01 novembre 2009

Il futuro della democrazia

di Arrigo Levi
Che la democrazia sia un sistema politico auspicabile per tutti i popoli, ed anche il solo capace, quando tutti i governi del mondo siano democratici, di rendere realizzabile l’utopia della pace universale, a noi Occidentali sembra fuori discussione. Quello che è in discussione è se, quando e come, la democrazia sia davvero destinata a diventare la «forma finale di governo» per tutta l’umanità; o se vi siano popoli di cultura diversa (come la cultura islamica, o quella cinese), refrattari ad accettare la democrazia. Ed è giustificato l’uso della forza per diffondere la democrazia, o soltanto per proteggersi da forze ostili che mirano alla nostra distruzione?
In risposta a queste domande la politica dell’America di Bush, soprattutto nel primo quadriennio, s’ispirava alla convinzione che l’impiego della forza per diffondere nel mondo la democrazia fosse giustificato. Con l’ingresso di Barack Obama alla Casa Bianca questa dottrina è stata abbandonata. «Nessun sistema di governo - ha detto Obama nel grande discorso del Cairo del 4 giugno scorso - deve essere imposto da una nazione a un’altra». L’America «non ha la pretesa di conoscere che cosa sia meglio per ciascuna nazione», anche se rimane «irremovibilmente convinta» che tutti i popoli aspirino ad essere liberi di decidere come vogliono essere governati, e che i governi che rispettano la giustizia e i diritti umani (ossia le democrazie) rappresentino ideali «non solo americani» ma validi per tutti i popoli. Nello stesso discorso Obama ha peraltro riaffermato il diritto e il dovere degli Stati Uniti di continuare la guerra in Afghanistan contro gli estremisti che hanno «assassinato persone di ogni fede religiosa», soprattutto musulmani: laddove «il Sacro Corano predica che chiunque uccida un innocente è come se uccidesse tutto il genere umano».
Non solo in Occidente, ma anche al Cairo il discorso della «mano tesa» da Barack Hussein Obama al mondo islamico trovò un’accoglienza molto calorosa. Ma i risultati pratici potranno venire solo gradualmente. Obama ha ricordato che «tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo», e tutto ciò che possiamo fare è «non concentrarci su ciò che ci divide» ma «impegnarci insieme per trovare un comune terreno di intesa».
Che il futuro della storia umana appartenga alla democrazia rimane insomma da vedersi. Francis Fukuyama, che ha predicato dal 1989 la tesi che la democrazia rappresenta la ineluttabile, sicura «fine della storia», ha ribadito ancora di recente questa sua convinzione. Ha osservato (spero che abbia contato bene) che nei primi Anni Settanta c’erano nel mondo soltanto un'ottantina di democrazie, mentre oggi ve ne sono 130. Ha negato, con ragione, che l'autoritarismo cinese o la repubblica islamica dell’Iran possano rappresentare «forme di civiltà superiori» alla democrazia, e ha ricordato che la democrazia si è affermata anche al di fuori della civiltà occidentale, dall’India al Giappone, dalla Corea del Sud all’islamica Indonesia. Ma ha anche ammesso, nonostante la sua fede incrollabile nel futuro democratico del mondo intero, che «in alcuni luoghi oggi si verifica una reazione antidemocratica». Oltre all'Afghanistan e al mondo islamico, penso avesse in mente la Russia di Putin (e/o di Medvedev).
Noi europei, che abbiamo costruito sulle rovine della seconda guerra mondiale un’Europa unita, pacifica e democratica, non nutriamo dubbi sulla superiorità della democrazia. Quanto al da farsi per vincere il confronto con i nemici della democrazia, troviamo la dottrina dell’America di Obama molto più vicina alle nostre convinzioni di quanto fosse la dottrina Bush. Anche se è per noi ancor più «lacerante» di quanto non sia per Obama continuare a sacrificare «giovani uomini e giovani donne» per la nostra difesa, e per il futuro, ancora problematico, di un mondo di democrazie.
«La Stampa» del 1 novembre 2009

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