25 dicembre 2006

BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO A TUTTI

23 dicembre 2006

I nostri auguri a Welby. Controcorrente, ma sinceri

Nel vitalismo odierno, venature di necrofilia
di Francesco D'Agostino
Che cosa veramente "vuole" Piergiorgio Welby? Intendo: cosa vuole lui, proprio lui, Welby (e non l’associazione che egli presiede o la parte politica che lo annovera tra i suoi membri)? Vuole l’eutanasia? Vuole rinunciare alle terapie di sostegno vitale cui è sottoposto? Vuole la fine di un inutile accanimento terapeutico? Vuole una "robusta" terapia del dolore? Vuole richiamare l’attenzione dei politici e dell’opinione pubblica sul valore dell’autodeterminazione dei malati, anche in casi tragici ed estremi? Vuole trasformare il suo tragico caso "privato" in un caso "pubblico", per orientare, come è lecito che faccia un leader politico, la politica sanitaria del paese?
Potrei continuare a formulare ipotesi su ipotesi (tutte peraltro ben fondate), ma sarebbe inutilmente defatigante: è evidente che Welby vuole tutto o può voler tutto ciò che si è detto. Il problema è che tutto ciò che egli vuole (o può volere) diventa, nel gioco mediatico che ci assedia da tutte le parti, costitutivamente sfuggente, ambiguo, polisenso e si presta ad essere sforzato e deformato in mille modi.
Possiamo farci qualcosa? Certo: possiamo e dobbiamo esigere da parte di tutti, e in primo luogo da noi stessi, un estremo rigore concettuale e lessicale. E’ difficilissimo, ma dobbiamo provarci ad ogni costo, se non vogliamo che il "caso Welby" divenga, come tante altre volte è successo, il pretesto per alterazioni irreversibili non solo del nostro sistema giuridico, ma anche e soprattutto della comune sensibilità etico-sociale del nostro paese.
Prendiamo come esempio un tema cruciale, quello del rifiuto delle terapie. Non possiamo confonderlo con la richiesta di eutanasia, cioè di una "buona morte", che da nessuna parte nel nostro ordinamento giuridico ottiene un qualsiasi riconoscimento. Quello del rifiuto delle cure è un diritto personale, di rango addirittura costituzionale, la cui violazione da parte di un medico (o di chicchessia) potrebbe addirittura far scattare una denuncia penale. Per un giurista questo è un dato incontrovertibile, che può essere sicuramente applicato al caso Welby: non c’è dubbio che, mentre una sua domanda di eutanasia non potrebbe che essere respinta, sarebbe invece doveroso rendere ossequio alla sua volontà, ove egli, dopo aver dato prova della sua piena capacità di intendere e di voler, esigesse la sospensione di una qualsiasi terapia gli venisse applicata, anche salvavita (ma che cosa "veramente" voglia Welby - se cioè voglia l’eutanasia o la sospensione delle cure - purtroppo non è affatto chiaro). Si può aggiungere che, così come Welby ha il pieno diritto di rifiutare una terapia, il medico che lo ha in cura ha l’assoluto dovere di praticargli le terapie compassionevoli, le terapie del dolore che meglio si adattano alla sua circostanza, anche nel caso in cui i dolori che lo possano assalire siano la conseguenza del suo rifiuto di terapie. Il caso, insomma, potrebbe giuridicamente essere ritenuto molto semplice.
Perché allora questa semplicità non viene riconosciuta? Il punto è che ciò che è semplice per il diritto (che in questi casi ragiona in modo freddo ed elementare, utilizzando il codice lecito/illecito) non lo è più, quando ci poniamo sul piano caldo e intricato dell’esperienza umana integrale, che arriva subito al vertice della complessità adottando (e non potrebbe fare altrimenti) il codice bene/male, un codice che solo gli ingenui pensano si possa ridurre nei termini (peraltro suggestivi) dell’autodeterminazione personale, delle preferenze soggettive e perfino della "dignità della vita" (espressione sfuggente e divenuta ormai polisensa). Ma proprio per questo gli appelli che vediamo continuamente rivolti al legislatore perché intervenga, con quello che è il suo unico, possibile strumento, e cioè la legge, per incrinare con riferimento a specifici casi concreti il principio ippocratico della difesa della vita, appaiono poco meditati: la legge, strumento inevitabilmente freddo, rigido, burocratico, formale, è lo strumento peggiore da utilizzare quando sono in gioco questioni estreme e di frontiera, come quelle che investono vita e morte, e che chiedono invece intelligenza appassionata e sottile, duttilità, empatia, partecipazione solidale.
La medicina ha già la sua legge, alla quale i medici devono attenersi: il giuramento di Ippocrate, che proibisce l’eutanasia, ce ne presenta una delle più suggestive formulazioni. Al diritto dello Stato dobbiamo chiedere una cosa sola, che vincoli i medici al loro giuramento, che è giuramento per la vita, che li vincoli a questa fedeltà, soprattutto oggi, in un mondo in cui si diffonde un sottile e terribile gusto per la morte. A Welby qualcuno è arrivato a formulare un vero e proprio anti-augurio, terribile perché obiettivamente necrofilo: quello di non arrivare a vedere il giorno di Natale. A Welby, come ad ogni essere umano, bisogna invece fare auguri di vita: perché questa e solo questa è la cifra reale e riassuntiva della nostra comune esperienza.
«Avvenire» del 21 dicembre 2006
Nota bene: quest'articolo è apparso il giorno prima dell'assassinio di Welby, e quindi le frasi finali sembrano essere una profezia ... purtroppo avveratasi.

Positivismo fra utopia e libertà

«Nel complesso, la sociologia dell’Ottocento non ha aiutato affatto la problematica sulla vita in comune dei soggetti, non ha fatto luce sui conflitti che animano la società e soprattutto sulla violenza che ne è una caratteristica. Occorre chiedersi se il comunismo non sia figlio del clima sociologico, se non altro perché è partito dalla condizione delle fabbriche e dall’analisi dei salari. Se così fosse, il giudizio sull’apporto sociologico si farebbe certo più rilevante»

di Vittorino Andreoli
Quando il vigore dell'idealismo tedesco andò affievolendosi, e cioè verso il 1830 con la morte di Hegel, sorse in Francia il movimento positivistico. Il conte Claude de Saint-Simon (1760-1825) ne è considerato il precursore, ma fu Auguste Comte il vero leader di questa scuola. Il positivismo si pose come reazione alla filosofia sistematica e alla metafisica; contro gli astrattismi (compresi quelli dell'Illuminismo) e dichiarò di volersi occupare esclusivamente dei fatti.
Per chi si occupa di diritto il positivismo riveste una notevole importanza per il suo tentativo di fondare una scienza nuova: quella dei fatti sociali, che Comte chiamò sociologia.
Il punto di partenza è l'idea della dipendenza sociale dell'individuo, della differenza tra società e Stato e della necessità di uno studio positivo delle condizioni sociali.
Sarà utile, allora, ricordare alcuni filoni, strettamente legati ai rappresentanti più significativi della scuola, a partire da Comte.

LA SOCIOLOGIA SINTETICA: AUGUSTE COMTE. Si evidenzia subito il bisogno di una scienza che si occupi di tutti i fenomeni sociali e dunque che elimini le pseudo-scienze che l'avevano preceduta (morale, politica, filosofia del diritto...), basandosi su un metodo rigorosamente positivo e sulla scorta del divenire dei fatti sociali. Si possono distinguere due fasi nel pensiero di Comte. La prima è rappresentata dai sei volumi del Cours de philosophie positive (1830-1842). La filosofia non ha altro compito che quello di classificare le scienze e - al di sopra delle scienze dei numeri e delle figure, dei corpi inorganici e degli organici - deve porsi una scienza dei fatti sociali fondata sugli stessi criteri; ciò che si può ben sintetizzare con la formula di «physique sociale» (fisica sociale).
I fatti umani, cioè, vanno studiati seguendo i criteri che si applicano alla fisica.
«È parte complementare della filosofia naturale, che concerne lo studio positivo del complesso delle leggi fondamentali proprie dei fenomeni sociali» (Cours de philosophie positive, lezione 47).
Occorre prima di tutto studiare le condizioni di esistenza delle società sotto l'aspetto statico: ciò che porta alla nozione di «ordine». Il concetto fondamentale è quello di «consensus», considerato come legame. È questa una sorta di anatomia sociale che non si limita all'analisi delle caratteristiche dei singoli, ma si dedica in particolare all'influsso dell'azione reciproca degli individui.
Lo studio diventa così l'analisi delle azioni e reazioni reciproche tra le varie parti del sistema sociale.
La statica deve essere integrata dalla dinamica sociale e questa è denominata progresso: un movimento continuo delle società. Come legge fondamentale della dinamica, Comte considerava quella dei tre stati: l'umanità passa dapprima attraverso una fase teologica, in cui i fenomeni sono spiegati ricorrendo a entità artificiose, gli dèi; quindi attraverso una fase metafisica o astratta dove si ricorre a spiegazioni mediante entità insussistenti (enti, sostanze, essenze...); infine trova la sua conclusione nella fase positiva.
Comte pensa alla sociologia come a un incipit per la politica, nel senso che la conoscenza delle leggi che reggono i fenomeni sociali circoscrive «i limiti fondamentali e il carattere essenziale dell'azione politica propriamente detta».
Vi è uno stretto nesso, infatti, tra istituzioni politiche e costumi sociali (Cours de philosophie positive, lezione 48).
L'applicazione al campo della politica avvenne nel Système de politique positive, ou Traité de sociologie instituant la religion de l'humanité (4 voll., 1851-1854). Comte conserva la fede nella ragione, nella perfettibilità umana e confida molto più nell'autorità che nella libertà, condividendo l'entusiasmo dei romantici per la società medievale e per il cattolicesimo, proprio perché incentrati sul concetto di autorità. Questo tema provocò molte discussioni e persino dissidi all'interno della stessa scuola positivistica.
John Stuart Mill, ammiratore e sostenitore di Comte, nel saggio La libertà (1859), dimostra il principio secondo cui il solo fine per il quale gli uomini sono autorizzati a intralciare la libertà d'azione dei propri simili è la protezione di se stessi. Il solo intento per cui può essere esercitata un'autorità, quindi, è quello di impedire che si rechi danno ad altri. Mill conclude affermando che la sfera della società riguarda solo l'ambito nel quale l'azione di un individuo può danneggiare gli altri, mentre in quello che riguarda esclusivamente l'individuo, l'indipendenza di questi è di diritto assoluto. Qui la società può avere solo un interesse indiretto: si tratta della sfera che comprende la libertà di pensiero, di opinione, di foggiarsi da sé il piano della propria vita. Certo non è facile separare i due domini: fino a che punto l'ignoranza di un individuo può essere considerata un suo fatto personale? Non è questa spesso causa di mali altrui?
È facile constatare come nella società moderna niente o quasi niente di ciò che può fare l'individuo sia indifferente rispetto alla società.
Mill rappresenta però una sorta di autore limite: crede nella sociologia, ma al tempo stesso intende rimanere fedele al liberalismo.
A Herbert Spencer, che a differenza di Comte non si era limitato a generalizzazioni e a princìpi, spetta invece il tentativo di fondare in maniera veramente positiva la sociologia.
Scrisse i Princìpi di sociologia (3 voll., 1877-1896): una massa enorme di materiale. Spencer si servì soprattutto della etnografia sorta sul finire del XVIII secolo a opera dei missionari e trasse un sussidio anche dall'evoluzionismo di Charles Darwin. Il principio fondamentale della sua elaborazione, non a caso, è proprio quello della evoluzione. Per Spencer vi è una unità di evoluzione progressiva, che dai fenomeni inorganici si estende a quelli organici, poi a quelli sociali ed etnici; è la legge del passaggio dall'indifferenziato al differenziato .
Un percorso accompagnato dall'unità pure della mente umana, per il quale le leggi del pensiero sono uguali dappertutto; e i selvaggi contemporanei sarebbero simili ai nostri antenati, cioè agli avi preistorici dei popoli civili.
Nel processo evolutivo vi è dapprima l'orda in cui la vita è promiscua, tutti esercitano le medesime funzioni e manca ogni autorità (l'idea era già stata di Johann Jakob Bachofen). L'orda agisce in un sistema sociale in cui si distinguono varie funzioni: la società è infatti un tutto armonicamente ordinato, composto di parti ognuna con un ufficio proprio in relazione al tutto. L'evoluzione conduce da una società primitiva, in cui domina l'autorità centrale, a società sempre più differenziate, nelle quali l'autorità cede sempre più il posto alla libertà, divenendo la vita sociale sempre più la conseguenza di un armonizzazione spontanea degli individui. Si passa dalla prima società militare alla società industriale.
Nei Princìpi di etica (2 voll., 1892-1893) Spencer si spinse ad affermare che si sarebbe giunti a un punto di sviluppo nella società in cui con l'eliminazione dei fattori perturbatori e con l'adattamento progressivo all'ambiente sociale, il concetto di obbligazione e quindi quello di dovere e di obbligo morale sarebbero spariti. Si sarebbe allora affermata un'etica ideale, fondata sul principio dell'eguale libertà per tutti, la quale renderebbe inutile la coazione del diritto e quindi dello Stato. Il punto finale della evoluzione, secondo Spencer, è perciò un liberalismo anarchico.
Tuttavia le idee di Spencer furono presto sottoposte a critica, perché piene di «a priori» e con riferimenti alle società primitive non adeguatamente vagliati.
Insomma, ci si trovava ancora tra fantasia e utopia. In particolare era difficile capire l'acquisizione di una sempre maggiore libertà quando la società andava specializzandosi sempre di più, il che significa acquisire funzioni sempre più connesse con altre, e ciò semmai ha il s enso di una dipendenza del singolo dall'organismo nel suo insieme. Insomma, più che di liberalismo spenceriano ci si trova di fronte a un organicismo sociologico.
Dominava poi il pregiudizio naturalistico secondo il quale lo studio delle origini è essenziale per spiegare la natura d'una data realtà. Come se per capire cos'è un uomo fosse più importante studiare l'embrione anziché l'individuo maturo (quello che agisce).
Queste facili critiche determinarono anche la fine della sociologia sintetica che, sulla base di audaci generalizzazioni di pochi fatti, pretendeva di trarre i princìpi completi della società e della politica. Si comprese che occorreva seguire un'altra strada, quella analitica e che bisognava esaminare molti più fatti di quanto non fosse accaduto fino allora.

LA SOCIOLOGIA ANALITICA. Occorreva studiare e capire, prima dei fenomeni complessi, quelli più semplici o elementari, e solo partendo da questi si poteva per uniformità giungere a generalizzazioni via via più ampie. Ponendo attenzione a questa dimensione, poi, ci si accorse che invece di riferirsi alla etnografia e alla biologia, era meglio riferirsi alla psicologia.
Gabriel de Tarde negli Etudes de psychologie sociale (1898) spiega il dinamismo sociale e le sue lotte con la selezione e con l'adattamento sulla base dei due concetti di imitazione e di opposizione; mentre Emile Durkheim, a capo della scuola dei piccoli fatti, spiega il fenomeno sociale mediante i concetti di simiglianza e dissimiglianza: la prima porta a una solidarietà meccanica in cui l'individuo è confuso con i suoi simili in una società di tipo collettivo che dà origine alla morale comune; la seconda a una solidarietà organica con una specificazione degli individui, che si manifesta nella divisione del lavoro sociale e dà origine al regime giuridico.
Comune a Tarde e a Durkheim è il rifiuto della psicologia di introspezione.
In questo filone rientra anche Wilhem Wundt, che parla di psicologia empirica, fondand o a Lipsia nel 1870 il primo laboratorio di psicologia sperimentale (Grundriss der Psychologie. Volkerpsychologie, 10 voll., Leipzig 1920).

LA SOCIOLOGIA PURA. Sulla scorta degli scarsi frutti della sociologia analitica, nacque un indirizzo che considera la sociologia come studio delle forme della società e dei rapporti sociali. Si comprese che mentre la psicologia o la etnografia non potevano fungere da strumenti per la ricerca, si poteva costituire la sociologia proprio come scienza astratta, che isola determinate forme, spiega gli avvenimenti per mezzo delle forze e delle configurazioni sociali, rinunciando a ogni pretesa di sollevarsi al di sopra del campo fenomenologico.
Rappresentanti di questo corso sono il Ferdinand Tonnies (Comunità e società, 1887) e Georg Simmel (Sociologia, 1908) che ha soprattutto insistito sul carattere astratto della psicologia e sul valore puramente euristico del metodo sociologico. Bisogna però ricordare in quest'ambito anche Max Weber e Vilfredo Pareto.
Non si è avverato insomma il sogno di Comte di soppiantare, attraverso la sociologia, discipline come la filosofia del diritto e l'etica.
Più modestamente, si è aggiunta un'altra disciplina a quelle che hanno resistito, e che certamente non potevano essere soppiantate dalla inconsistenza della sociologia. Non si può dire che si sia trattato di uno sforzo inutile, quanto piuttosto dell'elaborazione di una disciplina che ha posto problemi nuovi e permesso di focalizzare meglio alcuni di quelli antichi. Ad esempio, di indagare più a fondo sulla differenza tra società e Stato; attivando un'ampia riflessione sulla teoria della classe dominante, del partito politico o della classe politica.
Si discusse a lungo l'idea di Saint-Simon, secondo la quale in ogni società vi sono sempre due poteri e due classi, che sono costanti, indipendentemente da chi le rappresenta nella storia in maniera concreta. Come a dire che è fondamentale il loro ruolo: una classe che ha la direzione mor ale e intellettuale (il clero nel Medio Evo, gli scienziati nel XIX secolo), e una che ha la direzione materiale (la nobiltà nel Medio Evo, gli industriali nel XIX secolo). Pareto (Les systèmes socialistes, Paris 1902) l'aveva applicata anche al mondo economico, evidenziando come la curva dei redditi non si modifichi mai in una società: gli individui possono - individualmente - salire o scendere da un gradino all'altro, ma altri ne prenderanno il posto e la configurazione della società resterà identica. I redditi sarebbero così sempre distribuiti secondo lineamenti uniformi in tutte le società.
Nello stesso modo si procede nel mondo politico. La civiltà si riduce a una ristretta aristocrazia: essa muta nei suoi componenti (teoria delle circolazione delle élites), ma l'orbita resta su per giù sempre uguale.
L'élite è il culmine sociale che si rinnova dal basso. L'aria, diceva il visconte Georges d'Avenel, «è sempre piena d'un fruscio di scarpine di seta che scendono e di un rumore di scarponi ferrati che salgono» (Les français de mon temps).
Un'altra uniformità è data dalla legge di sviluppo dei fatti sociali, anche se vi sono dottrine diverse dei cicli storici come quella di Saint-Simon sull'alternarsi delle epoche costruttive e di quelle distruttive.
IL RITORNO DELL'INDIVIDUALISMO. Tutte e tre queste correnti della sociologia (sintetica, analitica, pura) rivelano la tendenza a reintegrare l'individuo in un ordine superiore, morale e sociale o politico, concependo il diritto in funzione di una realtà obiettiva e quindi combattendo sia la teorica dei diritti naturali innati, sia quella contrattualistica.
I positivisti concepiscono il diritto di libertà solo in funzione della vita sociale.
Il principio in base al quale i diritti dei singoli esistono solo in quanto preesistono a un ordinamento giuridico fu svolto nella cosiddetta «dogmatica dei diritti subiettivi» secondo due indirizzi. Anzitutto nella dottrina giuridica dello Stato: poiché l'ordinamento g iuridico è posto dallo Stato, che non può ammettere niente sopra o contro di sé, i singoli non hanno alcun diritto vero e proprio di fronte allo Stato, il quale può modificare e anche abolire quelle speciali facoltà che di solito sono riconosciute come diritti. Dal presupposto della personalità giuridica dello Stato si giunge a ricavare una teoria assolutistica che nega l'esistenza di diritti soggettivi fuori dello Stato.
Un secondo indirizzo è quello della scuola organicistica: concependo lo Stato con un naturalismo antropomorfico - come avente una vita e una volontà proprie, rispetto a cui quelle individuali sono accidentali e transitorie - si giunge per altra via alla negazione dei diritti innati.
Questa conclusione attivò una forte reazione e Georg Jellinek ripartì dai diritti pubblici soggettivi (Sistema dei diritti pubblici soggettivi, trad. it. Milano 1912), ritenendo che bisognasse distinguere due momenti: prima che lo Stato ponga il proprio ordinamento giuridico, nessuna pretesa giuridica può spettare all'individuo; la persona naturale non esiste nemmeno prima e fuori dell'ordinamento giuridico. Ogni diritto soggettivo postula un precedente ordinamento oggettivo, e questo è proprio dello Stato. Il diritto è volontà diretta a un fine. Volontà e fine dell'ordinamento giuridico sono dello Stato e non dell'individuo.
Ma una volta costituito l'ordinamento giuridico, poiché il diritto è essenzialmente relazione, il rapporto di dominio dello Stato diviene giuridico solo quando riveste quelle forme peculiari da cui nascono diritti e doveri reciproci tra individui e tra individuo e sovrano.
Dall'ordinamento nasce la personalità giuridica, solo e in quanto l'individuo è sottoposto allo Stato e per concessione dello Stato.
Una personalità giuridica significa personalità limitata e quando lo Stato entra in relazione con le persone singole limita se stesso. Risorgono così i diritti soggettivi, benché non più come originari e assoluti. Lo Stato si contrappo ne all'individuo proprio perché entra in relazione con esso e dunque al fatalismo viene a contrapporsi il dovere morale degli uomini di combattere per il diritto.
DECLINO DI UN SOGNO. È certo imprudente usare un termine come «declino» per la sociologia, non fosse altro perché è ancor oggi vivamente presente nel pensiero e nelle istituzioni. Sociologia che però ha vissuto una frammentazione, o se si vuole una specializzazione, che ha finito però per disperderla come quelle personalità che indossando molte maschere perdono la propria identità. C'è una sociologia della famiglia, della politica, dell'emarginazione, della povertà e si può continuare con la percezione di poterla abbinare a ogni contesto. Ma non è questo proprio il segno di una fine o di un declino anche se istituzionalizzato?
Talora si ha l'impressione di non poter fare a meno della sociologia, ma poi si constata che non ha dato alcunché di veramente significativo.
Del resto si osserva che la psicologia ha dovuto assumere specificazioni come quelle di gruppo, e ancora di psicologia della famiglia e persino delle masse, e si discute se il termine psicologia non sia in alcuni casi un abuso a scapito della sociologia, e viceversa se là dove si impone la sociologia non vi sia in realtà un diritto di campo della psicologia. A me pare che nel complesso la sociologia dell'Ottocento - perché è su di essa che noi abbiamo precipuamente rivolto la nostra attenzione, sempre per giungere a quel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento dove si evidenzia in maniera macroscopica quella che abbiamo chiamato la crisi sui princìpi, come si fossero dati appuntamento storico per mostrare la propria debolezza o quanto meno per negarsi - non abbia aiutato in nulla la problematica concernente la vita in comune dei soggetti, e non abbia fatto luce sui conflitti che animano le società, e soprattutto sulla violenza che ne è una forte caratteristica.
Ma, al di là della sociologia, anche in questo secolo - l'Ottoce nto - abbiamo trovato la risposta ai soliti temi del conflitto tra individuo e società, della difficoltà di stabilire il limite di uno Stato e quindi di differenziare la dimensione della morale individuale rispetto a quella dello Stato, con le versioni di un individuo morale e di uno Stato gendarme o dall'altra parte di un Stato etico e di un individuo che semmai si connota eticamente attraverso la partecipazione allo Stato.
Sembra sempre di essere tornati da capo o di scendere e di salire tra soluzioni e baratri contradditori, tra ipotesi che non soddisfano.
VERSO IL COMUNISMO CRITICO. Certo l'Ottocento ha dato un nuovo volto al comunismo, o meglio ha dato una nuova connotazione a questa forma di governo che ha antecedenti, già richiamati. Non è possibile leggere la storia prescindendo dagli avvenimenti drammatici che la caratterizzano e chi analizza oggi il comunismo ottocentesco non può limitarsi a uno spazio ristretto, ma deve tenere conto che è diventato storia e dunque è passato dal pensiero alla applicazione (prassi). Occorre perciò anche chiedersi se esso non sia figlio di quel clima sociologico, non fosse altro poiché alla sua base ha posto una analisi dei fatti sociali ed è anzi partito dalla condizione delle fabbriche e dalla analisi dei salari. Se così fosse, il giudizio sull'apporto della sociologia si farebbe certo ben più rilevante.
È di questo che parleremo la settimana prossima per chiudere questo secolo: del comunismo, definito «comunismo critico», ma anche marxismo.
Idee e figure
Max Weber
(1864-1920). Intellettuale dai molteplici interessi, insegna economia nelle università di Friburgo e Heidelberg. Nel 1918 è tra i delegati dalla Germania a Versailles per la firma del trattato di pace. Muore ucciso dalla grande epidemia di Spagnola nel 1920. I suoi studi si basano sullo sviluppo del capitalismo moderno: subisce l'influenza di Marx, ma ne critica molti aspetti, come la concezione materialistica della storia e dà minore importanza al conflitto di classe. Importanti anche le sue ricerche sull'etica protestante in rapporto al capitalismo, e gli studi sull'impero cinese e sul Vicino Oriente, che diedero un rilevante contributo alla sociologia della religione.

IL LIBRO
L'etica protestante e lo spirito del capitalismo
Scritta nei primi anni del ’900, L’etica protestante è una delle principali opere di Weber, all’epoca reduce da una grave forma di depressione che lo aveva allontanato dall’insegnamento universitario. Weber partì dall’assunto che nelle zone capitaliste progredite e più ricche, i più qualificati e preparati erano in genere personaggi di fede protestanti. Parlò a questo proposito di «ascetismo intramondano», che prevedeva la rinuncia al lusso e la dedizione totale al successo terreno, che sarebbe proprio dei protestanti. A titolo di esempio, Weber riporta un passo di John Wesley, il fondatore del Metodismo, dove si dice che la religione deve necessariamente produrre laboriosità e parsimonia; il capitalismo, al contrario, nasce quando l’unico scopo diventa l’incremento del profitto e non la salvezza dell’anima, dissociandosi, cioé, dal discorso più prettamente religioso. Questo conduce a sua volta a quello che Weber definisce il «disincanto del mondo», ovvero l’eliminazione dei valori simbolici e mistici dalle cose terrene, che finiscono con il divenire solo mezzi per il raggiungimento di fini, primo fra tutti la ricchezza. Alla fine del suo lavoro, Weber riconosce che la volontà di profitto - definita dal teologo protestante Richard Baxter «un sottile mantelo che si possa gettar via in ogni momento» - si è tramutata in una «gabbia d’acciaio» da cui è fuggito lo spirito dell’ascesi. Weber, negli anni successivi, tornerà più volte sull’argomento, come ne Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo, un saggio più breve dal titolo simile, composto dopo il viaggio in America per l’esposizione universale di Saint Louis, dove si pone in luce l’importanza della religiosità «settaria» per la formazione della cultura e della stessa vita economica degli Stati Uniti.

Max Weber, Rizzoli Bur 2000, pp. 403, € 9,00

Avvenire del 6 agosto 2006
Su quest'argomento puoi anche vedere il nostro sito

L'etica della polis

«Un cittadino non può delegare al re o al capo del governo decisioni correlate alla vita e alla morte. Come nessun potere potrà mai decidere per la guerra sulla base di una delega elettorale, che non può che essere circoscritta alla gestione della cosa pubblica, la quale non prevede incursioni in materie che lambiscono il mistero e danno un senso alla vita e alla morte. La separazione dei campi e dei poteri attiene quindi ad un principio che si pone a monte di un qualsiasi concordato tra i due poteri, spirituale e politico»
di Vittorino Andreoli

1 Forse è proprio questa la caratteristica essenziale dei princìpi che abbiamo chiamato «di base»: di non essere delegabili
2 La vita umana deve essere rispettata sempre e altrettanto deve avvenire per la morte, al di là di ogni contingenza culturale e storica
3 Il sacro è proprio quell’ambito dell’esperienza che appartiene al mistero e nel quale le risposte possibili sono unicamente «morali»
4 La morale si fonda su un Dio che pur essendo altro rispetto all’uomo, non blinda il dubbio e il mistero, ma al contrario li svela
RAGIONE E MISTERO. Dal punto di vista storico, la distinzione tra principi morali e principi politici è certamente giustificata. Lungo il tragitto che abbiamo sin qui percorso è emersa, e con considerevole rilevanza, come la dimensione morale si leghi – per noi italiani – alla Chiesa e quella politica (amministrazione della polis) si riferisca allo Stato. Ma la distinzione si giustifica anche sul piano dei principi, e forse è essa stessa un principio.
Esiste l’atto della delega ma, non vi è dubbio, non tutto nella nostra vita è delegabile; non è possibile essere gestiti in toto, riducendoci alla stregua di un semplice oggetto maneggiato da qualcuno, sia pure prescelto da noi. Dobbiamo poter scegliere a chi affidare la nostra delega, ma anche di revocare tale scelta. Ci sono tuttavia dimensioni che non sono delegabili e che rimangono legate all’individuo, a ciascuno di noi.
Non è delegabile ciò che riguarda il senso della vita, mentre è possibile delegare su questa o quella modalità dell’esistenza, e financo le convenzioni che permettono di vivere in maniera serena e talora felice facendo parte di una collettività.
Forse è proprio questa la caratteristica essenziale dei princìpi che abbiamo chiamato «di base» o «princìpi primi»: di non essere cioè delegabili. Tra tali princìpi rientrano quello, già richiamato, del rispetto della vita umana e, ammesso che non sia dato di vederlo come l’altra faccia dello stesso principio, quello del rispetto della morte umana.
La vita umana deve essere rispettata sempre, e altrettanto deve avvenire per la morte umana, al di fuori di ogni contingenza e considerazione sul contesto storico. Si tratta di princìpi al di fuori della storia, anche se tale affermazione per taluni può essere discutibile, poiché l’uomo vive nel tempo e nello spazio, due dimensioni che mutano e lo mutano.
Ma nel flusso dei mutamenti sembra che questi due princìpi non si debbano modificare, siano per così dire immobili. Tali ci appaiono anche se possia mo constatare che di fatto sono mutati e sono diversamente considerati in culture differenti. Si tratta di funzioni elementari: la vita umana deve essere sempre salvaguardata e altrettanto la morte.
Con ciò non voglio negare l’esistenza di componenti culturali entrate talmente "nella carne" da sembrare naturali, mentre invece sono frutto di apprendimento. Si sa bene, per esempio, che il rispetto della morte è uno dei principi su cui si sono fondati la filosofia e l’epos dei greci, per i quali era importante, anzi essenziale, dare sepoltura ai morti. Chi non ricorda il confronto tra Ettore e Achille, che, vincitore e accecato dall’odio, non vuole rispettare quel principio e infierisce in modo oltraggioso sul corpo morto di Ettore, senza dargli la sepoltura che gli spetta? Un vero obbrobrio. E forse per questo, Achille è risultato antipatico agli studenti di tutte le epoche.
Si deve insistere sul rispetto della morte, perché nel nostro tempo sta venendo meno, e sovente non c’è posto per il defunto e nemmeno, paradossalmente, tempo per la morte, o per l’agonia che la può precedere.
Assistiamo a una negazione della morte; questa è ridotta sempre più spesso a malattia di cui individuare una causa patologica. Ma così la morte smarrisce il ruolo di evento misterioso e ineluttabile, traguardo che sancisce un limite invalicabile all’uomo e alla sua volontà di onnipotenza. Si è perduto il rispetto per questo evento, per il suo significato definitivo, e ormai si muore spesso senza dignità, lontano da luoghi all’altezza della sacralità del trapasso. La morte come patologia ha eliminato il campo della meditatio mortis, del limite della vita.
La morte deve essere sempre rispettata. La constatazione che il corpo morto è destinato a diventare polvere, a confondersi con la terra, non giustifica la negazione di tale principio. Il rispetto della vita umana esige il rispetto della morte dell’uomo: di un essere che pensa e che, pur pensando, rimane mistero.
La vita e la morte sono l’essenza dell’esserci, e tuttavia non saprei definire con precisione la vita e la morte, o per lo meno non riesco a depurare il mio sapere da quel mistero che rimanda a qualcosa che non so e che, allo stesso tempo, è e non è. Questi elementi, per quanto indagati intensamente dalla ricerca filosofica, non si esauriscono nel sapere, almeno quello di oggi, e fanno parte del mistero, di fronte al quale la scelta è solo tra credere e non credere, optando magari in favore di qualcosa che un altro credo non contiene anzi esclude.
Il senso del mistero conduce i due grandi temi della vita e della morte dal capire al sentire, e dalla ragione alla morale, dove per morale consideriamo la dimensione da cui provengono risposte agli stessi misteri.

IL SACRO. C’è una categoria della nostra mente che dà una dimensione a queste tematiche: lo si rileva da quanto si sa sul sacro e dall’idea del sacro quale dimensione dell’uomo, categoria della mente che si rivolge alla percezione di ciò che è misterioso, che al tempo stesso affascina e spaventa, attrae e infonde terrore.
La morte mi affascina, mi sento attratto ma anche spaventato da essa; e così la vita, il passaggio da ciò che non è a ciò che esiste e soprattutto l’«esserci» che potrebbe invece «non essere», il salto dall’essere al nulla.
Abbiamo una possibilità – che è dentro di noi, fa parte della nostra struttura mentale – di cogliere il mistero e questo sembrerebbe anche dirci che qualcosa sfuggirà sempre al sapere codificato, che permane qualcosa di ignoto, di indefinibile, di ineluttabile, di misterioso.
Si tratta di una categoria che si avvicina a quella del comprendere, che però giunge a conclusioni differenti. Non possiamo dunque percepire il numinoso, e cioè il misterioso, con le categorie del logos, attraverso la comprensione e la dimostrazione logica o sperimentale. Il mistero non è oggetto né delle categorie della ragione, come ad esempio il principio di non contraddizione, né della scienza sperimentale.
La vita è, almeno in parte, mistero; così la morte è, almeno in parte, mistero. Sono temi che hanno bisogno di risposte diverse: risposte al sacro. Ecco, percepiamo una dimensione sacra per la vita e per la morte, e il sacro è quel campo dell’esperienza umana che appartiene al mistero e nel quale le risposte possibili sono unicamente quelle della morale.
Si tratta di un concetto da chiarire subito, pur avendone parlato diffusamente in precedenza, e avendo visto il significato non sempre uniforme che la morale ha avuto nella storia.

MORALE. La morale, nel senso classico, svela il significato della vita e della morte, dà risposte valide sia per l’una, sia per l’altra, attribuendole a qualcosa che non può essere discusso poiché si impone per forza intrinseca. La morale qui si fonda su un Dio che è totalmente altro rispetto all’uomo, che non blinda il dubbio e il mistero, ma li svela, poiché è colui che ha dato la vita e che riscatta la morte, assegnando un senso all’una e all’altra.
Il senso del sacro chiede, percepisce, si commuove, persino gioisce per una nuova vita e trema, piange, si dispera per una morte, ma trova risposta in Dio che pur fuori dal mondo, ne è immanente. Un Dio che ha manifestato la propria presenza e continua a farlo, anche se con modalità che non sono di questo mondo, poiché egli non può essere visto, essendo totalmente diverso da ciò che si vede.
Si entra in un campo che si definisce nella verità, attraverso le parole stesse di Dio: egli dice che cosa è la vita, spiega perché è stata data e parla dell’esistenza oltre questa terra. Ci conduce quindi in un mondo altro (la vita dell’al-di-là) che sa di paradiso.
L’uomo che sente il mistero trova risposte in un credo. Perciò non solo deve avere libertà di credo, ma non può delegare ad alcuno i temi che sono alla base del senso stesso della vita e della morte.
Qui è necessario essere conseguenti al credo cui specificatamente ci si affida: il mistero infatti può trovare ris posta nel nulla, nel caos, nell’idea di un architetto che ha fatto il mondo e poi se ne è disinteressato, o piuttosto in un Dio che ha stabilito un’alleanza non solo con l’umanità in generale, intesa come specie, ma anche con il singolo. In ogni caso, quale che sia la risposta che va bene per noi, essa rientra nella morale.
Si impone tuttavia un’ulteriore distinzione tra il «credo», ossia la risposta che ciascuno formula verso il mistero, e dunque tra il senso della vita e della morte, e i comportamenti che derivano da questa risposta.
Se la vita è una prova e la morte un giudizio sulla vita, allora è comprensibile che si debbano dare dimostrazioni di fede, e quindi anche di uno stile di vita, che siano anzitutto risposta adeguata alla morale e non alle pretese della polis, che può anche non essere rivolta al cielo.
La vita e la morte dell’uomo, che per una certa parte appartengono al mistero, e dunque rientrano nel sacro, non sono materia a disposizione del riduzionismo razionale. Il fatto stesso che esista nella nostra mente la dimensione del sacro, pare dimostrare che è inutile, se non ingiustificato, cercare di riportare questo contenuto nel campo del puramente dimostrabile. Dunque, il vivere e il morire chiamano in causa la fede, e la risposta che ad essa si dà appartiene al campo religioso o anche alla sua negazione.

POLITICA. Vi è poi la dimensione dei princìpi politici, quelli che si legano a un evento storico preciso, e dunque al sistema che da tale evento è scaturito e che un gruppo di persone si è dato per poter costituire una comunità, un corpus sociale. E qui le possibilità sono diverse, ma non tutte praticabili.
Ci può essere, infatti, il caso di chi non accetta di stare con gli altri, non ammette alcun principio comunitario né alcuna regola che comporti rispetto per l’altro: sarà la base di un solipsismo individuale, di una anarchia.
Le regole dello Stato infatti devono essere sempre comuni, qualificandosi esse come scelte per tutti; certo, talora la delega non è pienamente consapevole o si verifica addirittura una situazione non democratica, nella quale il popolo è dominato da un tiranno che si arroga ogni delega, imponendosi con la forza.
In ogni caso, si passa qui dalla dimensione della fede che è sempre individuale a quella comunitaria, determinata dalle leggi dello Stato, le quali riguardano tutti. E qui una delle distinzioni maggiori è che, se nel funzionamento della polis il potere è delegabile, non lo è affatto il vincolo morale, men che meno è delegabile a chi gestisce la polis, giacché la morale riguarda la coscienza del singolo, le sue convinzioni, la fede che lo lega personalmente a Dio.
Ecco l’elemento sostanziale anche nel caso di una religione assai diffusa tra la popolazione: per credere non c’è da dare il proprio voto a qualcuno, ma deve esserci stata un’esperienza diretta del Dio a cui si crede e dal quale si ottiene la risposta al proprio senso del mistero e al dubbio che talora ci attanaglia. E che può risultare anche angosciante, poiché il mistero non ci scioglie dagli enigmi.
L’incontro personale e irripetibile di ciascuno con il Dio in cui crede, sottolinea e garantisce la dimensione individuale e soggettiva del credere, e questo tanto più vale quando a credere nello stesso Dio sono più persone.
Pur in una comunanza profonda qual è quella generata dalla stessa fede, il rapporto – per esempio – di un Agostino con il suo Signore è originale e diverso da quello che si stabilirà tra Tommaso d’Aquino e Dio.
Dal mio punto di vista, insisto nel dire che il credere è un fatto personalissimo, ossia individuale e dunque irripetibile, persino ineffabile, mentre le leggi della polis sono di tutti e per tutti, e il rapporto che intercorre tra un cittadino e il proprio sovrano, re o Parlamento che sia, è qualcosa di comune, che si ripete uguale per tutti.

POTERI SEPARATI. Nel nostro contesto, queste due dimensioni – quella religiosa e quella politica – hanno portato a nche a due poteri: alla polis, e cioè lo Stato, e alla Chiesa, che ha una sua espressione storica, pur occupandosi essa della città del Cielo. A livello personale i riferimenti non possono che essere distinti, benché taluno potrebbe autolimitarsi alla sfera della coscienza, là dove maturano le risposte personali al mistero. Quando tuttavia queste risposte acquistano uno spessore storico, e s’imbattono con l’esperienza della Chiesa, a quel punto diventa più che opportuna una netta distinzione tra le due sfere; i compiti dell’una non possono essere delegabili all’altra.
E deve valere il principio dei due poteri che si rispettano reciprocamente: la polis garantisce piena libertà a tutte le coscienze mentre la Chiesa adempie alla sua missione spirituale, per la quale i credenti sono chiamati a compiere per intero il loro dovere anche civile.
Ma è indispensabile che non ci siano interferenze. Un cittadino non può delegare al re o al capo del governo decisioni correlate alla vita e alla morte. Come nessun potere potrà mai decidere – chessò – per la guerra sulla base di una delega elettorale, che in realtà non può che essere circoscritta alla gestione della cosa pubblica, la quale non prevede incursioni in materie morali, che lambiscono il mistero, e danno un senso alla vita e alla morte.
Si apre qui il problema del limite, e del suo rispetto. La separazione dei campi e dei poteri attiene ad un principio che precede le modalità della sua stessa regolamentazione, si pone a monte cioè di un qualsiasi concordato tra i due poteri, dello spirituale e del politico.
Sulla base di questo principio ovvio che risalti l’errore e l’inaccettabilità delle posizioni integraliste che tendono invece a fondere questi due poteri e a confonderli, facendo valere gli imperativi della fede non solo nel campo spirituale ma anche in quello temporale.
Storicamente si sono presentati lungo i secoli dei fenomeni spirituali molto caratterizzati in termini di rinuncia al mondo, gruppi che son o vissuti in esclusiva attesa della morte, forme anche monacali di vita integralisticamente concepita come disprezzo e fuga.
Se dalla scienza nasce la conoscenza, come abbiamo visto nei nostri excursus, siamo però avvertiti che essa, la conoscenza, può sgorgare anche dal mistero. Certo, il mistero non è campo per la ricerca scientifica, ma stimolo per una valutazione più profonda della vita, quale è la morale. Si propone indipendentemente dal grado del sapere e da qualsiasi contributo: non è affatto un ignoramus sed non ignorabimus.
Il senso della vita e della morte trovano espressione nella sfera religiosa, del sacro, e incontrano risposta nella fede. Questa si pone come dimensione «unica» nel suo genere, dentro un’esperienza ineffabile, irripetibile, a contatto con quell’entità che chiamiamo Dio. Anche l’ateismo, quello non banale, è a suo modo un atto di fede. Come la ricerca che talora attraversa intere esistenze. Sulle risposte infatti che ciascuno cerca a proposito della vita e della morte non è possibile alcuna delega, neppure – come già chiarito – alla politica, per quanto potente. Il crogiuolo è invece la coscienza del singolo, che magari si imbatte con i sentieri della Chiesa. La quale ha la missione di essere dimora di Dio e dunque a suo modo di rappresentarlo.

ESEMPIO DI CONFLITTO. In una recente circostanza abbiamo visto i due poteri, quello politico e quello morale-religioso, andare in rotta di collisione. Nella guerra dell’Iraq, allorché si trattò di assecondare il disegno degli Stati Uniti, ecco risuonare potente e solitaria la voce di Giovanni Paolo II. Mai come in quel momento egli interpretò il sentire dei cittadini comuni nell’invocare la pace, nel ripetere il no alla guerra omicida. Ma in questo caso il conflitto si alimentò perché la politica si arrogò una delega che non può ricevere. Sulla guerra non si discute, non si tratta. Lo Stato non può decidere di dare la morte, con la guerra o come condanna di tribunale, non è terreno su o, questo. Ricordiamolo.



idee & figure

Achille ed Ettore
Achille è il personaggio centrale dell'Iliade. Crise, padre di Criseide e sacerdote di Apollo, dopo essersi recato da Agamennone e avere implorato la restituzione della figlia in cambio di un riscatto, viene insultato e cacciato. Agamennone attira su di sé le ire del dio Apollo il quale, per punirlo, provoca una pestilenza nelle file dell'esercito greco. Vista la sventura Calcante rivela ad Agamennone che la pestilenza avrà termine solo con la restituzione di Criseide. Agamennone accetta, ma esige in cambio Briseide, la prigioniera di Achille. Furente, Achille si ritira nella sua tenda, rifiutandosi da quel momento di combattere. In sua assenza, i troiani sembrano prevalere: nel corso di una battaglia giungono ad attaccare il campo greco minacciando di dare fuoco alle navi. A questo punto Patroclo, scudiero e amico carissimo di Achille, ottiene da lui il permesso di contrattaccare alla testa dei Mirmidoni, indossando le sue armi. Patroclo respinge l'assalto e tenta più volte di scalare le mura di Troia, ma viene affrontato e ucciso da Ettore. Achille dimentica allora la sua ira e decide di tornare a combattere, menando strage di troiani. Infine affronta Ettore in duello e lo uccide. Per vendicarsi dell'amico ucciso, trascina con il carro il cadavere del nemico facendone scempio. Quando però Priamo si reca nottetempo al campo greco implorandogli di restituirne il corpo, si commuove ed acconsente. L'Iliade termina con i funerali di Ettore.
Avvenire del 17 settembre 2006

L'identità di genere

Se il processo di individuazione non si realizza, il bambino non riuscirà ad avere consapevolezza del proprio «esserci» e sarà quindi portato a chiudersi in se stesso, condizione che porta all’autismo. Se non arriverà a tale punto, potrà essere comunque indotto a vivere con una tale timidezza, cioè non sapendo chi egli sia realmente, che questa lo spingerà a fuggire gli altri in modo patologico. Da qui l’incapacità di entrare in sintonia con l’ambiente circostante, per il quale rimarrà un disadattato

di Vittorino Andreoli
Se la sessualità viene staccata completamente dalla procreazione è evidente che lo scopo dell’incontro non è certo il generare, ma il piacere. E indubbiamente il piacere, pur legandosi all’unione tra uomo e donna, non è un’esclusiva di questa pratica. Così si rischia di perdere persino la necessità della distinzione di genere
1 Generare un figlio è un evento certamente straordinario nel vissuto dei genitori, ma lo è allo stesso tempo per l’insieme sociale
2 Sono impaurito da una società che pretende che l’infedeltà sia la regola e la fedeltà un segno d’impotenza e di anormalità
3 Per essere cittadino di un mondo grande occorre radicarsi meglio nel proprio piccolo mondo, in quell’Io fatto anche di storia personale
4 La morte di questi principi elementari ha fatto di noi dei semplici pupazzi che ormai non sanno più quale sia il proprio vero volto
DIRITTO ALL’IDENTITÀ. Lasciati i princìpi primi, legati al mistero e al sacro e appartenenti all’àmbito delle esigenze morali (le quali a loro volta affondano le proprie radici nel significato dell’uomo e del suo "esserci"), intraprendiamo ora il viaggio tra quei princìpi che invece servono a vivere nel mondo.
Mi sembra opportuno distinguerli anzitutto in due gruppi: princìpi del singolo e princìpi della relazione. Quelli che affrontiamo ora si legano alle condizioni da promuovere affinché ciascuno raggiunga una propria dimensione, abbia la percezione di un’identità precisa, ben distinta da quella degli altri. Questa è la base del gruppo di princìpi che serviranno poi a esprimere la socialità e, dunque, i bisogni della società nel suo insieme: in una parola, l’esigenza di relazione. In questo senso va letto l’antico aforisma dell’uomo «socialis naturaliter»: è impossibile pensare l’uomo al di fuori delle relazioni, sin dal momento in cui egli prende vita e stabilisce un legame con la madre tale da diventarne una parte simbiotica.
L’uomo deve raggiungere due identità: quella personale, cioè la percezione di essere un individuo "diverso" dagli altri, e quella di genere, l’essere cioè maschio o femmina, la sua identità sessuale, legata non solo agli organi anatomici ma anche a molte caratteristiche della personalità.
L’identità dipende dalla struttura educativa e dunque dalla modalità attraverso la quale si aiuta un bambino a crescere. Ogni bimbo nasce con un bagaglio genetico e anche di esperienze particolari legate alla sua permanenza nell’utero materno, oggi considerato non più luogo in cui il feto resta passivamente per portare a compimento il proprio sviluppo ma ambito dove vive una vera e propria relazione con la madre. Di questa, almeno a partire dal quinto mese di gravidanza, avverte i toni cardiaci e poi per suo tramite sperimenta il primo contatto con il mondo esterno sentendo grida e suoni di tonalità particolarmente elevata.
Ma è certamente con la nascita, e quindi con la separazione di fatto dei due corpi, che il bambino avvia la sua avventura nel mondo e comincia la propria crescita. Un tempo si riteneva che, almeno nella prima fase, il bambino dipendesse in toto dai modi e dalla cultura educativa della madre. Oggi invece sappiamo che sono importanti anche altre figure, come il padre e quanti fanno stabilmente parte del gruppo di riferimento del piccolo.

INDIVIDUAZIONE SEPARAZIONE. Una prima identità viene raggiunta tra zero e tre anni attraverso un processo in cui si realizza l’individuazione-separazione: il bambino si stacca dalla madre e dal gruppo stabile di riferimento e si sente un individuo ben distinto da loro. È proprio attraverso un simile processo che si attua l’individuazione. Questa fase della crescita o dell’educazione è importantissima poiché permette di acquisire la dimensione di un "Io" distinto rispetto all’"altro", cioè la madre e le persone con cui il bambino vive (incluse le eventuali maestre del nido d’infanzia, che devono essere consapevoli di far parte del gruppo stabile, cioè della famiglia del bimbo che accolgono).
Stiamo parlando di un diritto che si lega ai bisogni del bambino soddisfatti nel piccolo gruppo familiare, all’interno cioè di una società limitata alle figure permanenti: quelle che abitualmente lo circondano e si occupano di lui.
L’educazione è la condizione necessaria a raggiungere questo primo passo nell’identità. Occorre che la società permetta la realizzazione di un simile diritto, attivandosi perché ciò avvenga in maniera semplice.
Certamente è necessario che la madre possa stare con il proprio figlio, e quindi che le sia data la facoltà di interrompere temporaneamente il lavoro – con la garanzia dei diritti acquisiti – poiché si dedica a una funzione sociale estremamente importante.
Per intenderci, la possibilità per una neo-madre di sospendere la propria attività professionale è molto più importante di quella che viene assicurata – sempre con t utte le garanzie – a chi viene eletto a una carica politica.
Si tratta di un’interruzione del lavoro che non deve essere punita ma piuttosto premiata: generare un figlio è infatti un evento certamente straordinario nel vissuto dei genitori, ma anche per l’insieme sociale. E per rendersi conto di questa realtà semplice ma trascurata basta prendere consapevolezza di cosa significhi una società che non genera figli. La madre di un bambino, dunque, svolge al tempo stesso un compito prezioso per il figlio e per l’intera comunità.
Poiché le esigenze di dedizione non sono solo legate al tempo ma anche alla qualità dell’incontro, e quindi ai bisogni della madre e del padre, è necessario aiutare la famiglia perché queste condizioni diventino effettive, reali. Non lo possono essere invece se la famiglia vive in condizioni economiche di estrema indigenza, oppure se manca al suo interno un’intesa, un afflato che si trasmette sulla dinamica della crescita e quindi sul raggiungimento dell’identità personale.
È stato dimostrato che se non si realizza il processo di individuazione il bambino non riuscirà ad avere consapevolezza del proprio "esserci". Sarà quindi portato a chiudersi in se stesso e a non comunicare con il mondo (condizione che porta all’autismo), oppure, non sapendo chi egli sia, vivrà con una timidezza tale da fuggire gli altri o comunque da trovare difficoltà a proporsi, incapace di entrare in sintonia con l’ambiente, per il quale rimarrà sempre un disadattato.
È proprio in questa prima fase della vita che sbocciano molte delle malattie che si manifesteranno più tardi con maggiore evidenza ed enormi difficoltà.
Incontriamo qui l’insicurezza, il non accettarsi, la confusione di sé per non sapere mai quali sono i propri confini e le caratteristiche che identificano una persona. È la condizione di chi non riesce nemmeno a pronunciare quell’"io" che esprime la certezza di essere diversi dal tu e dagli altri.
Certo, si può anche sviluppare un’identità opposta, e quindi giungere al narcisismo: in questo caso l’Io è pronunciato ma senza la capacità di percepire gli altri, come se tutto il mondo venisse limitato a quel medesimo Io, e quindi non lo si sapesse riconoscere.
Così avviene per la figura mitologica di Narciso. Egli si innamora di una ninfa, Eco: una pura voce che esce da un antro ma che altro non è se non la propria stessa voce che si ripete, e che Narciso non riconosce come propria credendo appartenga a un altro, mentre questo altro è lui stesso. E così quando si specchia nel lago, dove vede una figura bellissima e subito se ne innamora – perché non riesce a riconoscersi in essa –, pensa si tratti di un altro. Un grave disturbo dell’identità.
Non bisogna tuttavia pensare che il processo per il conseguimento dell’identità si realizzi compiutamente con il terzo anno di età: esso infatti continua e si lega ancora alla storia personale, sia pure dentro una società allargata e non più nella microsocietà della famiglia, cioè del gruppo stabile.
Questo genere di identità, in altre parole, non è lo stesso di una statua che, una volta ultimata, diventa "quella" statua rimanendo così per sempre. L’identità nella persona umana è dinamica, in continuo sviluppo nel tempo. Potremmo dire che si tratta di un variare attorno a un nucleo che rimane sempre il proprio essere, il sé di ciascuno. L’identità diventa in qualche modo anche la propria storia, l’esperienza che ognuno fa nel tempo.
Chi è vecchio – come ormai sono io – resta affascinato dalla vecchia fotografia in bianco e nero che lo ritrae bambino. Poi, guardandosi allo specchio, nota le grandi differenze tra le due immagini fisiche. Eppure c’è un legame solido, straordinario, tra quel bambino e quel vecchio: lo stesso io, lo stesso filo conduttore, la stessa identità pur tra le traversìe e le vicissitudini nello scorrere degli anni.

STORIA PERSONALE. È questa l’identità letta attraverso una storia personale fatta di passato – cioè della memoria che lo cu stodisce – e insieme di futuro, poiché la grande capacità dell’uomo è poter programmare e pensare il domani, immaginarsi diverso da com’è ora. Il desiderio di ogni uomo è vedersi migliore, più vicino a come vorrebbe essere piuttosto che a come di fatto è.
Vi sono dunque due identità: una che potremmo definire "di base", o strutturale, e un’altra che si evolve nel tempo, dinamica, propria del vissuto di ognuno.
È una percezione che trovo eccezionale: essere stati, ed essere ancora ma diversamente da come si è stati nel passato. C’è poi anche la grande funzione della mente umana, che dà la consapevolezza di essere gli stessi, di mantenere la medesima identità pur tra i cambiamenti che segna il tempo e il comportamento. La memoria ha una funzione straordinaria poiché ognuno, chiudendo gli occhi, può rivivere il passato, che lascia tracce e che diventa così una storia in divenire, un continuum.
Il diritto all’identità si lega sia al diritto a un’educazione che renda possibile la costruzione di un "Io" sia alla possibilità che, rimanendo continuo, quell’Io si faccia storia e quindi muti senza perdere la propria identità, semplicemente rendendola dinamica: un Io che si fa storia, dimensione chiamata dagli psicologi "Sé". Tutti hanno un simile diritto: essere "uno" ed essere "uno che però si modifica nell’esperienza".
È importante avere una storia: la piccola storia della propria vita consumata finora, mescolata a quella del proprio gruppo familiare, alle vicende che si sono vissute. Queste ultime, anche se non raggiungono la dimensione della Storia con la "esse" maiuscola, sono parte della storia che ci identifica, ci forgia e diventa il nostro "esserci stati".
È straordinaria anche la nostra immaginazione, cioè la capacità di pensarci e scoprirci diversi, e quindi di fare programmi per attaccare nel futuro un pezzo di esperienza, che domani si farà storia con caratteristiche e capitoli nuovi e addirittura voluti.
Qui arriviamo al sogno, alle fantasie utopiche , all’impossibile, che però riempie e arricchisce ciò che fino a quel momento è stato realizzato. Ogni uomo ha diritto a un’identità strutturale e storica, e ha anche diritto di sognare. Ciò non vale solo per i giovani, nel tempo della crescita, ma per sempre. Bisogna poter sognare fino al momento in cui si vede la morte, e forse persino in quel momento immaginare di essere diversi, magari in una forma che ci arricchisca.
Se uno non ha la memoria del proprio passato e non riesce a immaginare un futuro migliore è carente di identità, e si impoverisce. Guai a quelle società che non promuovono il diritto e il prestigio delle storie personali. Guai per loro, quando non permettono di sognare e impediscono che i sogni possano realizzarsi. Guai, ancora, quando recludono i giovani dentro celle asfittiche che non prevedono futuro ma solo alienazione e precarietà di vita e di ruolo.
Ma questa oggi è, purtroppo, la nostra società.

GENERE. C’è poi l’identità di genere: femminile e maschile. Si tratta di un diritto sacrosanto, che attualmente corre grande pericolo e merita di essere sottolineato con forza. Il modello che oggi si propone è quello dell’anfotero o dell’efebo, cioè di un’identità che sia al tempo stesso maschile e femminile, o meglio, né molto maschile né troppo femminile, ognuna con una percentuale della caratterizzazione dell’altra: come se l’insieme o l’indeterminato fosse la condizione migliore, o il modello "di successo".
Per risalire all’origine di questa confusione d’identità di genere bisogna ricordare alcuni eventi essenziali che si sono verificati dal secondo dopoguerra in qua: la fine del maschilismo, la caduta del ruolo dell’uomo e dunque del suo predominio sulla donna per il semplice fatto di essere uomo.
E di esserlo perché possiede un organo che la donna non ha, e che desidera avere: Sigmund Freud aveva riconosciuto sin dall’infanzia femminile una condizione comune che aveva definito clinicamente "invidia del pene", sintomo di uno s tato di secondarietà, di dipendenza, a suo avviso imputabile al fatto che la donna soffrisse proprio per la mancanza di un organo che poteva avere solo a condizione di essere posseduta dall’uomo.
Oggi la donna non nutre più questa invidia che, anche per l’impegno dei movimenti femministi (tuttavia non sempre rispettosi della donna e dei significati della femminilità), è scomparsa con la scoperta di un’indipendenza sessuale o di una possibile sostituzione dell’uomo con una donna. L’uomo, d’altra parte, non ha più nemmeno il coraggio di mostrare il proprio specifico potere: molti, anzi, arrivano a "invidiare" la gravidanza, prerogativa della sessualità femminile, e vogliono partecipare ai suoi frutti allenandosi a partorire fittiziamente per partecipare all’evento della nascita come se ne fossero i protagonisti.
Nel conto bisogna anche mettere la scoperta di Gregory G. Pincus (1903-1967): la possibilità di esercitare un pieno controllo sulle relazioni con l’uomo, di non renderle fonte di maternità non voluta. Si tratta indubbiamente di un mezzo per controllare le nascite, ma insieme anche per controllare il potere dell’uomo che – metaforicamente parlando – non "spara" più come e quando vuole, senza rispetto o senza permesso. Semmai – restando sempre in questa mia immagine – "spara a salve", spesso anzi nemmeno riuscendovi. E allora vive il dramma di un ruolo perduto.
È necessario infine considerare che con la perdita di funzione della "sessualità di organo", legata alla procreazione, ha avuto inizio o comunque si è privilegiata una forma di sperimentazione passata dall’organo a tutto il corpo fino a scoprirne la sessualità (la cosiddetta "body expression"). Si è così giunti a considerare che sia in lui sia in lei vi sono parti in comune che hanno valenza erotica (quelle che si definiscono "zone erogene"). Ne consegue il fatto che tutto il corpo è sesso, e la donna non ha più l’esclusiva della diversità. Si è giunti così a quella che viene chiamata la morte o l’ind ebolimento del sesso forte per effetto di una "sessualità del corpo", in gran parte comune a entrambi. Di qui la possibilità di sperimentarla tra uomo e uomo, o tra donna e donna, senza la complicazione del rapporto uomo-donna che manca spesso di sincronia e di comprensione, con modalità che non garantiscono sempre una reciproca soddisfazione.
Da queste note sintetiche risulta chiaro come l’attrazione tra uomo e donna sia decisamente cambiata, a tutto vantaggio di modalità relazionali assolutamente nuove che tendono ad allentare l’identità di genere, se non a negarla.
Del resto, quando la sessualità viene staccata completamente dalla procreazione è evidente che lo scopo dell’incontro non è certo generare ma provare piacere. Indubbiamente tale piacere, pur legandosi al rapporto coniugale tra uomo e donna, non è un’esclusiva di questa pratica. Quando ciò viene accettato si rischia però di perdere persino la necessità della distinzione di genere. A chiudere questo cerchio, quantomeno strano, basterebbe dire che una delle modalità oggi più frequenti di soddisfazione erotica è quella che può derivare da un video, tramutato in una sorta di partner, oppure addirittura da una terza presenza.
Non si può che rimanere confusi di fronte a un simile costume, che sembra diffondersi sempre più.
In questo caso, infatti, non si tratta soltanto di un nuovo capitolo del costume sessuale ma di uno stravolgimento delle relazioni sociali, con intrecci amorosi che indeboliscono o escludono la relazione di coppia e la cornice d’un amore che invece tenderebbe a perpetuarsi nella generazione dei figli.
È indubbio che il legame della sessualità è una componente rilevante per la stabilità della famiglia. Oggi tuttavia la varietà di relazioni sessuali (alla base dell’infedeltà) viene considerata "legittima" persino per rendere più sereno il rapporto di coppia. Non credo affatto però che tutto questo debba essere accolto "naturalmente" nel novero dei cambiamenti sociali, e che i dubb i espressi al riguardo siano solo segno di una rigidità da vecchi o da moralisti.

PERDITA DELL’IDENTITÀ SESSUALE. Certo, io sono vecchio, ma non mi preoccupa molto sapere se i miei pensieri siano da vecchio – quindi da nascondere – o da giovane, e dunque da affermare. Semplicemente, dall’alto della mia età, rimango esterrefatto per il modo in cui l’identità di genere (che ha radici biologiche prima che culturali) venga massacrata, e la perdita o la confusione della stessa non solo sia accettata ma persino griffata di modernità.
Rimango dunque perplesso di fronte agli elogi per la perdita di tale identità, con esempi di eroi ambisessuali che per questo praticano indifferentemente omo ed eterosessualità, secondo le occasioni e gli stimoli. Sono scandalizzato dalla coesistenza di pedofilia e di eterosessualità, che vede genitori approfittare di un bambino e della sua impossibilità di scegliere (e fors’anche di capire) per soddisfare desideri che di sicuro non fanno parte della condizione di marito e di madre.
E ancora: sono impaurito da una società dove si pretende che l’infedeltà sia la regola e la fedeltà viene invece scambiata per segno d’impotenza, e che dunque vede la persona fedele come un poveraccio privo di carica erotica. Penso che l’infedeltà non si limiti a una semplice trasgressione.
Essa infatti si estende a un clima che pesa sui figli e sulla dignità di ciascun membro del gruppo familiare, che comincia a vivere nell’ambiguità e nella menzogna. Condizioni, queste, non certo ideali per un’atmosfera costruttiva ed educativa.
Non affermo tutto ciò sulla base di astratti imperativi morali ma sul piano dei princìpi, che in questo caso – così almeno mi pare – rispondono ai bisogni e alle esigenze della vita in questo mondo, e che dunque sono di pertinenza della polis e dell’amministrazione politica.

PATOLOGIA DA MANCATA IDENTITÀ. Come psichiatra, e dunque dal punto di vista di chi si occupa di disturbi della mente e del comportamento, non posso dimenticare quanto sia vasta la patologia da identità non raggiunta. A cominciare da un ampio capitolo che include le dissociazioni dell’Io – diviso o addirittura frammentato – che rientrano nella schizofrenia. Anche molte altre turbe della personalità (le cosiddette nevrosi) sono spesso disturbi dell’identità, che oscillano tra il bisogno di essere il centro esclusivo dell’attenzione del mondo e la necessità di negarsi come individuo, ritenendosi un essere colpevole e incapace, e dunque con molte delle caratteristiche che appartengono a un vissuto depressivo.
Con un’esemplificazione certamente eccessiva si potrebbe persino arrivare a dire che la psichiatria è il campo dei disturbi dell’Io e della sua percezione. È fuor di dubbio infatti che per interpretare il mondo al di fuori di me s’impone un’identità precisa, che mi permetta di stabilire una relazione e un giudizio sicuro.
cosa impossibile se l’Io è oscillante o diviso, oppure se si rinchiude per non farsi vedere dal mondo. È quanto accade con l’autismo, o in quei bambini che si rifugiano in una sorta di torre senza finestre e che non vedono il mondo, nemmeno quello degli affetti e di chi vuol loro bene. Una condizione drammatica e penosa.
La salute della mente parte proprio dalla crescita e dunque dal raggiungimento dell’identità basilare di un Io preciso, fino alla percezione di essere parte di un genere, alla consapevolezza delle caratteristiche che lo connotano, tanto da accettarlo e da amarlo (in altre parole, da ritrovarvisi), e al raggiungimento di un’identità sociale più vasta, che si conquista nell’adolescenza. È questo infatti il momento in cui ci si stacca dal gruppo familiare originario per sperimentare una nuova comunità: quella dei pari età, che apre poi a una socialità più vasta, oggi estesa al mondo intero.
Sempre – anche quando esamineremo tale dimensione – torneremo però a richiamare quelle identità dell’Io e del genere nelle quali si è stati prima posti e poi educati. Senza di esse l’esistenza diventa molto difficile, talvolta fatta solo di comportamenti compensatori che nulla hanno a che vedere con la serenità e la qualità della vita e con il suo "ben d’essere". Vite di eroi di carta, non di uomini di carne.

MONDO PRESENTE. I confini del mondo stanno scomparendo, si diventa cittadini di una comunità immensa per numero e per vastità del territorio (la globalizzazione), e di conseguenza si sostiene che i piccoli riferimenti sono un segno di arretratezza. È interessante notare che in un momento come questo si scopre invece che per essere cittadini di un mondo tanto grande occorre radicarsi meglio nel proprio piccolo mondo, in quell’Io fatto anche di storia personale e di luoghi di riferimento all’ombra del campanile. Si può andare dappertutto solo se non si dimentica la propria origine, se non si smarrisce un’identità costituita dall’Io e dal proprio genere, maschile o femminile. Si potranno poi anche indossare le diverse maschere, ma sapendo bene qual è il proprio volto, la propria faccia di carne. Invece l’agonia, se non la morte, di questo principio elementare ma basilare per vivere sulla terra ha reso ridicolo persino l’«uno nessuno centomila» di Luigi Pirandello (1867-1936).
E rischia di ridurci a semplici pupazzi ormai ignari di quale sia il proprio volto, maschere che s’indossano in funzione delle diverse occasioni e circostanze poiché manca un’identità, senza la quale nemmeno può esserci coerenza. Un teatro dell’assurdo, un carnevale continuo che si fa realtà.
E allora si è tutto e il contrario di tutto e si diventa ciò che il momento sembra suggerire, sempre pronti a cambiare abito e maschera, a essere altro, sempre altro, poiché manca il riferimento a chi veramente si è. Cioè a una precisa identità.




IL LIBRO
Sessualità in famiglia
Questo volume racconta il modo in cui si intrecciano le differenze sessuali e generazionali in una famiglia. Al centro dell'interesse sta la narratività come qualità delle relazioni familiari, la capacità da parte delle famiglie di produrre storie e di alimentare nei propri membri la memoria del «romanzo» familiare. Sullo sfondo le domande: «La famiglia continua ad essere un generatore di storie? E di storie intorno al genere? Ma, soprattutto, quale spazio, in questa narrazione familiare, per la rappresentazione delle identità sessuali? Quali modelli di maschile e femminile?». I risultati dell'indagine tracciano un innovativo profilo delle trame narrative delle famiglie italiane, caratterizzate da un'estrema eterogeneità di modelli di trasmissione e di narrazione. Ogni famiglia «inventa» un modo di raccontare le proprie storie, con narratori, miti e riti che segnano la vita quotidiana e costituiscono un importante momento di costruzione dell'identità individuale e dell'appartenenza familiare. Rispetto all'identità di genere, emerge nel complesso una «scarsa coscienza esplicita» della differenza sessuale, soprattutto nelle nuove generazioni, che viene preferibilmente omologata in un'idea di «individuo» unico, indifferente al sesso. La consapevolezza dei cambiamenti dell'identità del maschile e del femminile emerge a fatica anche nelle vicende e nei racconti familiari (e ancora più difficilmente nella società); lo sguardo delle nuove generazioni appare prevalentemente appiattito sul presente, ed è difficile rendersi conto di quanto l'attuale condizione maschile e femminile sia significativamente diversa rispetto a quella delle generazioni precedenti. Emergono infine rilevanti differenze anche nei percorsi formativi («Come si impara a diventare uomo e donna, in famiglia?»), con passaggi di iniziazione, compiti e attività molto più chiari, ma spesso stereotipati e tradizionali, per le giovani donne, mentre appare meno netta, più incerta e problematica l'iniziazione al maschile per i ragazzi. Uomini e donne, quindi, che scrivono in ogni famiglia un nuovo ed irripetibile romanzo, fatto di racconti, di progetti, di legami: in questo volume le loro voci.

Laura Formenti, La trasmissione dell’identità di genere tra le generazioni, San Paolo 2002, € 18
«Avvenire» del 22 ottobre 2006

Il circo della libertà

Sin da neonati viviamo in stretto legame con la nostra madre, necessario per poter sopravvivere, in una simbiosi che ci rende parte di un altro essere, e dunque tutt’altro che «liberi». Ma anche quando cresciamo ci ritroviamo con determinati genitori, in una data condizione economica, con un grado di cultura che limita le nostre azioni. Se guardiamo alla nostra storia individuale ci rendiamo conto di quanti numerosi siano i fattori che ci legano a condizioni che non abbiamo scelto spontaneamente
di Vittorino Andreoli

1 Se l’uomo sente di non poter scegliere, di non essere libero, allora prova un profondo senso di frustrazione e aspira a ribellarsi
2 La possibilità di poter scegliere un’opzione tra tante. È questo il senso ristretto della libertà, quella che potremmo definire «debole»
3 Il compromesso è l’agire secondo il mero interesse o secondo l’empirismo del vantaggio: il dramma vero di questa società senza princìpi
4 È preoccupante lo status che questo principio ha in ciascuno di noi e nel nostro Paese, che sembra diventato un Paese di Pulcinella
TRA «FILOSOFIA» ED «ESISTENZA». Quando si parla di libertà riferita specificamente all’individuo si percepiscono come in un’eco le elaborazioni susseguitesi nel corso dei secoli sulla libertà considerata in una dimensione teorica, separata dal singolo e da un ambiente concreto. E sebbene in questo contesto storico essa sembri imporsi in contrasto con una concezione determinista e meccanicistica del comportamento e della vita dell’uomo, tuttavia se ne vanno riducendo gli àmbiti e gli spazi, fino a proporla come libertà all’interno di un recinto di condizionamenti.
Guardando alla storia individuale di ciascuno di noi ci si rende conto di quanto numerosi siano i fattori che ci legano a condizioni non scelte del tutto liberamente. Ritengo pertanto sia necessario parlare semmai di libertà all’interno di uno spazio possibile, di un condizionamento comunque dato.
La dimensione, in altri termini, non è quella della libertà intesa come possibilità di fare qualsiasi cosa, di compiere una qualunque scelta semplicemente perché ciò è astrattamente possibile in virtù di una libertà estrema.
Sin da neonati, ad esempio, viviamo in stretto legame con nostra madre, una simbiosi necessaria per poter sopravvivere, che ci costituisce parte di un altro essere ma che in qualche misura ci rende tutt’altro che liberi. Anche quando cresciamo ci troviamo a vivere con «quei» genitori ben determinati, in un data condizione economica, con un grado di cultura preciso che circoscrive la nostra visione del mondo e ambienta di conseguenza le nostre azioni. Ci rendiamo conto allora di avere limiti indesiderati, condizionanti che dipendono dalla nostra personalità, dall’essere – poniamo – introversi anziché fiduciosi e aperti alle esperienze, o anche dall’avvertire una paura indefinita che ci rende diffidenti e ci spinge sempre più a rifiutare il nuovo piuttosto che a cercarlo.
Ci accorgiamo, per fare un esempio, di frequentare una scuola con un’insegnante che sembra non apprezzarci: quest o condiziona la nostra capacità espressiva, che ci spinge a compiere gesti di rottura certo non considerabili frutto di una libera scelta poiché mai si sarebbero verificati in un clima di accettazione e non di frustrazione. Scopriamo poi che un evento precedente finisce per influire su quello successivo, e che quindi siamo prigionieri di una catena di avvenimenti che ci condiziona e non permette di «voltare pagina» disinvoltamente, riprendendo con nuova energia e maggiore determinazione la vita.
Dentro a condizionamenti, ancora, resta impigliato il ragazzo che si trova con la pelle di un colore diverso e che vede ergersi d’intorno barriere di pregiudizio. Questa situazione gli fa constatare che la società di cui fa parte considera in modo differente un medesimo comportamento soltanto in base al colore della pelle.
Non tutto evidentemente va visto in modo negativo, come se avessimo a che fare solo con una serie di ostacoli.
I condizionamenti tuttavia finiscono talora per limitare la libertà anche quando sono positivi, vantaggiosi. Basta pensare all’amore, cioè a quel legame esclusivo che fa sembrare impossibile vivere senza lei o lui.
Si tratta infatti di una situazione che produce l’effetto di circoscrivere il mondo alla persona dell’amato, al suo comportamento, senza saper più scorgere tutto ciò che si potrebbe sperimentare ma che non si desidera perché non se ne intravede più la necessità. È il limite intrinseco all’amore: esso infatti ci rende felici ma traccia un confine per la libertà all’interno della coppia. La conseguenza è che si fa quello che a entrambi pare accettabile e libero. La libertà di un insieme (e la coppia è un "insieme") mi pare diversa dalla libertà individuale di cui sto parlando.
Nelle storie dei singoli sembrano farsi più palesi i condizionamenti rispetto alle scelte che potremmo giudicare come totalmente libere. Se poi consideriamo gli studi di psicologia del comportamento, con il coinvolgimento dell’inconscio, si giunge persi no a immaginare che ci siano delle determinanti in ciò che fa il singolo dettate dall’inconscio e da conflitti di cui non si ha consapevolezza ma che esistono e agiscono anche se non ce ne accorgiamo. Si arriva allora alla facile conclusione che gesti all’apparenza liberi sono in realtà determinati da un impulso relegato nell’inconscio, in quel mondo in cui buttiamo tutto quanto ci sembra inaccettabile, magari solo per difenderci da una consapevolezza che sembrerebbe (e potrebbe) ferirci troppo acutamente. Persino la scelta di un amore può nascondere un complesso edipico non risolto che spinge a cercare qualcuno che sia come la propria madre, e non chi liberamente si sarebbe cercato e trovato affascinante se quel complesso non fosse stato presente, o lo si fosse già risolto.
Quando parliamo di libertà ci tornano in mente le straordinarie riflessioni della filosofia, da quella greca ai nostri giorni. Ma se guardiamo alla storia di ciascuno tutto sembra sparire, o almeno viene messo tra parentesi.
E quella libertà a caratteri maiuscoli si riduce a una condizione quasi minimalista, comunque delimitata dai condizionamenti.
Se nel Rabelais dell’abbazia di Thélème la regola è «fay ce que vouldras» («fai quello che vuoi»), nelle storie personali al massimo si parla di libertà all’interno di regole, vale a dire di una libertà possibile nel rispetto di norme che s’impongono limitando una libertà intesa a tutto campo.
Andrebbero qui richiamate le distinzioni tra licenziosità e libertà, ma non voglio entrarvi. Mi limiterò piuttosto ad affermare che la libertà è un’esigenza, una percezione, e non sempre una condizione concreta. La libertà individuale consiste nella possibilità di dire sì o no anche dentro una condizione di «schiavitù». Quando negli Stati Uniti dopo la guerra di Secessione fu abolita questa condizione di totale dipendenza, molti schiavi fecero appello alla propria libertà per dire no alla libertà. Preferivano infatti rimanere nello stato in cui erano nati, che garantiva loro la sopravvivenza. Intendo dire che ci si può trovare a tal punto inseriti all’interno di un condizionamento da non essere più in grado di aspirare alla libertà. È questo il senso dell’affermazione – già da noi citata in un precedente appuntamento – del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij: il popolo non vuole la libertà, ma un tozzo di pane e un padrone cui ubbidire. Vuole la libertà di non volere la libertà.

FELICITÀ. Quello che siamo andati sin qui esplorando è un tema che affascina e si chiarisce meglio se si uniscono le parole «libertà» e «felicità», che tra loro hanno un legame paradossale. La felicità dell’innamorato infatti si dà solo dentro la condizione di dipendenza e di abbandono della propria volontà a quella dell’altro per fare ciò che egli o ella desidera. Così si può dire per la felicità di un eremita che abbia incontrato Dio e che donandosi a Lui rinuncia a ogni spazio di libertà individuale per seguire le regole dettate dall’amor di Dio, ciò che Dio vuole da chi si è appartato dal mondo, aspirando a stare sempre con Lui, felice per avergli consegnato la propria libertà.
Questa premessa è doverosa per leggere nella giusta dimensione il termine che qui usiamo e che innalziamo a principio necessario per vivere. Potremmo dire – ancora paradossalmente – che l’uomo deve potersi sentire libero anche se non lo è, e deve poter scegliere anche se ha spazi di libertà ridotti, collocati come sono all’interno di un condizionamento.
Se l’uomo sente di non poter scegliere, di non essere libero, può provare un profondo senso di frustrazione, aspirando a ribellarsi, oppure a scegliere ciò che è proibito. Arriva così a infrangere le regole per compiere una scelta, che poi si risolve ancora in un condizionamento.
Per rendere più chiara questa condizione umana si può richiamare il tipo «oppositivo», cioè colui che fa sempre e solo il contrario di quanto gli viene richiesto. Chi accetta di essere guidato, fa ciò che gli viene domandato, mentre l’oppositivo fa puntualmente l’opposto.
È un atteggiamento frequente tra gli adolescenti nelle relazioni con i propri genitori. Se viene chiesto loro di fare una cosa si comportano esattamente al contrario anche se sul piano personale ciò che fanno non li soddisfa, né l’avrebbero mai fatto senza quella data richiesta. In questo caso il giovane ritiene di essere libero, mentre semplicemente dipende da una decisione altrui.
Non si pensi che siamo di fronte a un comportamento legato esclusivamente all’età della crescita, o magari all’immaturità. Guardiamo ad esempio i partiti politici, al cui interno personaggi pubblici di primo piano sembrano affermare puntualmente l’opposto di quanto un politico di parte avversa ha appena sostenuto. Senza spirito critico, e senza vera libertà, ma come semplice riflesso condizionato, in un gioco senza fine di opposizioni reciproche.
Se dunque la filosofia si occupa della Libertà con la maiuscola, noi invece ci interessiamo dell’esigenza di libertà che si pone – lo ripetiamo, ed è importantissimo – anche in situazioni di grande se non totale condizionamento.
Il bisogno e il diritto di ciascuno, sul piano delle scienze umane, è di poter sperimentare «operazioni di libertà», che talvolta sono singoli atti di scelta. L’opzione tra un piatto di carne e uno di pesce al ristorante fa certo parte della libertà, ma ne rappresenta solo una dimensione minimale.
Così accade anche quando si sceglie un canale televisivo escludendo di fatto tutti gli altri. Allo stesso modo, si è liberi quando si compra un abito e non ci si accorge – almeno in quel momento – dei condizionamenti imposti dalla propria disponibilità economica che esclude da certe griffes e boutiques. Nell’àmbito delle scelte ricadono anche la libertà di votare un candidato piuttosto che un altro, o scegliere una scuola per il proprio figlio piuttosto che un’altra...
In sostanza, la libertà personale ha una dimensione psicologica e si ria ssume nella possibilità di scegliere un’opzione tra le altre. È questo il senso ristretto della libertà che potremmo definire «debole» e che appare oggi dominante, fatta di tante possibilità di dire sì o no, di scegliere questo o quello, mentre manca un approfondimento capace di selezionare sulla base delle convinzioni individuali il modo in cui si vive e la piccola società di cui si vuol essere parte.

UOMO IN RIVOLTA. La libertà personale dovrebbe estendersi sino alla possibilità di ribellarsi. A usare questo concetto fu Albert Camus (1913-1960) nel suo libro L’uomo in rivolta (1951), dove sostenne che la rivolta è la possibilità di dire no a richieste che vanno contro i propri princìpi. Si tratta dunque dell’impossibilità di accettarle senza sentirsi traditori di se stessi. Questo è un grande segno di libertà, una sua dimensione maggiore, poiché permette di opporsi a ciò che andrebbe a danno della propria persona sminuendone la dignità. Ciò va fatto anche a costo di pagare in proprio e di perdere la stessa libertà. Un gesto necessario – quasi un paradosso –, che diventa l’unica condizione di libertà: salvaguardare la struttura e la dignità del proprio esistere, della dimensione individuale di ciascuno.
L’opzione che sembra imporsi nel nostro tempo è invece il compromesso: compiere un’azione inaccettabile ma apportandovi quella piccola variazione in sé non sostanziale che illude di aver mitigato il grado di dipendenza.
Siamo giunti ormai a un tipo di imposizione che di fatto lascia un minimo margine di scelta: si diventa succubi con l’impressione di essere liberi. Detto altrimenti: imponi pure una cosa ma lasciando sempre una piccola variabile, una possibile apertura del tutto secondaria che rende però molto più facile l’accettazione e l’obbedienza.
A questo punto verrebbe quasi voglia di fare l’elogio della disobbedienza, quando questa però fosse legata a un’attenta valutazione della richiesta e alla verifica dell’impossibilità di armonizzarla con l e proprie idee e convinzioni.
Allora, e solo allora, si potrebbe dire «no», pronti ad accettare ogni conseguenza semplicemente perché sarebbe stato «impossibile» obbedire.
A dominare la scena oggi sembra invece essere la regola di perseguire il proprio tornaconto accettando esclusivamente ciò che porta qualche vantaggio. La scelta è condizionata da benefici momentanei, tanto che si è pronti a compiere azioni di segno opposto purché siano vantaggiose.
«Compromesso» significa agire per interesse o sulla base di una sorta di empirismo del beneficio. Mi pare questo il vero dramma di una società senza princìpi, una constatazione che dimostra la morte del principio di libertà individuale, di quel bisogno cioè di mantenere il proprio comportamento all’interno d’una coerente unità di vedute.
Una corretta lettura della libertà personale, ad esempio, deve comprendere la sfera della sessualità, nel senso di mettere in gioco il proprio corpo dentro una relazione significativa e non all’interno di un rapporto dominato dal criterio del vantaggio. Il corpo, invece, oggi è diventato strumento di un successo di piccolo cabotaggio mentre domina una «prostituzione» della propria libertà sessuale per benefici effimeri.
È necessario aggiungere che anche la libertà collocata dentro la condizione umana – e dunque nella storia che la determina – ha bisogno di una dimensione interiore, di un riferimento in base al quale certe cose non si devono fare mai e altre sempre. La libertà si struttura proprio all’interno di una formazione, dentro una convinzione radicata. Libertà significa difendere i propri princìpi senza dover scendere a patti avendone fatto oggetto di mercanteggiamento. Vuol dire difenderli proprio perché la dignità di ciascuno consiste nella persuasione di rimanere legati a ciò che si considera parte di una storia che affonda le radici nel proprio passato, se non nella storia della propria famiglia. Compromettere le proprie convinzioni significa compromettere un’inter a identità storica.

PAESE DI PULCINELLA. Ho l’impressione che la situazione di questo principio si sia fatta drammatica in ciascuno di noi come anche nel nostro Paese, che sembra diventato il paese di Pulcinella, del teatro stabile in cui si indossano le più diverse maschere per rendersi sempre disponibili al gioco che appare in quel momento il più vantaggioso. Si arriva persino a dotare il proprio corpo di capacità multiple e differenziate per poter rispondere sempre a ogni esigenza che prometta vantaggi significativi, o apparentemente tali.
Bisogna che dentro ciascuno di noi oltre a un serio riferimento vi sia anche la percezione del proprio futuro personale: se infatti tutto si riduce all’oggi non sembra aver più alcun senso costruire una persona con caratteristiche ben definite, idee chiare e non fumose per potersi adattare sempre a nuove interpretazioni o a cambiamenti sostanziali.
Ma il nostro tempo sembra vivere solo di presente guardando solo alla concretezza del momento attuale. In più, mancano esempi: la politica che ha finito per imporsi attraverso gli strumenti della comunicazione di massa brulica di personaggi modesti, pronti di continuo a cambiar strada e a seguire percorsi che nemmeno sfiorano la profondità delle convinzioni personali, perché si appiccicano piuttosto come francobolli che oggi recano un’immagine totalmente diversa da quella che ospiteranno domani.
La politica sembra celebrare i voltagabbana, coloro che sono giunti a deprecare la coerenza e a considerare la retromarcia o l’accelerazione nel senso opposto a quello da cui si proviene come un segno di grande flessibilità.
Dentro di essa non c’è posto né per la libertà né per la dignità. Tutto pare spettacolo, la vita è affidata a un attore che continua a recitare parti differenti e contrapposte. L’importante sembra sia restare sulla scena e fare in modo che il sipario non cali mai. Una situazione che a me pare addirittura vergognosa.
Questa è infatti la «cultura del fur bo» e non quella dell’uomo libero, cioè di colui che sa dire no. Si dice invece sempre sì, limitandosi a chiedere piccole variazioni che chi comanda ha già previsto.

LIBERTÀ DI PENSIERO. Sta scomparendo non solo la libertà di pensiero ma anche la stessa capacità di pensare, attività che pare ridotta a una crocetta su una delle possibili risposte suggerite. Dicendo questo intendo la scomparsa del pensiero come costruzione o strumento per trovare soluzioni che quando sono nuove – almeno per la propria mente – risultano difficili e faticose perché richiedono un allenamento che non si compie più. Il sapere e la scoperta sono limitati infatti a trovare qualcosa di già fatto: ad esempio consultando siti web e leggendo quanto vi è scritto. Nulla esce più dal cervello, cioè dal proprio pensiero: tutto è contenuto in una macchinetta che offre la soluzione se solo si digita correttamente qualche suo tasto. Il computer è diventato il succedaneo del nostro cervello mentre l’organo reale, quello che ci ha dato madre natura, serve solo a comandare i polpastrelli per operare sulla tastiera. A questo pare ridursi l’espressione del pensiero e dell’intelligenza dell’uomo del tempo presente.
Non si pone più il problema della libertà di pensiero semplicemente perché si è logorata la capacità di pensare, l’abilità di fare associazioni e correlazioni, di stabilire legami tra causa ed effetto, tra un’idea e la sua origine, tra passato e presente sapendosi mettere in un gioco che diventa conoscenza e scoperta nello stesso tempo: un bagaglio di dati da elaborare perché quel problema specifico e nuovo è legato al singolo individuo. Tutto è invece affidato a una pagina che chiunque può vedere e sulla quale tutti trovano la soluzione. Di questa neppure si sa più valutare la profondità e il significato, se abbia la dignità stessa di soluzione. Anche per questa cosa semplicissima infatti bisognerebbe pensare, ma non si è più capaci di farlo.
Né si creda di poter fare riferimento a u na capacità acquisita che, come tale, non sarebbe più possibile perdere. Le «ignoranze di ritorno», la stupidità da regressione, l’inattività mentale da riposo continuato o da capacità mai costruita mi sembrano oggi drammaticamente evidenti.
Esagero? Basta osservare la capacità di scrivere in italiano non dei bambini delle elementari ma di laureati, che troppo spesso non sanno esprimersi in maniera corretta. Aveva ragione Benedetto Croce (1866-1952): la capacità di comunicare si lega a quella di approfondire un tema, e dunque alla conoscenza.
È incredibile come la nostra società non si preoccupi della vera libertà del singolo e abbia invece alterato una cultura che si fondava proprio su di essa. Ma è parimenti incredibile come, pur partendo dall’eredità classica del nostro sapere fondato sul pensiero e sul suo procedere, questa stessa società abbia optato per un empirismo di tipo anglosassone che non mira alla comprensione dei fenomeni ma semplicemente alla soluzione comportamentale dei problemi, e dunque appunto alla scelta, limitando la libertà a questa sua elementare e minima espressione. Anche i cani (che pure mi piacciono molto) sono capaci di scegliere tra un piatto di pastasciutta e un pezzo di carne di manzo con l’osso, ma non sono né pretendono di essere maestri di logica e di creatività.

CREATIVITÀ. Dopo aver incrociato libertà e felicità esplorando le correlazioni tra esse, dobbiamo ora coniugare la libertà con la creatività. In questo caso i due parametri vanno nella stessa direzione: senza libertà non c’è creatività. È curioso come il mondo dell’imprenditoria reclami l’esigenza di creazioni nuove, di innovazioni tecnologiche, di estetica commerciale proprio mentre metodi educativi e stili di vita vanno verso la tecnologizzazione del sapere e il blocco della libertà di pensiero.
La creatività in questo tempo che la celebra e la evoca continuamente è molto bassa. Mai come oggi in Italia mancano i grandi esempi, specialmente nei campi dell’ar te e della scienza. Non si dà scienza senza capacità creativa e dunque senza libertà di pensare e di immaginare l’esperimento, che nasce nella mente prima di essere realizzato in laboratorio. Non si dà scienza anche se si riempiono pagine e pagine di riviste scientifiche, che però finiscono per apparire canovacci teatrali pressoché incomprensibili e che rivelano soltanto una condizione di miseria mascherata con la voglia di sembrare grandi.
Questo quadro impietoso – ma a mio modo di vedere veritiero – è la conseguenza della perdita di princìpi nel singolo, come del rispetto della dignità della persona umana e delle sue capacità. L’individuo è stato ridotto alla dimensione delle cose che ha e del denaro che possiede: per averne – e anche tanto – non è indispensabile però l’intelligenza ma basta la furbizia e un temperamento da fuorilegge, ad esempio evitando di pagare le tasse o esercitando un potere che metta fuori gioco i concorrenti. Servono più i trucchi finanziari che l’intelligenza, e in questo i più abili sono i prestigiatori che fanno sparire nel cappello a cilindro un coniglio per fare apparire al suo posto un fazzoletto, anch’esso falso.
La nostra società ha criticato i fallimenti della politica di massa e del potere consegnato al popolo, innalzando la bandiera dei diritti individuali e della libertà del singolo, ma in realtà non nutre alcun rispetto per il singolo ridotto semplicemente a un giocoliere da circo.
In base a quanto raccatta egli copre l’ignoranza e l’incapacità di essere. Piuttosto che pensare e aprirsi alla creatività finisce per limitarsi ad aprire il portafoglio, da cui dipende tutto, anche la libertà.
Libertà personale significa invece avere la possibilità di mettere a frutto le proprie caratteristiche (i talenti) e far in modo che si realizzino compiutamente. È questa la libertà che ci viene negata quando siamo spinti all’omologazione, ostacolati nel fare ciò per cui siamo portati e costretti invece a dedicarci a quanto appare p iù vantaggioso, finendo così per non compiere ciò che permetterebbe alla nostra personalità di realizzarsi e di essere gratificata invece di andare incontro a una demotivazione che si traduce in frustrazioni e senso di fallimento a causa di scelte forzate, contrarie ai nostri desideri e inclinazioni
Una libertà personale povera sino a questo punto può portare una civiltà al declino: una morte coperta di banconote.
È tempo di restituire dignità ai princìpi del singolo, poiché la persona è centro dell’esistenza solo se sa esprimere un buon grado di libertà: e in particolare, pur tra i tanti condizionamenti, la libertà di pensare, la libertà di cercare, la libertà di poter dire no ai soprusi, che sono la più grande minaccia di questo tempo, assieme alla stupidità che azzera tutte le altre.


IL LIBRO
Educazione e malattie dello spirito
Persona e libertà
In quest’opera Guardini analizza il significato dell’educazione in vista di un dispiegarsi totale della persona. Il termine stesso «persona» ci porta nel centro della riflessione teologica in quanto è proprio attraverso la Rivelazione che il termine ha fatto il suo ingresso nella cultura occidentale. Utilizzando gli apporti dell’analisi fenomenologica, l’autore scopre le cause profonde delle malattie dello spirito: quando l’uomo perde di vista il suo proprio bene, decade da se stesso. Scrive Guardini: «Affiora di nuovo a questo punto la domanda se la persona possa essere minacciata. Essa lo può realmente, ma solo là dove sta la sua garanzia essenziale. Premettiamo un’altra domanda: può ammalarsi lo spirito? Non parliamo di quelle che il linguaggio corrente designa come “malattie dello spirito”. In esse si tratta in realtà di disturbi delle funzioni cerebrali, della vita istintiva, dei processi dell’immaginazione, dell’esperienza della realtà e così via. Tali disturbi non toccano lo spirito in quanto tale, ma solo i suoi sostrati fisici e organici. Essi bloccano i suoi atti; ma sono anche prove, nel cui superamento cresce lo spirito. Però lo spirito non esiste simpliciter, indipendente dai suoi contenuti. Esso non può condurre la sua vita come gli piace, senza che questo non si ripercuota sul suo stesso essere. La vita dello spirito – e qui sta la sua caratteristica – è garantita non solo da ciò che è, ma anche in definitiva da ciò che vale: dalla verità e dal bene. Se lo spirito viene meno in ciò, si compromette in quanto spirito. La semplicità e la indistruttibilità, che sono le prerogative con cui si suole definire lo spirito, lo preservano sì da danni come quelli che avvengono ai corpi composti, ma non dalle conseguenze delle decisioni a riguardo dei valori. Se esso decade dalla verità, s’ammala».
Romano Guardini, La Scuola, Brescia, pp. 240
«Avvenire» del 29 ottobre 2006