16 luglio 2007

Il tramonto della privacy

Il futuro dell’economia e dei rapporti umani secondo il più famoso studioso americano delle nuove tecnologie
di Massimo Gaggi
Paul Saffo: rischiamo tutti una «società del ricatto»
«La memoria della Rete presto sarà una minaccia»
«Con la diffusione dei nuovi personal media elettronici, giornali e tv sono nella tempesta. Non scompariranno, ma il loro ruolo cambierà. Quello che sta accadendo al giornalismo, costretto a inventarsi percorsi nuovi, è, però, solo un aspetto di una realtà molto più complessa: nell’era di Internet le tecnologie digitali sono il solvente che scioglie la colla delle istituzioni tradizionali». Pur essendo stato per venticinque anni l’anima dell’Istituto per il futuro di Palo Alto, Paul Saffo non ama essere definito un futurologo, anche perché la lingua inglese non fa differenza tra futurologo e futurista e lui non vuole essere scambiato per un artista dell’Italia del Ventennio. «Sono uno spettatore professionista», gioca con le parole lo studioso che all’università di Stanford analizza l’impatto delle nuove tecnologie sull’economia e la società. E che la Silicon Valley si è scelta come suo oracolo. L’«uomo nuovo» che lei descrive nei dibattiti e nei suoi scritti non è più un consumatore, né un lettore abituale, né un elettore davvero in grado di contare. Il «prosumer» è uno che partecipa attivamente alla creazione dei contenuti che poi utilizza. Un «creatore», dice lei. Ma gli scenari sociali che descrive non sono per nulla rassicuranti. «Vedremo. La società dei creatori può produrre valori che durano, un nuovo impegno sociale, o essere un fallimento: un altro caso di grandi civiltà che cadono perché trasformano tutto in intrattenimento. Io ho fiducia nel nuovo e quindi rimango ottimista nel lungo periodo, ma sono pessimista sul breve termine perché c’è il rischio di sviluppi negativi in vari campi: da quello sociale, nel quale assistiamo a una sorta di abolizione del concetto di "privacy" da parte dei più giovani, alla politica: Internet sta mettendo alle corde i meccanismi della democrazia rappresentativa». Saffo, figlio di una coppia incontratasi nel dopoguerra a Venezia (il padre era un medico di Praga, la madre un’americana che lavorava all’American Express e nel tempo libero faceva la baby-sitter a casa di un Cipriani già celebre ristoratore), è abituato a parlare la lingua della sociologia, della massmediologia, dell’ingegneria dei sistemi, non quella della politica. Ma nella California che rivoluziona i tradizionali confini tra i partiti e nella quale Arnold Schwarzenegger si muove più come il capo di una nazione che come un governatore - firma accordi col premier britannico Tony Blair, impone i suoi standard ecologici all’industria automobilistica, contesta la politica del presidente Bush in vari campi, dall’energia alla ricerca sulle cellule staminali - le mappe di Saffo hanno una loro utilità. L’era dei media ha cambiato i meccanismi della politica, ma non le sue regole che, negli Usa, sono ancora quelle di due secoli fa: si vota a novembre, dopo la semina, e la California, che ha un Pil superiore a quello di qualche Paese del G8, elegge due senatori come qualunque altro Stato, dall’Alaska che ha 700mila abitanti al minuscolo Rhode Island: tremila chilometri quadrati, come la Valle d’Aosta. «Quella dei media tradizionali era ancora un’epoca di comunicazione lenta. Con Internet le cose cambiano: tutto avviene ad alta velocità, ogni azione politica provoca sulla rete un "feed back", una reazione immediata e misurabile. Eppure noi votiamo ancora non per il presidente ma per collegi elettorali statali che a loro volta eleggono il presidente. Il capo della maggioranza parlamentare lo chiamiamo ancora speaker: ma si rende conto? Quanto può durare?». Qual è l’alternativa? La democrazia diretta telematica? «Il sistema attuale è già in macerie. Guardi in che condizioni è Bush. Non so se arriverà la democrazia diretta, ma so che il parlamentarismo non funziona più. Se non si riesce a riformare il sistema, si creerà una situazione di fatto nella quale i canali decisionali informali conteranno più di quelli formali. Già stiamo andando in quella direzione. E i casi di votazioni sul filo del rasoio con esito contestato, come quelle della Florida, saranno sempre più frequenti perché l’uso massiccio delle tecniche di marketing nelle campagne elettorali tende a equilibrare il peso dei due campi: non ci saranno più candidati eletti a valanga». In Italia abbiamo Berlusconi che spesso sembra tentato dalla «democrazia dei sondaggi». «Sono felice che Berlusconi non faccia politica negli Stati Uniti, ma devo dire che osservo con molto interesse la sua avventura a cavallo tra politica e grande impresa. È inquietante, ma è un segno dei tempi. Tra l’altro, con la sclerotizzazione degli Stati-nazione, in futuro crescerà il ruolo di altre entità: dalle organizzazioni non governative alle grandi imprese multinazionali». Schwarzenegger, che non può puntare alla Casa Bianca perché è nato in Austria, è allora già, di fatto, un capo di Stato? «Il mondo non è più quello del Trattato di Westfalia. Tra mezzo secolo gli Stati Uniti - come li conosciamo oggi - forse non esisteranno più. L’Europa ha inseguito a lungo l’unità politica, la mancata realizzazione del sogno di Jean Monnet ha provocato molta frustrazione. Io penso, invece, che le strutture attuali della Ue siano più adatte di quelle americane ad affrontare un’era nuova nella quale le regioni come la Catalogna o la Lombardia o le città-Stato come Singapore o il bacino San Francisco-Silicon Valley avranno più peso delle singole entità statali». Ma la difesa, la sicurezza interna, il diritto all’uso legale della violenza appartengono pur sempre alle nazioni. «È vero. Ma anche questa non è una realtà immutabile. Qualche tempo fa Bush, dovendo mandare più soldati in Iraq, chiese a Schwarzenegger di inviare al confine col Messico soldati della California al posto di quelli dell’esercito federale. Il governatore gli ha risposto con un secco "no". Vent’anni fa sarebbe stato impensabile. L’America spende per la difesa più di tutto il resto del mondo messo insieme. Con un "ritorno sull’investimento" poco confortante, a giudicare dal suo prestigio e dal suo ruolo nell’era Bush. Qualcosa, prima o poi, cambierà. Io vedo indizi perfino nell’architettura. Quali sono gli edifici più imponenti costruiti dall’uomo? Prima sono stati i castelli, poi è venuta l’era delle grandi cattedrali, infine quella degli splendidi municipi e delle sedi governative monumentali. Oggi l’edilizia più sontuosa e simbolica è quella dei grattacieli delle grandi corporation». Affascinante, ma chi detiene storicamente il potere non accetta facilmente riforme che glielo sottraggono. «Forse assisteremo anche a processi violenti. Come le ho detto, non sono necessariamente ottimista. Nelle mie analisi distinguo tra scenari che considero auspicabili e ciò che le forze in campo tendono naturalmente a produrre. È come per Internet: è un fenomeno positivo e la sua marcia è inarrestabile, ma ogni volta che partecipo a un convegno invito gli apologeti, quelli che pensano che la rete renderà la nostra vita migliore, a essere più cauti». Niente democrazia diretta elettronica, allora. «Internet oggi ci appare uno strumento democratico, aperto, sempre accessibile: il massimo della democrazia. Ma con la maturazione del sistema sorgeranno steccati, aree esclusive, proibizioni. Oggi vedo troppo entusiasmo, soprattutto nei giovani, che non hanno più alcun senso della privacy. Potrebbe costar loro caro, da qui a qualche anno». Che cosa intende dire? «La My Space generation esibisce tutto nella grande piazza elettronica, dai dati personali alle confidenze più intime. Tra qualche anno avremo milioni di affermati professionisti potenzialmente ricattabili con immagini e memorie delle disinvolture giovanili. Una specie di versione interpersonale del vecchio "equilibrio del terrore" Usa-Urss, nel quale ognuno può minacciare il dirimpettaio di metterlo in imbarazzo. Oltretutto, in una società che mette tutto più in piazza la cosa più preziosa diventa proprio il segreto. Non so che società stiamo costruendo. Gliel’ho detto: non sono un futurologo, solo uno spettatore di professione».
Paul Saffo è stato per oltre vent’anni l’anima dell’Istituto per il futuro di Palo Alto. Attualmente insegna all’università di Stanford
Per Saffo, la My Space Generation sta rinunciando al diritto di privacy
«Corriere della sera» dell’11 giugno 2007

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