecnologica di riprodurre ogni atomo privato dell'esistenza di ciascuno si alimenta dell'ideologia della trasparenza, della virtuosa esortazione a «sapere tutto», sgretolando ogni barriera difensiva nel nome della guerra all'«opacità» del potere, lo spionaggio di tutti contro tutti riceve persino una patente di nobiltà e il certificato di buona condotta rilasciato dai guardiani del giornalismo che vede in ogni limite un attacco alla libertà, in ogni riserbo un indizio di omertà, in ogni prudenza un sintomo di soggezione al potere. Il valore della trasparenza demolisce ogni valore concorrente, a cominciare da quello che assegna a ciascun individuo, persona comune o appartenente alla categoria oramai logora ma centralissima che è la confraternita dei «Vip», una sfera della vita protetta dalle incursioni del pubblico, un' area di privatezza che non consegna ogni parte di sé allo strapotere dell' occhio collettivo. È probabile che finirà male. Che un Paese in cui una classe politica è prigioniera dei dossier con cui gli schieramenti si rinfacciano escort e trans e contemporaneamente la camorra esegue la pena di morte in pubblico (sotto l'occhio di un video, anche stavolta), sta pericolosamente imboccando una china di tipo sudamericano (con tutto il rispetto per il Sud America). Che pedinamenti, dossier, foto, video, tabulati telefonici, conversazioni rubate possano soppiantare ogni genere di dibattito politico: e già se ne vedono i primi, inequivocabili segnali. Che la trasparenza totale possa avere, paradossalmente, un esito torbido. Assieme ai funerali della vita privata.
«Corriere della Sera» del 31 ottobre 2009

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