04 luglio 2007

Eterna giovinezza, il mito che uccide

Nel dramma «Jezabel» Irène Némirovsky anticipa le ossessioni di oggi
di Isabella Bossi Fedrigotti
La mania della bellezza nella Parigi degli anni Trenta
Cosa faceva una donna, sessanta, ottant’anni fa, che, come ce ne sono state in tutti i tempi e come ce ne sono, in modo particolare, oggi, di invecchiare non ne voleva sapere? S’incremava, si curava, faceva, chissà, bagni nel latte d’asina, forse, se era particolarmente aggiornata, si dedicava all’esercizio fisico, s’imponeva delle diete, anche bizzarre, come, per esempio, quella dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, mai rassegnata a ingrassare e sfiorire, fatta di un bicchierino quotidiano di aceto. Naturalmente, questa donna determinata a non invecchiare, si tingeva anche i capelli e tentava miracoli in sartoria, con busti, stecche e accorgimenti vari che le ridessero, almeno apparentemente, la sottigliezza e la flessuosità di un tempo. In mancanza di lifting, liposuzione, laser, collagene, botulino e jaluronico, tutti quanti ancora di là da venire, poco altro potevano fare, le poverette. Tranne - ed era il metodo più seguito - abbassarsi sistematicamente, alla faccia della verosimiglianza, l’età anagrafica; le più audaci falsificandola anche sui documenti. Gladys Burnera, protagonista del romanzo di Irène Némirowsky, Jezabel (tradotto da Laura Frausin Guarino per Adelphi), pubblicato per la prima volta nel 1936, sei anni prima che l’autrice di Suite francese, di origine russa, ma vissuta per lo più in Francia, scomparisse ad Auschwitz, va un poco oltre: abbassando cioè, oltre all’età sua, anche quella della figlia, cui impedisce, diciottenne, di prendere marito, per non dover rivelare, in qualità di «madre della sposa» di non avere più i trent’anni che va dichiarando in giro. Il tutto allo scopo di non «disgustare», lei che si trovava ormai tra i quaranta e i cinquanta, il suo trentacinquenne amante, che, tra l’altro, aveva rifiutato più volte di sposare, ufficialmente per non perdere la sua libertà, in pratica per non essere costretta a tirare fuori dei documenti, sui quali la sua età era stata abbassata, ma non abbastanza per risultare, come avrebbe desiderato, più giovane del fidanzato. La parte che si era scelta una volta per sempre era, infatti, quella della bimba fragile da coccolare e proteggere. Con simili premesse, figurarsi cosa succede il giorno in cui la sventurata - perché è questo, per l’autrice, il contrassegno di una donna così - scopre di avere un nipote ventenne, figlio di quella figlia cui aveva impedito di sposarsi, l’esistenza del quale non può che marcarla indelebilmente come nonna, dunque vecchia, e, di conseguenza, automaticamente esclusa per sempre, dal magico, luminoso circuito dell’amore. Némirowsky tende a essere severa con la sua protagonista, decretando per lei un destino amaro. Ce la racconta superficiale, egoista, morbosamente ossessionata dall’eterna giovinezza. Prima di giudicarla, si sente che esita un poco, turbata da quel tormentoso assillo, ma poi, sia pure con eleganza, senza infierire, abbassa il pollice: magari perché lei stessa aveva poco più di trent’anni quando scriveva Jezabel. E non ne ebbe mai molti di più per potere ripensare alla sua sfortunata eroina, eventualmente ritornando sui suoi passi. Non per questo si mostra meno capace di intercettare la sofferenza di Gladys Burnera, nel comprendere la sua disperazione al pensiero di non avere mai più accesso al giardino incantato, cioè all’amore di un uomo. Sebbene l’autrice, pur pietosamente, condanni il rifiuto di accettare l’avanzare dell’età, ha ben presente l’antica e irreparabile ingiustizia per la quale una donna è vecchia quando il suo coetaneo per molto tempo non lo è ancora, e una vecchia, va da sé, può ispirare, al massimo, buoni sentimenti filiali. Ingiustizia che le opere di manutenzione e restauro messe a disposizione dalla moderna medicina hanno un poco attenuato, nel senso che oggi nessuno più si sognerebbe di giudicare, come all’epoca di Irène Némirowsky, «passata» una quarantenne e perfino le cinquantenni cominciano, sempre più spesso, a essere definite «piacenti». Tuttavia, poiché la moderna medicina offre gli stessi rimedi delle donne, più alcuni specifici, anche agli uomini, si può dire che siamo daccapo, che nulla davvero è cambiato, visto che ormai anche settantenni e ottantenni possono essere fermamente in pista, mentre alle loro coetanee, fossero anche rimesse a nuovo da capo a piedi, quasi mai è concesso di uguagliarli. Ciliegina sulla torta e causa scatenante della follia finale è l’evidenza, sia pure a lungo tenuta segreta, che l’ultimo giovane innamorato tradisce l’attempata - e danarosa - fidanzata con una ragazza di ventun anni. Punizione giusta e normale, anche agli occhi dell’autrice, per avere, la vecchia Gladys, sacrificato la felicità della figlia sul suo privato altare dell’eterna giovinezza.
Irène Némirovsky è nata a Kiev nel 1903 ed è morta ad Auschwitz nel 1942. Da Adelphi sono già usciti «Il ballo» e «Suite francese». Ora è nelle librerie «Jezabel» (traduzione di Laura Frausin Guarino, pagine 194, euro 16,50)
«Corriere della Sera» del 28 aprile 2007

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