04 luglio 2007

Erdogan e Dico: la religione stia fuori

di Bill Emmott
Una folla di almeno 300 mila persone si è radunata sabato 14 aprile ad Ankara per protestare contro la candidatura alle elezioni presidenziali dell’attuale primo ministro turco, Tayyip Erdogan, che si professa musulmano devoto. I manifestanti sostengono che politica e religione devono restare separate, proprio come voleva Kemal Ataturk quando gettò le basi del Paese nel 1923, fondando uno Stato laico. La tesi dei contestatori, tuttavia, viola altri principi costituzionali, sostenendo appunto l’ineleggibilità di Erdogan a una carica istituzionale semplicemente per motivi religiosi. Perché tiro in ballo questo avvenimento? Proprio perché solleva la stessa questione cruciale che agita attualmente il dibattito politico italiano sull’ingerenza della Chiesa cattolica riguardo omosessuali e coppie di fatto. La questione si riassume in questi termini: fino a che punto è lecito consentire a opinioni religiose, e a istituzioni ecclesiastiche, di condizionare la politica di una democrazia? Il principio non si discute: occorre tener separata la religione dagli affari di Stato. I cittadini possono aderire a fedi diverse, e persino a interpretazioni diverse delle stesse fedi. Lo Stato, però, deve trattare i diritti e le opinioni di tutti i suoi cittadini equamente, a prescindere dalla religione. Ma la pratica, come tutti sappiamo, è un’altra cosa. Difatti, se esiste anche la libertà di espressione, allora tanto ai vescovi cattolici che ai musulmani devoti dovrà essere garantita la possibilità di far conoscere i propri punti di vista. Se si oppongono alla legalizzazione dei matrimoni omosessuali, che lo dicano pure. E che anche alle voci contrarie sia consentito di sostenere tesi opposte. Poi deciderà il Parlamento. Tuttavia, il conflitto nasce dal fatto che i vescovi non si limitano a presentare le proprie tesi individuali, ma sfruttano, implicitamente, il potere della loro istituzione per influenzare i parlamentari ben al di là di quelle che sono le questioni sul tappeto. In questo non si distinguono molto dal modo di agire di un sindacato, che presenta le sue proposte ma minaccia anche, implicitamente o esplicitamente, di arrivare ai suoi scopi con altri mezzi. Se i sindacati si comportano a questo modo, perché non dovrebbe farlo anche la Chiesa cattolica? Pertanto non si tratta semplicemente di una questione di religione e politica, ma del modo in cui grossi gruppi di interesse manovrano il potere in seno a una democrazia, e lo fanno per sovrastare, con più voti e più influenza, i loro avversari. È nell’interesse di noi tutti condurre una lotta incessante contro questa tendenza, che provenga dai sindacati, dalle grandi imprese o dalla Chiesa cattolica. In questa battaglia, i mezzi di comunicazione svolgono un ruolo cruciale. Se usati correttamente, i media hanno la capacità di trasformare tali scontri in dibattiti fondati sulla ragione, anziché sulla fede o sul potere. Ad esempio, se il dibattito sul diritto legale degli omosessuali al matrimonio viene basato sulla ragione, allora la risposta è chiara. Qualunque opinione religiosa contro l’omosessualità diventa irrilevante al dibattito, poiché l’omosessualità in se stessa è già legale, per fortuna. Pertanto, la questione del matrimonio omosessuale non riguarda la natura dell’omosessualità, bensì se gli omosessuali hanno o meno il diritto di assumere specifiche responsabilità reciproche, che abbiano effetto legale e siano codificate dalla legge. La risposta, certamente, è sì. Posso non essere d’accordo sul matrimonio di tante persone, per tanti motivi diversi, ma questo non mi dà il diritto di impedire loro di accedere a un vincolo legale che non riguarda minimamente la mia posizione. Il vescovo cattolico può benissimo, se così vuole, ammonire il suo gregge contro l’omosessualità, così come può dire ai credenti di non far uso di anticoncezionali: i cittadini sono comunque liberi di accettare o ignorare i suoi consigli. E le opinioni del vescovo non rappresentano un valido motivo per negare agli omosessuali, o alle coppie di fatto, la piena parità dei diritti legali. Il ruolo dello Stato è proprio quello di garantire e proteggere questi diritti. I manifestanti di Ankara hanno altrettanto torto, dal mio punto di vista, dei vescovi italiani. Erdogan ha pari diritto, come tutti gli altri candidati, ad aspirare alla presidenza della Turchia. Se non sono d’accordo con le posizioni islamiche del suo partito, i cittadini potranno semplicemente fare a meno che venga votato alle prossime elezioni.
«Corriere della Sera» del 21 aprile 2007

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