«Nel complesso, la sociologia dell’Ottocento non ha aiutato affatto la problematica sulla vita in comune dei soggetti, non ha fatto luce sui conflitti che animano la società e soprattutto sulla violenza che ne è una caratteristica. Occorre chiedersi se il comunismo non sia figlio del clima sociologico, se non altro perché è partito dalla condizione delle fabbriche e dall’analisi dei salari. Se così fosse, il giudizio sull’apporto sociologico si farebbe certo più rilevante»
di Vittorino Andreoli
Quando il vigore dell'idealismo tedesco andò affievolendosi, e cioè verso il 1830 con la morte di Hegel, sorse in Francia il movimento positivistico. Il conte Claude de Saint-Simon (1760-1825) ne è considerato il precursore, ma fu Auguste Comte il vero leader di questa scuola. Il positivismo si pose come reazione alla filosofia sistematica e alla metafisica; contro gli astrattismi (compresi quelli dell'Illuminismo) e dichiarò di volersi occupare esclusivamente dei fatti.
Per chi si occupa di diritto il positivismo riveste una notevole importanza per il suo tentativo di fondare una scienza nuova: quella dei fatti sociali, che Comte chiamò sociologia.
Per chi si occupa di diritto il positivismo riveste una notevole importanza per il suo tentativo di fondare una scienza nuova: quella dei fatti sociali, che Comte chiamò sociologia.
Il punto di partenza è l'idea della dipendenza sociale dell'individuo, della differenza tra società e Stato e della necessità di uno studio positivo delle condizioni sociali.
Sarà utile, allora, ricordare alcuni filoni, strettamente legati ai rappresentanti più significativi della scuola, a partire da Comte.
Sarà utile, allora, ricordare alcuni filoni, strettamente legati ai rappresentanti più significativi della scuola, a partire da Comte.
LA SOCIOLOGIA SINTETICA: AUGUSTE COMTE. Si evidenzia subito il bisogno di una scienza che si occupi di tutti i fenomeni sociali e dunque che elimini le pseudo-scienze che l'avevano preceduta (morale, politica, filosofia del diritto...), basandosi su un metodo rigorosamente positivo e sulla scorta del divenire dei fatti sociali. Si possono distinguere due fasi nel pensiero di Comte. La prima è rappresentata dai sei volumi del Cours de philosophie positive (1830-1842). La filosofia non ha altro compito che quello di classificare le scienze e - al di sopra delle scienze dei numeri e delle figure, dei corpi inorganici e degli organici - deve porsi una scienza dei fatti sociali fondata sugli stessi criteri; ciò che si può ben sintetizzare con la formula di «physique sociale» (fisica sociale).
I fatti umani, cioè, vanno studiati seguendo i criteri che si applicano alla fisica.
«È parte complementare della filosofia naturale, che concerne lo studio positivo del complesso delle leggi fondamentali proprie dei fenomeni sociali» (Cours de philosophie positive, lezione 47).
Occorre prima di tutto studiare le condizioni di esistenza delle società sotto l'aspetto statico: ciò che porta alla nozione di «ordine». Il concetto fondamentale è quello di «consensus», considerato come legame. È questa una sorta di anatomia sociale che non si limita all'analisi delle caratteristiche dei singoli, ma si dedica in particolare all'influsso dell'azione reciproca degli individui.
Lo studio diventa così l'analisi delle azioni e reazioni reciproche tra le varie parti del sistema sociale.
La statica deve essere integrata dalla dinamica sociale e questa è denominata progresso: un movimento continuo delle società. Come legge fondamentale della dinamica, Comte considerava quella dei tre stati: l'umanità passa dapprima attraverso una fase teologica, in cui i fenomeni sono spiegati ricorrendo a entità artificiose, gli dèi; quindi attraverso una fase metafisica o astratta dove si ricorre a spiegazioni mediante entità insussistenti (enti, sostanze, essenze...); infine trova la sua conclusione nella fase positiva.
Comte pensa alla sociologia come a un incipit per la politica, nel senso che la conoscenza delle leggi che reggono i fenomeni sociali circoscrive «i limiti fondamentali e il carattere essenziale dell'azione politica propriamente detta».
Vi è uno stretto nesso, infatti, tra istituzioni politiche e costumi sociali (Cours de philosophie positive, lezione 48).
L'applicazione al campo della politica avvenne nel Système de politique positive, ou Traité de sociologie instituant la religion de l'humanité (4 voll., 1851-1854). Comte conserva la fede nella ragione, nella perfettibilità umana e confida molto più nell'autorità che nella libertà, condividendo l'entusiasmo dei romantici per la società medievale e per il cattolicesimo, proprio perché incentrati sul concetto di autorità. Questo tema provocò molte discussioni e persino dissidi all'interno della stessa scuola positivistica.
John Stuart Mill, ammiratore e sostenitore di Comte, nel saggio La libertà (1859), dimostra il principio secondo cui il solo fine per il quale gli uomini sono autorizzati a intralciare la libertà d'azione dei propri simili è la protezione di se stessi. Il solo intento per cui può essere esercitata un'autorità, quindi, è quello di impedire che si rechi danno ad altri. Mill conclude affermando che la sfera della società riguarda solo l'ambito nel quale l'azione di un individuo può danneggiare gli altri, mentre in quello che riguarda esclusivamente l'individuo, l'indipendenza di questi è di diritto assoluto. Qui la società può avere solo un interesse indiretto: si tratta della sfera che comprende la libertà di pensiero, di opinione, di foggiarsi da sé il piano della propria vita. Certo non è facile separare i due domini: fino a che punto l'ignoranza di un individuo può essere considerata un suo fatto personale? Non è questa spesso causa di mali altrui?
È facile constatare come nella società moderna niente o quasi niente di ciò che può fare l'individuo sia indifferente rispetto alla società.
Mill rappresenta però una sorta di autore limite: crede nella sociologia, ma al tempo stesso intende rimanere fedele al liberalismo.
A Herbert Spencer, che a differenza di Comte non si era limitato a generalizzazioni e a princìpi, spetta invece il tentativo di fondare in maniera veramente positiva la sociologia.
Scrisse i Princìpi di sociologia (3 voll., 1877-1896): una massa enorme di materiale. Spencer si servì soprattutto della etnografia sorta sul finire del XVIII secolo a opera dei missionari e trasse un sussidio anche dall'evoluzionismo di Charles Darwin. Il principio fondamentale della sua elaborazione, non a caso, è proprio quello della evoluzione. Per Spencer vi è una unità di evoluzione progressiva, che dai fenomeni inorganici si estende a quelli organici, poi a quelli sociali ed etnici; è la legge del passaggio dall'indifferenziato al differenziato .
Un percorso accompagnato dall'unità pure della mente umana, per il quale le leggi del pensiero sono uguali dappertutto; e i selvaggi contemporanei sarebbero simili ai nostri antenati, cioè agli avi preistorici dei popoli civili.
Nel processo evolutivo vi è dapprima l'orda in cui la vita è promiscua, tutti esercitano le medesime funzioni e manca ogni autorità (l'idea era già stata di Johann Jakob Bachofen). L'orda agisce in un sistema sociale in cui si distinguono varie funzioni: la società è infatti un tutto armonicamente ordinato, composto di parti ognuna con un ufficio proprio in relazione al tutto. L'evoluzione conduce da una società primitiva, in cui domina l'autorità centrale, a società sempre più differenziate, nelle quali l'autorità cede sempre più il posto alla libertà, divenendo la vita sociale sempre più la conseguenza di un armonizzazione spontanea degli individui. Si passa dalla prima società militare alla società industriale.
Nei Princìpi di etica (2 voll., 1892-1893) Spencer si spinse ad affermare che si sarebbe giunti a un punto di sviluppo nella società in cui con l'eliminazione dei fattori perturbatori e con l'adattamento progressivo all'ambiente sociale, il concetto di obbligazione e quindi quello di dovere e di obbligo morale sarebbero spariti. Si sarebbe allora affermata un'etica ideale, fondata sul principio dell'eguale libertà per tutti, la quale renderebbe inutile la coazione del diritto e quindi dello Stato. Il punto finale della evoluzione, secondo Spencer, è perciò un liberalismo anarchico.
Tuttavia le idee di Spencer furono presto sottoposte a critica, perché piene di «a priori» e con riferimenti alle società primitive non adeguatamente vagliati.
John Stuart Mill, ammiratore e sostenitore di Comte, nel saggio La libertà (1859), dimostra il principio secondo cui il solo fine per il quale gli uomini sono autorizzati a intralciare la libertà d'azione dei propri simili è la protezione di se stessi. Il solo intento per cui può essere esercitata un'autorità, quindi, è quello di impedire che si rechi danno ad altri. Mill conclude affermando che la sfera della società riguarda solo l'ambito nel quale l'azione di un individuo può danneggiare gli altri, mentre in quello che riguarda esclusivamente l'individuo, l'indipendenza di questi è di diritto assoluto. Qui la società può avere solo un interesse indiretto: si tratta della sfera che comprende la libertà di pensiero, di opinione, di foggiarsi da sé il piano della propria vita. Certo non è facile separare i due domini: fino a che punto l'ignoranza di un individuo può essere considerata un suo fatto personale? Non è questa spesso causa di mali altrui?
È facile constatare come nella società moderna niente o quasi niente di ciò che può fare l'individuo sia indifferente rispetto alla società.
Mill rappresenta però una sorta di autore limite: crede nella sociologia, ma al tempo stesso intende rimanere fedele al liberalismo.
A Herbert Spencer, che a differenza di Comte non si era limitato a generalizzazioni e a princìpi, spetta invece il tentativo di fondare in maniera veramente positiva la sociologia.
Scrisse i Princìpi di sociologia (3 voll., 1877-1896): una massa enorme di materiale. Spencer si servì soprattutto della etnografia sorta sul finire del XVIII secolo a opera dei missionari e trasse un sussidio anche dall'evoluzionismo di Charles Darwin. Il principio fondamentale della sua elaborazione, non a caso, è proprio quello della evoluzione. Per Spencer vi è una unità di evoluzione progressiva, che dai fenomeni inorganici si estende a quelli organici, poi a quelli sociali ed etnici; è la legge del passaggio dall'indifferenziato al differenziato .
Un percorso accompagnato dall'unità pure della mente umana, per il quale le leggi del pensiero sono uguali dappertutto; e i selvaggi contemporanei sarebbero simili ai nostri antenati, cioè agli avi preistorici dei popoli civili.
Nel processo evolutivo vi è dapprima l'orda in cui la vita è promiscua, tutti esercitano le medesime funzioni e manca ogni autorità (l'idea era già stata di Johann Jakob Bachofen). L'orda agisce in un sistema sociale in cui si distinguono varie funzioni: la società è infatti un tutto armonicamente ordinato, composto di parti ognuna con un ufficio proprio in relazione al tutto. L'evoluzione conduce da una società primitiva, in cui domina l'autorità centrale, a società sempre più differenziate, nelle quali l'autorità cede sempre più il posto alla libertà, divenendo la vita sociale sempre più la conseguenza di un armonizzazione spontanea degli individui. Si passa dalla prima società militare alla società industriale.
Nei Princìpi di etica (2 voll., 1892-1893) Spencer si spinse ad affermare che si sarebbe giunti a un punto di sviluppo nella società in cui con l'eliminazione dei fattori perturbatori e con l'adattamento progressivo all'ambiente sociale, il concetto di obbligazione e quindi quello di dovere e di obbligo morale sarebbero spariti. Si sarebbe allora affermata un'etica ideale, fondata sul principio dell'eguale libertà per tutti, la quale renderebbe inutile la coazione del diritto e quindi dello Stato. Il punto finale della evoluzione, secondo Spencer, è perciò un liberalismo anarchico.
Tuttavia le idee di Spencer furono presto sottoposte a critica, perché piene di «a priori» e con riferimenti alle società primitive non adeguatamente vagliati.
Insomma, ci si trovava ancora tra fantasia e utopia. In particolare era difficile capire l'acquisizione di una sempre maggiore libertà quando la società andava specializzandosi sempre di più, il che significa acquisire funzioni sempre più connesse con altre, e ciò semmai ha il s enso di una dipendenza del singolo dall'organismo nel suo insieme. Insomma, più che di liberalismo spenceriano ci si trova di fronte a un organicismo sociologico.
Dominava poi il pregiudizio naturalistico secondo il quale lo studio delle origini è essenziale per spiegare la natura d'una data realtà. Come se per capire cos'è un uomo fosse più importante studiare l'embrione anziché l'individuo maturo (quello che agisce).
Queste facili critiche determinarono anche la fine della sociologia sintetica che, sulla base di audaci generalizzazioni di pochi fatti, pretendeva di trarre i princìpi completi della società e della politica. Si comprese che occorreva seguire un'altra strada, quella analitica e che bisognava esaminare molti più fatti di quanto non fosse accaduto fino allora.
LA SOCIOLOGIA ANALITICA. Occorreva studiare e capire, prima dei fenomeni complessi, quelli più semplici o elementari, e solo partendo da questi si poteva per uniformità giungere a generalizzazioni via via più ampie. Ponendo attenzione a questa dimensione, poi, ci si accorse che invece di riferirsi alla etnografia e alla biologia, era meglio riferirsi alla psicologia.
Gabriel de Tarde negli Etudes de psychologie sociale (1898) spiega il dinamismo sociale e le sue lotte con la selezione e con l'adattamento sulla base dei due concetti di imitazione e di opposizione; mentre Emile Durkheim, a capo della scuola dei piccoli fatti, spiega il fenomeno sociale mediante i concetti di simiglianza e dissimiglianza: la prima porta a una solidarietà meccanica in cui l'individuo è confuso con i suoi simili in una società di tipo collettivo che dà origine alla morale comune; la seconda a una solidarietà organica con una specificazione degli individui, che si manifesta nella divisione del lavoro sociale e dà origine al regime giuridico.
Comune a Tarde e a Durkheim è il rifiuto della psicologia di introspezione.
In questo filone rientra anche Wilhem Wundt, che parla di psicologia empirica, fondand o a Lipsia nel 1870 il primo laboratorio di psicologia sperimentale (Grundriss der Psychologie. Volkerpsychologie, 10 voll., Leipzig 1920).
LA SOCIOLOGIA PURA. Sulla scorta degli scarsi frutti della sociologia analitica, nacque un indirizzo che considera la sociologia come studio delle forme della società e dei rapporti sociali. Si comprese che mentre la psicologia o la etnografia non potevano fungere da strumenti per la ricerca, si poteva costituire la sociologia proprio come scienza astratta, che isola determinate forme, spiega gli avvenimenti per mezzo delle forze e delle configurazioni sociali, rinunciando a ogni pretesa di sollevarsi al di sopra del campo fenomenologico.
Rappresentanti di questo corso sono il Ferdinand Tonnies (Comunità e società, 1887) e Georg Simmel (Sociologia, 1908) che ha soprattutto insistito sul carattere astratto della psicologia e sul valore puramente euristico del metodo sociologico. Bisogna però ricordare in quest'ambito anche Max Weber e Vilfredo Pareto.
Non si è avverato insomma il sogno di Comte di soppiantare, attraverso la sociologia, discipline come la filosofia del diritto e l'etica.
Più modestamente, si è aggiunta un'altra disciplina a quelle che hanno resistito, e che certamente non potevano essere soppiantate dalla inconsistenza della sociologia. Non si può dire che si sia trattato di uno sforzo inutile, quanto piuttosto dell'elaborazione di una disciplina che ha posto problemi nuovi e permesso di focalizzare meglio alcuni di quelli antichi. Ad esempio, di indagare più a fondo sulla differenza tra società e Stato; attivando un'ampia riflessione sulla teoria della classe dominante, del partito politico o della classe politica.
Si discusse a lungo l'idea di Saint-Simon, secondo la quale in ogni società vi sono sempre due poteri e due classi, che sono costanti, indipendentemente da chi le rappresenta nella storia in maniera concreta. Come a dire che è fondamentale il loro ruolo: una classe che ha la direzione mor ale e intellettuale (il clero nel Medio Evo, gli scienziati nel XIX secolo), e una che ha la direzione materiale (la nobiltà nel Medio Evo, gli industriali nel XIX secolo). Pareto (Les systèmes socialistes, Paris 1902) l'aveva applicata anche al mondo economico, evidenziando come la curva dei redditi non si modifichi mai in una società: gli individui possono - individualmente - salire o scendere da un gradino all'altro, ma altri ne prenderanno il posto e la configurazione della società resterà identica. I redditi sarebbero così sempre distribuiti secondo lineamenti uniformi in tutte le società.
Nello stesso modo si procede nel mondo politico. La civiltà si riduce a una ristretta aristocrazia: essa muta nei suoi componenti (teoria delle circolazione delle élites), ma l'orbita resta su per giù sempre uguale.
L'élite è il culmine sociale che si rinnova dal basso. L'aria, diceva il visconte Georges d'Avenel, «è sempre piena d'un fruscio di scarpine di seta che scendono e di un rumore di scarponi ferrati che salgono» (Les français de mon temps).
Un'altra uniformità è data dalla legge di sviluppo dei fatti sociali, anche se vi sono dottrine diverse dei cicli storici come quella di Saint-Simon sull'alternarsi delle epoche costruttive e di quelle distruttive.
Dominava poi il pregiudizio naturalistico secondo il quale lo studio delle origini è essenziale per spiegare la natura d'una data realtà. Come se per capire cos'è un uomo fosse più importante studiare l'embrione anziché l'individuo maturo (quello che agisce).
Queste facili critiche determinarono anche la fine della sociologia sintetica che, sulla base di audaci generalizzazioni di pochi fatti, pretendeva di trarre i princìpi completi della società e della politica. Si comprese che occorreva seguire un'altra strada, quella analitica e che bisognava esaminare molti più fatti di quanto non fosse accaduto fino allora.
LA SOCIOLOGIA ANALITICA. Occorreva studiare e capire, prima dei fenomeni complessi, quelli più semplici o elementari, e solo partendo da questi si poteva per uniformità giungere a generalizzazioni via via più ampie. Ponendo attenzione a questa dimensione, poi, ci si accorse che invece di riferirsi alla etnografia e alla biologia, era meglio riferirsi alla psicologia.
Gabriel de Tarde negli Etudes de psychologie sociale (1898) spiega il dinamismo sociale e le sue lotte con la selezione e con l'adattamento sulla base dei due concetti di imitazione e di opposizione; mentre Emile Durkheim, a capo della scuola dei piccoli fatti, spiega il fenomeno sociale mediante i concetti di simiglianza e dissimiglianza: la prima porta a una solidarietà meccanica in cui l'individuo è confuso con i suoi simili in una società di tipo collettivo che dà origine alla morale comune; la seconda a una solidarietà organica con una specificazione degli individui, che si manifesta nella divisione del lavoro sociale e dà origine al regime giuridico.
Comune a Tarde e a Durkheim è il rifiuto della psicologia di introspezione.
In questo filone rientra anche Wilhem Wundt, che parla di psicologia empirica, fondand o a Lipsia nel 1870 il primo laboratorio di psicologia sperimentale (Grundriss der Psychologie. Volkerpsychologie, 10 voll., Leipzig 1920).
LA SOCIOLOGIA PURA. Sulla scorta degli scarsi frutti della sociologia analitica, nacque un indirizzo che considera la sociologia come studio delle forme della società e dei rapporti sociali. Si comprese che mentre la psicologia o la etnografia non potevano fungere da strumenti per la ricerca, si poteva costituire la sociologia proprio come scienza astratta, che isola determinate forme, spiega gli avvenimenti per mezzo delle forze e delle configurazioni sociali, rinunciando a ogni pretesa di sollevarsi al di sopra del campo fenomenologico.
Rappresentanti di questo corso sono il Ferdinand Tonnies (Comunità e società, 1887) e Georg Simmel (Sociologia, 1908) che ha soprattutto insistito sul carattere astratto della psicologia e sul valore puramente euristico del metodo sociologico. Bisogna però ricordare in quest'ambito anche Max Weber e Vilfredo Pareto.
Non si è avverato insomma il sogno di Comte di soppiantare, attraverso la sociologia, discipline come la filosofia del diritto e l'etica.
Più modestamente, si è aggiunta un'altra disciplina a quelle che hanno resistito, e che certamente non potevano essere soppiantate dalla inconsistenza della sociologia. Non si può dire che si sia trattato di uno sforzo inutile, quanto piuttosto dell'elaborazione di una disciplina che ha posto problemi nuovi e permesso di focalizzare meglio alcuni di quelli antichi. Ad esempio, di indagare più a fondo sulla differenza tra società e Stato; attivando un'ampia riflessione sulla teoria della classe dominante, del partito politico o della classe politica.
Si discusse a lungo l'idea di Saint-Simon, secondo la quale in ogni società vi sono sempre due poteri e due classi, che sono costanti, indipendentemente da chi le rappresenta nella storia in maniera concreta. Come a dire che è fondamentale il loro ruolo: una classe che ha la direzione mor ale e intellettuale (il clero nel Medio Evo, gli scienziati nel XIX secolo), e una che ha la direzione materiale (la nobiltà nel Medio Evo, gli industriali nel XIX secolo). Pareto (Les systèmes socialistes, Paris 1902) l'aveva applicata anche al mondo economico, evidenziando come la curva dei redditi non si modifichi mai in una società: gli individui possono - individualmente - salire o scendere da un gradino all'altro, ma altri ne prenderanno il posto e la configurazione della società resterà identica. I redditi sarebbero così sempre distribuiti secondo lineamenti uniformi in tutte le società.
Nello stesso modo si procede nel mondo politico. La civiltà si riduce a una ristretta aristocrazia: essa muta nei suoi componenti (teoria delle circolazione delle élites), ma l'orbita resta su per giù sempre uguale.
L'élite è il culmine sociale che si rinnova dal basso. L'aria, diceva il visconte Georges d'Avenel, «è sempre piena d'un fruscio di scarpine di seta che scendono e di un rumore di scarponi ferrati che salgono» (Les français de mon temps).
Un'altra uniformità è data dalla legge di sviluppo dei fatti sociali, anche se vi sono dottrine diverse dei cicli storici come quella di Saint-Simon sull'alternarsi delle epoche costruttive e di quelle distruttive.
IL RITORNO DELL'INDIVIDUALISMO. Tutte e tre queste correnti della sociologia (sintetica, analitica, pura) rivelano la tendenza a reintegrare l'individuo in un ordine superiore, morale e sociale o politico, concependo il diritto in funzione di una realtà obiettiva e quindi combattendo sia la teorica dei diritti naturali innati, sia quella contrattualistica.
I positivisti concepiscono il diritto di libertà solo in funzione della vita sociale.
Il principio in base al quale i diritti dei singoli esistono solo in quanto preesistono a un ordinamento giuridico fu svolto nella cosiddetta «dogmatica dei diritti subiettivi» secondo due indirizzi. Anzitutto nella dottrina giuridica dello Stato: poiché l'ordinamento g iuridico è posto dallo Stato, che non può ammettere niente sopra o contro di sé, i singoli non hanno alcun diritto vero e proprio di fronte allo Stato, il quale può modificare e anche abolire quelle speciali facoltà che di solito sono riconosciute come diritti. Dal presupposto della personalità giuridica dello Stato si giunge a ricavare una teoria assolutistica che nega l'esistenza di diritti soggettivi fuori dello Stato.
Un secondo indirizzo è quello della scuola organicistica: concependo lo Stato con un naturalismo antropomorfico - come avente una vita e una volontà proprie, rispetto a cui quelle individuali sono accidentali e transitorie - si giunge per altra via alla negazione dei diritti innati.
Questa conclusione attivò una forte reazione e Georg Jellinek ripartì dai diritti pubblici soggettivi (Sistema dei diritti pubblici soggettivi, trad. it. Milano 1912), ritenendo che bisognasse distinguere due momenti: prima che lo Stato ponga il proprio ordinamento giuridico, nessuna pretesa giuridica può spettare all'individuo; la persona naturale non esiste nemmeno prima e fuori dell'ordinamento giuridico. Ogni diritto soggettivo postula un precedente ordinamento oggettivo, e questo è proprio dello Stato. Il diritto è volontà diretta a un fine. Volontà e fine dell'ordinamento giuridico sono dello Stato e non dell'individuo.
Ma una volta costituito l'ordinamento giuridico, poiché il diritto è essenzialmente relazione, il rapporto di dominio dello Stato diviene giuridico solo quando riveste quelle forme peculiari da cui nascono diritti e doveri reciproci tra individui e tra individuo e sovrano.
Dall'ordinamento nasce la personalità giuridica, solo e in quanto l'individuo è sottoposto allo Stato e per concessione dello Stato.
Una personalità giuridica significa personalità limitata e quando lo Stato entra in relazione con le persone singole limita se stesso. Risorgono così i diritti soggettivi, benché non più come originari e assoluti. Lo Stato si contrappo ne all'individuo proprio perché entra in relazione con esso e dunque al fatalismo viene a contrapporsi il dovere morale degli uomini di combattere per il diritto.
I positivisti concepiscono il diritto di libertà solo in funzione della vita sociale.
Il principio in base al quale i diritti dei singoli esistono solo in quanto preesistono a un ordinamento giuridico fu svolto nella cosiddetta «dogmatica dei diritti subiettivi» secondo due indirizzi. Anzitutto nella dottrina giuridica dello Stato: poiché l'ordinamento g iuridico è posto dallo Stato, che non può ammettere niente sopra o contro di sé, i singoli non hanno alcun diritto vero e proprio di fronte allo Stato, il quale può modificare e anche abolire quelle speciali facoltà che di solito sono riconosciute come diritti. Dal presupposto della personalità giuridica dello Stato si giunge a ricavare una teoria assolutistica che nega l'esistenza di diritti soggettivi fuori dello Stato.
Un secondo indirizzo è quello della scuola organicistica: concependo lo Stato con un naturalismo antropomorfico - come avente una vita e una volontà proprie, rispetto a cui quelle individuali sono accidentali e transitorie - si giunge per altra via alla negazione dei diritti innati.
Questa conclusione attivò una forte reazione e Georg Jellinek ripartì dai diritti pubblici soggettivi (Sistema dei diritti pubblici soggettivi, trad. it. Milano 1912), ritenendo che bisognasse distinguere due momenti: prima che lo Stato ponga il proprio ordinamento giuridico, nessuna pretesa giuridica può spettare all'individuo; la persona naturale non esiste nemmeno prima e fuori dell'ordinamento giuridico. Ogni diritto soggettivo postula un precedente ordinamento oggettivo, e questo è proprio dello Stato. Il diritto è volontà diretta a un fine. Volontà e fine dell'ordinamento giuridico sono dello Stato e non dell'individuo.
Ma una volta costituito l'ordinamento giuridico, poiché il diritto è essenzialmente relazione, il rapporto di dominio dello Stato diviene giuridico solo quando riveste quelle forme peculiari da cui nascono diritti e doveri reciproci tra individui e tra individuo e sovrano.
Dall'ordinamento nasce la personalità giuridica, solo e in quanto l'individuo è sottoposto allo Stato e per concessione dello Stato.
Una personalità giuridica significa personalità limitata e quando lo Stato entra in relazione con le persone singole limita se stesso. Risorgono così i diritti soggettivi, benché non più come originari e assoluti. Lo Stato si contrappo ne all'individuo proprio perché entra in relazione con esso e dunque al fatalismo viene a contrapporsi il dovere morale degli uomini di combattere per il diritto.
DECLINO DI UN SOGNO. È certo imprudente usare un termine come «declino» per la sociologia, non fosse altro perché è ancor oggi vivamente presente nel pensiero e nelle istituzioni. Sociologia che però ha vissuto una frammentazione, o se si vuole una specializzazione, che ha finito però per disperderla come quelle personalità che indossando molte maschere perdono la propria identità. C'è una sociologia della famiglia, della politica, dell'emarginazione, della povertà e si può continuare con la percezione di poterla abbinare a ogni contesto. Ma non è questo proprio il segno di una fine o di un declino anche se istituzionalizzato?
Talora si ha l'impressione di non poter fare a meno della sociologia, ma poi si constata che non ha dato alcunché di veramente significativo.
Del resto si osserva che la psicologia ha dovuto assumere specificazioni come quelle di gruppo, e ancora di psicologia della famiglia e persino delle masse, e si discute se il termine psicologia non sia in alcuni casi un abuso a scapito della sociologia, e viceversa se là dove si impone la sociologia non vi sia in realtà un diritto di campo della psicologia. A me pare che nel complesso la sociologia dell'Ottocento - perché è su di essa che noi abbiamo precipuamente rivolto la nostra attenzione, sempre per giungere a quel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento dove si evidenzia in maniera macroscopica quella che abbiamo chiamato la crisi sui princìpi, come si fossero dati appuntamento storico per mostrare la propria debolezza o quanto meno per negarsi - non abbia aiutato in nulla la problematica concernente la vita in comune dei soggetti, e non abbia fatto luce sui conflitti che animano le società, e soprattutto sulla violenza che ne è una forte caratteristica.
Ma, al di là della sociologia, anche in questo secolo - l'Ottoce nto - abbiamo trovato la risposta ai soliti temi del conflitto tra individuo e società, della difficoltà di stabilire il limite di uno Stato e quindi di differenziare la dimensione della morale individuale rispetto a quella dello Stato, con le versioni di un individuo morale e di uno Stato gendarme o dall'altra parte di un Stato etico e di un individuo che semmai si connota eticamente attraverso la partecipazione allo Stato.
Sembra sempre di essere tornati da capo o di scendere e di salire tra soluzioni e baratri contradditori, tra ipotesi che non soddisfano.
Talora si ha l'impressione di non poter fare a meno della sociologia, ma poi si constata che non ha dato alcunché di veramente significativo.
Del resto si osserva che la psicologia ha dovuto assumere specificazioni come quelle di gruppo, e ancora di psicologia della famiglia e persino delle masse, e si discute se il termine psicologia non sia in alcuni casi un abuso a scapito della sociologia, e viceversa se là dove si impone la sociologia non vi sia in realtà un diritto di campo della psicologia. A me pare che nel complesso la sociologia dell'Ottocento - perché è su di essa che noi abbiamo precipuamente rivolto la nostra attenzione, sempre per giungere a quel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento dove si evidenzia in maniera macroscopica quella che abbiamo chiamato la crisi sui princìpi, come si fossero dati appuntamento storico per mostrare la propria debolezza o quanto meno per negarsi - non abbia aiutato in nulla la problematica concernente la vita in comune dei soggetti, e non abbia fatto luce sui conflitti che animano le società, e soprattutto sulla violenza che ne è una forte caratteristica.
Ma, al di là della sociologia, anche in questo secolo - l'Ottoce nto - abbiamo trovato la risposta ai soliti temi del conflitto tra individuo e società, della difficoltà di stabilire il limite di uno Stato e quindi di differenziare la dimensione della morale individuale rispetto a quella dello Stato, con le versioni di un individuo morale e di uno Stato gendarme o dall'altra parte di un Stato etico e di un individuo che semmai si connota eticamente attraverso la partecipazione allo Stato.
Sembra sempre di essere tornati da capo o di scendere e di salire tra soluzioni e baratri contradditori, tra ipotesi che non soddisfano.
VERSO IL COMUNISMO CRITICO. Certo l'Ottocento ha dato un nuovo volto al comunismo, o meglio ha dato una nuova connotazione a questa forma di governo che ha antecedenti, già richiamati. Non è possibile leggere la storia prescindendo dagli avvenimenti drammatici che la caratterizzano e chi analizza oggi il comunismo ottocentesco non può limitarsi a uno spazio ristretto, ma deve tenere conto che è diventato storia e dunque è passato dal pensiero alla applicazione (prassi). Occorre perciò anche chiedersi se esso non sia figlio di quel clima sociologico, non fosse altro poiché alla sua base ha posto una analisi dei fatti sociali ed è anzi partito dalla condizione delle fabbriche e dalla analisi dei salari. Se così fosse, il giudizio sull'apporto della sociologia si farebbe certo ben più rilevante.
È di questo che parleremo la settimana prossima per chiudere questo secolo: del comunismo, definito «comunismo critico», ma anche marxismo.
È di questo che parleremo la settimana prossima per chiudere questo secolo: del comunismo, definito «comunismo critico», ma anche marxismo.
Idee e figure
Max Weber
(1864-1920). Intellettuale dai molteplici interessi, insegna economia nelle università di Friburgo e Heidelberg. Nel 1918 è tra i delegati dalla Germania a Versailles per la firma del trattato di pace. Muore ucciso dalla grande epidemia di Spagnola nel 1920. I suoi studi si basano sullo sviluppo del capitalismo moderno: subisce l'influenza di Marx, ma ne critica molti aspetti, come la concezione materialistica della storia e dà minore importanza al conflitto di classe. Importanti anche le sue ricerche sull'etica protestante in rapporto al capitalismo, e gli studi sull'impero cinese e sul Vicino Oriente, che diedero un rilevante contributo alla sociologia della religione.
IL LIBRO
L'etica protestante e lo spirito del capitalismo
Scritta nei primi anni del ’900, L’etica protestante è una delle principali opere di Weber, all’epoca reduce da una grave forma di depressione che lo aveva allontanato dall’insegnamento universitario. Weber partì dall’assunto che nelle zone capitaliste progredite e più ricche, i più qualificati e preparati erano in genere personaggi di fede protestanti. Parlò a questo proposito di «ascetismo intramondano», che prevedeva la rinuncia al lusso e la dedizione totale al successo terreno, che sarebbe proprio dei protestanti. A titolo di esempio, Weber riporta un passo di John Wesley, il fondatore del Metodismo, dove si dice che la religione deve necessariamente produrre laboriosità e parsimonia; il capitalismo, al contrario, nasce quando l’unico scopo diventa l’incremento del profitto e non la salvezza dell’anima, dissociandosi, cioé, dal discorso più prettamente religioso. Questo conduce a sua volta a quello che Weber definisce il «disincanto del mondo», ovvero l’eliminazione dei valori simbolici e mistici dalle cose terrene, che finiscono con il divenire solo mezzi per il raggiungimento di fini, primo fra tutti la ricchezza. Alla fine del suo lavoro, Weber riconosce che la volontà di profitto - definita dal teologo protestante Richard Baxter «un sottile mantelo che si possa gettar via in ogni momento» - si è tramutata in una «gabbia d’acciaio» da cui è fuggito lo spirito dell’ascesi. Weber, negli anni successivi, tornerà più volte sull’argomento, come ne Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo, un saggio più breve dal titolo simile, composto dopo il viaggio in America per l’esposizione universale di Saint Louis, dove si pone in luce l’importanza della religiosità «settaria» per la formazione della cultura e della stessa vita economica degli Stati Uniti.
Max Weber, Rizzoli Bur 2000, pp. 403, € 9,00
(1864-1920). Intellettuale dai molteplici interessi, insegna economia nelle università di Friburgo e Heidelberg. Nel 1918 è tra i delegati dalla Germania a Versailles per la firma del trattato di pace. Muore ucciso dalla grande epidemia di Spagnola nel 1920. I suoi studi si basano sullo sviluppo del capitalismo moderno: subisce l'influenza di Marx, ma ne critica molti aspetti, come la concezione materialistica della storia e dà minore importanza al conflitto di classe. Importanti anche le sue ricerche sull'etica protestante in rapporto al capitalismo, e gli studi sull'impero cinese e sul Vicino Oriente, che diedero un rilevante contributo alla sociologia della religione.
IL LIBRO
L'etica protestante e lo spirito del capitalismo
Scritta nei primi anni del ’900, L’etica protestante è una delle principali opere di Weber, all’epoca reduce da una grave forma di depressione che lo aveva allontanato dall’insegnamento universitario. Weber partì dall’assunto che nelle zone capitaliste progredite e più ricche, i più qualificati e preparati erano in genere personaggi di fede protestanti. Parlò a questo proposito di «ascetismo intramondano», che prevedeva la rinuncia al lusso e la dedizione totale al successo terreno, che sarebbe proprio dei protestanti. A titolo di esempio, Weber riporta un passo di John Wesley, il fondatore del Metodismo, dove si dice che la religione deve necessariamente produrre laboriosità e parsimonia; il capitalismo, al contrario, nasce quando l’unico scopo diventa l’incremento del profitto e non la salvezza dell’anima, dissociandosi, cioé, dal discorso più prettamente religioso. Questo conduce a sua volta a quello che Weber definisce il «disincanto del mondo», ovvero l’eliminazione dei valori simbolici e mistici dalle cose terrene, che finiscono con il divenire solo mezzi per il raggiungimento di fini, primo fra tutti la ricchezza. Alla fine del suo lavoro, Weber riconosce che la volontà di profitto - definita dal teologo protestante Richard Baxter «un sottile mantelo che si possa gettar via in ogni momento» - si è tramutata in una «gabbia d’acciaio» da cui è fuggito lo spirito dell’ascesi. Weber, negli anni successivi, tornerà più volte sull’argomento, come ne Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo, un saggio più breve dal titolo simile, composto dopo il viaggio in America per l’esposizione universale di Saint Louis, dove si pone in luce l’importanza della religiosità «settaria» per la formazione della cultura e della stessa vita economica degli Stati Uniti.
Max Weber, Rizzoli Bur 2000, pp. 403, € 9,00
Avvenire del 6 agosto 2006
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