12 novembre 2009

Ovidio, il gran pagano che conquistò i cristiani

Ripreso in chiave edificante dall’VIII secolo, su di lui si innestò il poema di Dante e germogliò in buona parte l’Umanesimo
di Rosita Copioli
Quando Ovidio raccontò le metamorfosi che i Greci avevano rielaborato in miti ricordando l’unità genetica del cosmo, la sua mente divenne uno specchio. Iniziava dal Caos e dalla cosmogonia, con la separazione degli elementi, la creazione degli uomini e la gigantomachia. Intanto, attraverso le passioni tragiche tra gli uomini e gli dei, le colpe della tracotanza umana, dipanava le vicende che avrebbero continuato a trasformarsi fino a noi: di Apollo e Dafne, Fetonte, Proserpina, Teseo e Arianna, Eracle, Orfeo. Si faceva pietra, carne, metallo, acqua, aria, albero, fiore: veloce, ricchissimo, denso, brillante, barocco, gonfio, truculento, parodico, ironico e autoironico, terribilmente crudo, pieno di grazia, enigmi, elusioni. Con la leggerezza più ariosa, imitando voci e nature, rifletteva moltiplicato un sapiente disegno di divinità e storia che oltrepassava la guerra di Troia e la centauromachia per culminare con la celebrazione di Augusto. L’apoteosi dell’imperatore non lo salvò dall’esilio. Lo spirito di Ovidio, troppo lieve e libero rispetto a Virgilio e Orazio, era inadatto come supporto del potere. Ma fu la sua fortuna e la nostra.
Nessun autore antico ha avuto la sua penetrazione e la sua durata, dai primi secoli del cristianesimo, e per molte ragioni è stato considerato da Auden e da Calvino l’autore simbolo del XXI secolo. Non c’è bisogno di proiettarci nel cyber. Ovidio l’aveva previsto.
Per rendergli giustizia vera, ricorriamo alla edizione eccellente delle Metamorfosi diretta da Alessandro Barchiesi per Valla Mondadori (testo critico curato da Richard Tarrant per Oxford University Press, introduzioni di Barchiesi e Charles Segal, commento di Barchiesi, G. Rosati, E.J. Kenney. J.D. Reed, P. Hardie, traduzioni di Ludovica Koch, voll. I, II, e Gioachino Chiarini, vol. III, appena uscito a cura di Rosati e Chiarini, pp. XXXVIII-359, euro 30).
L’argomento in sé sarà sempre inesauribile finché durerà il mondo, attraverso tutte le culture. Di quelle cristiane, asiatiche, letterarie, tratta La metamorfosi, bel volume a cura di Francesco Zambon (Medusa, pagine 190, euro 32). Ma come mai il frivolo, leggerissimo Ovidio conquistò i cristiani? Gli stoici inaugurarono le interpretazioni edificanti dei miti, anche i più aberranti, con il metodo allegorico. Seguirono i neoplatonici, i padri della Chiesa, soprattutto alessandrini, che così leggevano le Scritture.
Già Firmino Lattanzio, nelle Divinae Institutiones dedicate a Costantino, testimonia la fede sia con le Scritture, sia con le parole di Orfeo, Ovidio, Aristotele. Nell’VIII secolo Ovidio fu adottato dal vescovo Teodulfo di Orléans, spiegato nel XII secolo a uso delle monache, e trionfò ne l’Ovide Moralisé (1316-1328): Ovidio conterrebbe l’intera dottrina cristiana, e perfino la Bibbia: Diana allude alla Trinità, Atteone a Gesù, Fetonte a Lucifero, ecc. Gli antichi anticipavano l’autorità del Dio vero sull’ordine del cosmo, e su chi lo contrasta per superbia. Qui si innesta il poema di Dante, e germoglierà l’incredibile fioritura dell’Umanesimo, l’ermetismo rinascimentale in tutte le sue forme, e l’«Ovidio cristiano» di Ludovico Lazzarelli ( De deorum gentilium imaginibus ).
Se la metamorfosi nel mondo naturale e divino congiunti era la realtà che univa uomini animali vegetali e minerali nell’antichità greco-romana, ebrei e cristiani vollero il superamento dell’umano rispetto al ferino. Rifiutando la metamorfosi antica, ne imposero una maggiore. Zambon si riferisce alla transustanziazione del corpo di Cristo nell’eucarestia. Aggiungerei la trasformazione di ciascuno di noi nell’«uomo nuovo» che deve coincidere con Gesù. Ovidio è al centro di questa trasformazione sostanziale, nella massima richiesta di Dante che invoca Apollo per affrontare il Paradiso: «Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue». Ci si rende conto della violenza che Dante chiede a Dio attraverso Ovidio? È un concetto assoluto che Dante assume dal poeta pagano: un delitto mitico estrae la poesia del Paradiso come da membra antiche. Dio chiede ai poeti l’eccesso sanguinoso, il sacrificio supremo.
Altrettanta violenza presa da Ovidio, applicata al Giudizio Universale, compare sul meraviglioso mosaico della controfacciata della Cattedrale di Torcello. Lì Issione, il primo impostore, omicida, colpevole di hybris, nel supplizio della ruota infuocata, genera una scia di fuoco che scende ad alimentare l’inferno. Issione nutre l’inferno, come strumento finale di Cristo giudice. Misteriosamente la ruota di Issione, emblema della fortuna e dell’esistenza sia solare, sia infera (ricorda Margarete Riemschneider in Miti pagani e miti cristiani ), torna in quella di San Giorgio.
Così l’Issione del pluteo di Torcello, separatore di luce da tenebra, diventa il san Giorgio del portale di Argenta (si veda Guido Tigler, in Torcello alle origini di Venezia tra Occidente e Oriente, a cura di G. Caputo e G. Gentili, Marsilio, pagine 196, euro 30).

«Avvenire» del 12 novembre 2009

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