16 luglio 2007

Snob o populisti, autori sconfitti dalla modernità

I limiti della narrativa contemporanea nel nuovo saggio del critico
di Paolo Di Stefano
Spinazzola: «Citati romanziere rosa, Benni apocalittico, Piperno manierista»
La forma peggiore di condanna per un romanzo? Non la stroncatura impietosa, ma il silenzio. Che «va riservato ai testi che ci abbiano lasciati indifferenti, senza suscitare nessuna reazione né di piacere né di dispiacere ma solo di noia». Il nuovo libro di Vittorio Spinazzola, Il gusto di criticare (Aragno, pagg. 213, euro 16), raccoglie una trentina di saggi-recensione scritti negli ultimi quarant’anni, preceduti da una prefazione teorica sulla critica militante. Le questioni messe in campo sono diverse. Primo: «Un critico che non critica, cioè disapprova, censura, polemizza, che critico è?». Risposta: non parlare mai male di nessuno dà magari qualche vantaggio nel rapporto con gli uffici stampa delle case editrici, ma risulta nefasto nel rapporto con i lettori. Toglie autorevolezza e credibilità. Secondo: che cos’è una recensione? È innanzitutto un servizio al lettore. A un lettore, per di più, non necessariamente dotato di grande competenza letteraria: dunque è necessario adottare un linguaggio alla portata di tutti. Ma ne discende un’altra questione. La terza: di quali libri parlare? Risposta: il recensore non deve esitare a sporcarsi le mani anche con i libri che non piacciono del tutto o che non rientrano nel gusto del critico. Quarto: che tono adottare? È necessario «mostrarsi più esigenti con gli autori di prestigio» e più comprensivi con gli altri. Evitando però, nei due casi, gli atteggiamenti di supponenza e di intimidazione. E qui si torna all’inizio: meglio il silenzio che la stroncatura. Dato tutto ciò, eccoci dunque all’auto-antologia di Spinazzola. Che riserva molte sorprese, perché, come da premesse, va a fare i conti senza particolari riverenze anche con diversi mostri sacri: dal Calvino «quasi asettico» delle Cosmicomiche al Citati di Storia prima felice collocato nella letteratura rosa, dal «semplicismo enfatico» di Insciallah al «blasfemo accostamento» Calasso-De Crescenzo. Ma c’è una costante, nelle letture di Spinazzola: il desiderio di stanare gli arroccamenti della nostra letteratura, geneticamente recalcitrante nei confronti di una modernità mal digerita e di una società di massa aristocraticamente negletta. Del resto, Spinazzola conduce da decenni una battaglia di democratizzazione delle patrie lettere eternamente tentate di escludere come volgari i gusti della collettività. Si legga, per esempio, il commento a Nero su nero di Leonardo Sciascia, dove individua «un pessimismo oltranzistico che, nei suoi connotati antistorici, declina verso forme di autocompiacimento consolatorio». E aggiunge che «a furia di dichiararsi certi che il destino dell’Italia è di non cambiare mai, si finisce col concentrare i colpi sulle forze che, con tutti i loro limiti ed errori, sono orientate più volonterosamente verso il progresso». Concludendo che «lo "sciascismo" viene così a proporre un modello di comportamento nello stesso tempo intransigentemente battagliero e nobilmente esclusivo». Difetto che Spinazzola intravede, sia pure con altre coloriture, nella neoavanguardia, mai disposta a «preoccuparsi delle condizioni di leggibilità effettiva dei testi». Difetto cui non sfugge neanche la «comicità demenziale» di Stefano Benni che diventa «comicità apocalittica» quando «inscena una lunga abominazione della civiltà moderna, nel suo utilitarismo tecnologico» e alimenta la propria indignazione civile «solo del suo furore pessimistico». Atteggiamento ideologicamente ambiguo se non pericoloso, che Spinazzola intravede sempre più nell’intellettualità di sinistra. A volte però, quando lo sforzo è quello di «assicurare piena leggibilità all’opera», come sembra fare Paolo Volponi ne Il lanciatore di giavellotto, si rischia di cedere populisticamente al carattere di «memoria nostalgica». E se in Fruttero e Lucentini il colloquio con il pubblico appare una preoccupazione costante, ne Il Palio delle Contrade Morte viene meno, secondo Spinazzola, il piacere illuministico anche se un po’spregiudicato dei romanzi precedenti a vantaggio di una «mera esecrazione moralistica» del mondo moderno cui si possono contrapporre solo gli strumenti occulti dello spirito. Diverse e più politico-civili le osservazioni che riguardano La fantarca di Giuseppe Berto, dove i terroni vengono esaltati come «buoni selvaggi»: «alla larga - postilla Spinazzola - da certi elogi populistici, davvero peggiori degli insulti». Ma anche per gli ultimi vent’anni, non mancano interventi di tenore più politico, se Macno di Andrea De Carlo è sì rappresentante di un «intrattenimento letterario piacevole, estroso» che comincia a farsi apprezzare dal pubblico, non è però privo di «un buon margine di futilità», testimoniando «la diffusione di atteggiamenti antipolitici, o almeno prepolitici, di facile presa ( )». Gli argomenti di Spinazzola sono sempre motivatissimi sul piano del contenuto come sul piano formale: come quando affianca la fisionomia di Arbasino («più elegantemente mondana») e quella di Busi («più corposa e sanguigna»), ambedue tese a «restituire l’immagine di una Padania che si proietta entusiasticamente su un orizzonte cosmopolita ma nello stesso tempo appare in preda a una nevrosi psicosociale conturbante». O come quando affronta il romanzo più celebre di Susanna Tamaro chiedendosi dove va la scrittrice con questo suo libro. Risposta: va «da una tonalità prevalentemente melodrammatica ad una patetico-elegiaca, ma soprattutto ha chiarito a se stessa la sua vocazione per le forme di scrittura più semplificate e agevoli». E dove va Erri De Luca con Tu, mio?. Risposta: verso «arditezze immaginose», verso «una sonorità artificiosamente iperletteraria», verso una prosa «liricamente ispirata: con risultati ostici da mandar giù», nonostante le «ottime intenzioni civili e morali». Infine, dove va Alessandro Piperno? Ci sono bestseller che si fondano sull’apprezzamento delle élites colte e altri che nascono dal passaparola. Con le peggiori intenzioni «coniuga la leggibilità con la monotonia» e sta con i primi: «Sembra fatto apposta per incontrare un desiderio diffuso di modernità moderata, attraverso la ripresa di elementi tipici della grande tradizione novecentesca, aggiornati in chiave manieristica». A questo punto aspettiamo da Spinazzola una nuova puntata. Quella sui giovani narratori che «si sono lasciati alle spalle l’alternativa secca tra avanguardismo e tradizionalismo: e quindi sperimentano strutture d’intreccio, mescolano linguaggi alti e bassi, sbizzarriscono l’estro creativo, provocano magari il lettore medio». Sono gli autori con i quali il critico confessa di essere più in sintonia. Dunque si spera che non siano condannati dal suo silenzio.
«Corriere della sera» dell’11 giugno 2007

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