04 luglio 2007

Un lungo racconto tra bellezza e orrore

L’iconografia dell’Apocalisse
Di Francesca Bonazzoli
Dalle xilografie del Dürer alle guerre del XXI secolo, un tema da epoche tormentate
Nelle catacombe, ovvero nei luoghi dove nasce l’iconografia cristiana, l’Apocalisse non compare mai. Per vederne le prime illustrazioni bisogna aspettare il V secolo quando, con i mosaici di Roma e Ravenna, la Rivelazione entra nel repertorio di immagini prodotte dalla nuova arte che sostituirà quella greco romana. Ma è nei secoli XI e XII che il tema giunge al suo apogeo, illustrato in codici miniati, tappezzerie, vetrate, affreschi. Il motivo per cui intere epoche hanno ignorato l’Apocalisse, viene spiegato col fatto che la visione, scritta in un periodo di crisi sociale e politica, nonché di persecuzione della chiesa, ritrova la sua attualità in epoche di tribolazioni, nutrite dall’angoscia per la fine dei tempi. L’Apocalisse è la grande epopea della speranza cristiana, il canto di trionfo della chiesa perseguitata, messaggio di certezza nella vittoria di Cristo attraverso la sua seconda venuta (la Parusìa). Non è un caso che una delle interpretazioni più magistrali, quella di Albrecht Dürer, grande devoto di Lutero, nacque in pieno conflitto fra la chiesa di Roma e quella che diventerà la chiesa protestante. Le sue quindici xilografie fecero scuola per tutta una serie di stampe che ebbero fortuna soprattutto nel Nord Europa perché i protestanti leggevano l’Apocalisse come la vittoria della chiesa riformata e perseguitata su quella corrotta della Roma papale, equiparata all’Anticristo. Del resto l’Apocalisse era stata già interpretata come il trionfo sulla Roma imperiale persecutrice dai primi cristiani o sull’Islam da parte dei Crociati. Le stesse autorità ecclesiastiche ne avvertivano l’ambiguità tanto che, dopo lungo discutere, ne decisero la canonizzazione solo dal III secolo mentre la Chiesa d’Oriente la ammise non prima del XIV secolo. Ecco perché nell’arte bizantina il tema è tardo e non ha goduto di altrettanta rilevanza. Al contrario, gli artisti occidentali si sbizzarrirono nell’illustrazione degli episodi di cui si compone la visione: i quattro cavalieri, la pioggia di stelle, l’Eterno sopra le città in fiamme, le locuste con teste umane, gli angeli che colpiscono il papa, l’imperatore e il cittadino, il dragone dalle sette teste, la nuova Gerusalemme e così via. Fino al punto da sovrapporre e confondere diverse iconografie, soprattutto nella pittura a olio dove il tema viene illustrato in singoli episodi isolati. Alcuni, come per esempio la lotta dell’arcangelo Michele contro il Dragone, di cui Raffaello dipinse l’immagine per eccellenza, sono chiaramente riconoscibili. Ma più spesso avvennero curiose commistioni, come nel caso dell’Immacolata Concezione. Il concepimento di Maria senza peccato originale nel grembo della madre Anna fu uno dei dibattiti teologici centrali nei secoli XII e XIII finché, all’inizio del XVII secolo, la Spagna ruppe gli indugi. Ma come rappresentare la Vergine concepita pura da Sant’Anna? Fino ad allora si era fatto ricorso a Maria nuova Eva, intenta a calpestare un serpente, secondo le parole di Dio nella «Genesi»: «Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa...». Nel 1649, però, Francisco Pacheco del Rìo, pittore e censore artistico dell’Inquisizione, codificò l’immagine dell’Immacolata unendo i caratteri di Eva vincitrice sul serpente (Genesi) con quelli della donna incinta dell’Apocalisse (12,1-14,20): «...una Donna rivestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle» sopra un Dragone con sette teste pronte per divorare il figlio che sta per nascere. Anche il tema del Giudizio Universale si prestò a commistioni con l’episodio dell’Ultimo combattimento dall’Apocalisse. Il caso più spettacolare della loro ibridazione è il polittico dell’Agnello mistico di Jan Van Eyck. Il comparto centrale presenta la scena dell’Apocalisse con l’agnello sull’altare (7, 9-17), ma circondato invece che dal libro dei sette sigilli, dai simboli della Passione, come nell’iconografia del Giudizio universale di cui mancano però dannati, beati e San Michele che pesa le anime. Esaurita la sua fortuna nel XVI secolo, l’Apocalisse ricompare in Russia nel XVIII secolo dopo i «temps des troubles» e, in Europa, dopo le ecatombi delle guerre mondiali con le incisioni di Edouard Goerg, Henry de Waroquier, Giorgio De Chirico. Oggi che si fa molta arte sulla religione, ma non più arte religiosa, l’Apocalisse ha cambiato significato e iconografia: non più lotta finale del bene sul male, certezza della seconda venuta di Cristo e della costruzione della Gerusalemme celeste, bensì forma stessa degli orrori dell’umanità: droga, violenza, sesso, guerra, terrore e ogni sorta di visione infernale, come quelle che la tv trasmette dall’Iraq, dal Darfur, dal Rwanda, dall’Afghanistan. Non l’avvento di una nuova terra sotto un nuovo cielo, ma l’inferno sulla terra di cui siamo diventati partecipi voyeur. Alla Royal Academy di Londra, nel 2000, la mostra «Apocalypse» proponeva il fascino di tale spettacolo: il connubio inestricabile fra orrore e bellezza. Un paradiso che giace nel cuore della tenebra, come sapevano Joseph Conrad e Francis Ford Coppola.
«Corriere della Sera» del 29 aprile 2007

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