04 luglio 2007

Da Dante a Luzi, quella metafora che piace all’arte

Di Paolo Di Stefano
All’inizio del Trecento il limbo era stato inventato da poco. Ma se Benedetto XVI fosse vissuto al tempo di Dante, probabilmente la Divina Commedia sarebbe un poema zoppo o comunque il IV canto dell’Inferno sarebbe oggi un’altra cosa. Perché nel capolavoro dantesco mancherebbe il limbo. Il luogo cioè in cui sono collocate le anime di coloro che non peccarono ma che non poterono conoscere Dio: i «pargoli innocenti» morti senza battesimo e i virtuosi pagani. Ovviamente quei poveracci che appaiono dalle tenebre sono almeno avvolti da un emisfero di luce e non subiscono nessuna pena corporale, ma la loro sofferenza, che si esprime in lunghi sospiri, nasce dal desiderio inappagabile di vedere Dio. Dante è appena svenuto per la prima volta (sverrà anche nel canto successivo), mentre si apprestava a passare l’Acheronte. Un forte tuono lo risveglia proprio quando si trova, con Virgilio, sull’orlo dell’abisso infernale. Il maestro impallidisce. Di cosa ha paura? Non è paura, è la pietà che prova nei confronti delle anime del primo cerchio, il limbo appunto, cui lui stesso appartiene. Eh sì, perché Virgilio ebbe la sfortuna di vivere prima di Cristo. Esattamente come le ombre dei quattro grandi poeti che i due incontreranno tra poco: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Tutti condannati al limbo, pur avendo lasciato di sé, sulla terra, onore e fama. Per la verità, anche un altro stuolo di anime, in passato, avevano visto provvisoriamente la luce del limbo, e cioè i patriarchi dell’Antico Testamento, ma appena risorto, Cristo se li portò con sé in Paradiso. Per gli altri non c’è speranza, compresi Virgilio e la schiera degli «spiriti magni» tra cui Dante sistema un bel po’di eroi legati alla leggenda e alla storia di Roma, oltre a filosofi, scienziati e scrittori del mondo greco e romano, ma persino (udite, udite!) alcuni personaggi del mondo arabo come il Saladino e i filosofi Avicenna e Averroè. La parola più frequente del IV canto è «onore«. Il limbo è una prigione, una sorta di Rebibbia per gli uomini d’onore si potrebbe affermare con un sorriso. Se non fosse che sull’onore Dante non scherza: nel canto precedente c’erano i vili, qui invece si trovano i veri magnanimi. Forse, se allora il limbo non fosse stato inventato o se fosse stato precocemente abolito, Dante non avrebbe scelto neppure Virgilio come sua guida, perché la condizione «limbica» era l’ideale per un maestro che comunque, alla soglia del Paradiso, avrebbe dovuto cedere il passo a Beatrice. Ma certo, con il primo cerchio dantesco crollerebbe a cascata una bella fetta di arte italiana (e non solo) che ha dipinto non poche «discese al limbo», da Giotto a Mantegna. Ma a differenza del popolo dei fedeli dal Medioevo a oggi, la letteratura italiana sembra aver creduto più alla metafora che all’ipotesi teologica: tant’è vero che tra i nostri scrittori citano il limbo vero e proprio, en passant, solo Machiavelli, Carducci, Pascoli, che ne segnala correttamente l’etimologia: «il "lembo" come dice la parola; od orlo». Uno dei pochi moderni a prenderlo sul serio è stato Mario Luzi, che in un famoso saggio opponeva l’infernale (e prediletto) Dante al «limbale» (e un po’asettico) Petrarca. Ma ora che i teologi l’hanno mandato a quel paese o meglio all’inferno, del limbo non resterà forse che il ricordo di una bella metafora.
«Corriere della Sera» del 21 aprile 2007

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