23 dicembre 2006

L'identità di genere

Se il processo di individuazione non si realizza, il bambino non riuscirà ad avere consapevolezza del proprio «esserci» e sarà quindi portato a chiudersi in se stesso, condizione che porta all’autismo. Se non arriverà a tale punto, potrà essere comunque indotto a vivere con una tale timidezza, cioè non sapendo chi egli sia realmente, che questa lo spingerà a fuggire gli altri in modo patologico. Da qui l’incapacità di entrare in sintonia con l’ambiente circostante, per il quale rimarrà un disadattato

di Vittorino Andreoli
Se la sessualità viene staccata completamente dalla procreazione è evidente che lo scopo dell’incontro non è certo il generare, ma il piacere. E indubbiamente il piacere, pur legandosi all’unione tra uomo e donna, non è un’esclusiva di questa pratica. Così si rischia di perdere persino la necessità della distinzione di genere
1 Generare un figlio è un evento certamente straordinario nel vissuto dei genitori, ma lo è allo stesso tempo per l’insieme sociale
2 Sono impaurito da una società che pretende che l’infedeltà sia la regola e la fedeltà un segno d’impotenza e di anormalità
3 Per essere cittadino di un mondo grande occorre radicarsi meglio nel proprio piccolo mondo, in quell’Io fatto anche di storia personale
4 La morte di questi principi elementari ha fatto di noi dei semplici pupazzi che ormai non sanno più quale sia il proprio vero volto
DIRITTO ALL’IDENTITÀ. Lasciati i princìpi primi, legati al mistero e al sacro e appartenenti all’àmbito delle esigenze morali (le quali a loro volta affondano le proprie radici nel significato dell’uomo e del suo "esserci"), intraprendiamo ora il viaggio tra quei princìpi che invece servono a vivere nel mondo.
Mi sembra opportuno distinguerli anzitutto in due gruppi: princìpi del singolo e princìpi della relazione. Quelli che affrontiamo ora si legano alle condizioni da promuovere affinché ciascuno raggiunga una propria dimensione, abbia la percezione di un’identità precisa, ben distinta da quella degli altri. Questa è la base del gruppo di princìpi che serviranno poi a esprimere la socialità e, dunque, i bisogni della società nel suo insieme: in una parola, l’esigenza di relazione. In questo senso va letto l’antico aforisma dell’uomo «socialis naturaliter»: è impossibile pensare l’uomo al di fuori delle relazioni, sin dal momento in cui egli prende vita e stabilisce un legame con la madre tale da diventarne una parte simbiotica.
L’uomo deve raggiungere due identità: quella personale, cioè la percezione di essere un individuo "diverso" dagli altri, e quella di genere, l’essere cioè maschio o femmina, la sua identità sessuale, legata non solo agli organi anatomici ma anche a molte caratteristiche della personalità.
L’identità dipende dalla struttura educativa e dunque dalla modalità attraverso la quale si aiuta un bambino a crescere. Ogni bimbo nasce con un bagaglio genetico e anche di esperienze particolari legate alla sua permanenza nell’utero materno, oggi considerato non più luogo in cui il feto resta passivamente per portare a compimento il proprio sviluppo ma ambito dove vive una vera e propria relazione con la madre. Di questa, almeno a partire dal quinto mese di gravidanza, avverte i toni cardiaci e poi per suo tramite sperimenta il primo contatto con il mondo esterno sentendo grida e suoni di tonalità particolarmente elevata.
Ma è certamente con la nascita, e quindi con la separazione di fatto dei due corpi, che il bambino avvia la sua avventura nel mondo e comincia la propria crescita. Un tempo si riteneva che, almeno nella prima fase, il bambino dipendesse in toto dai modi e dalla cultura educativa della madre. Oggi invece sappiamo che sono importanti anche altre figure, come il padre e quanti fanno stabilmente parte del gruppo di riferimento del piccolo.

INDIVIDUAZIONE SEPARAZIONE. Una prima identità viene raggiunta tra zero e tre anni attraverso un processo in cui si realizza l’individuazione-separazione: il bambino si stacca dalla madre e dal gruppo stabile di riferimento e si sente un individuo ben distinto da loro. È proprio attraverso un simile processo che si attua l’individuazione. Questa fase della crescita o dell’educazione è importantissima poiché permette di acquisire la dimensione di un "Io" distinto rispetto all’"altro", cioè la madre e le persone con cui il bambino vive (incluse le eventuali maestre del nido d’infanzia, che devono essere consapevoli di far parte del gruppo stabile, cioè della famiglia del bimbo che accolgono).
Stiamo parlando di un diritto che si lega ai bisogni del bambino soddisfatti nel piccolo gruppo familiare, all’interno cioè di una società limitata alle figure permanenti: quelle che abitualmente lo circondano e si occupano di lui.
L’educazione è la condizione necessaria a raggiungere questo primo passo nell’identità. Occorre che la società permetta la realizzazione di un simile diritto, attivandosi perché ciò avvenga in maniera semplice.
Certamente è necessario che la madre possa stare con il proprio figlio, e quindi che le sia data la facoltà di interrompere temporaneamente il lavoro – con la garanzia dei diritti acquisiti – poiché si dedica a una funzione sociale estremamente importante.
Per intenderci, la possibilità per una neo-madre di sospendere la propria attività professionale è molto più importante di quella che viene assicurata – sempre con t utte le garanzie – a chi viene eletto a una carica politica.
Si tratta di un’interruzione del lavoro che non deve essere punita ma piuttosto premiata: generare un figlio è infatti un evento certamente straordinario nel vissuto dei genitori, ma anche per l’insieme sociale. E per rendersi conto di questa realtà semplice ma trascurata basta prendere consapevolezza di cosa significhi una società che non genera figli. La madre di un bambino, dunque, svolge al tempo stesso un compito prezioso per il figlio e per l’intera comunità.
Poiché le esigenze di dedizione non sono solo legate al tempo ma anche alla qualità dell’incontro, e quindi ai bisogni della madre e del padre, è necessario aiutare la famiglia perché queste condizioni diventino effettive, reali. Non lo possono essere invece se la famiglia vive in condizioni economiche di estrema indigenza, oppure se manca al suo interno un’intesa, un afflato che si trasmette sulla dinamica della crescita e quindi sul raggiungimento dell’identità personale.
È stato dimostrato che se non si realizza il processo di individuazione il bambino non riuscirà ad avere consapevolezza del proprio "esserci". Sarà quindi portato a chiudersi in se stesso e a non comunicare con il mondo (condizione che porta all’autismo), oppure, non sapendo chi egli sia, vivrà con una timidezza tale da fuggire gli altri o comunque da trovare difficoltà a proporsi, incapace di entrare in sintonia con l’ambiente, per il quale rimarrà sempre un disadattato.
È proprio in questa prima fase della vita che sbocciano molte delle malattie che si manifesteranno più tardi con maggiore evidenza ed enormi difficoltà.
Incontriamo qui l’insicurezza, il non accettarsi, la confusione di sé per non sapere mai quali sono i propri confini e le caratteristiche che identificano una persona. È la condizione di chi non riesce nemmeno a pronunciare quell’"io" che esprime la certezza di essere diversi dal tu e dagli altri.
Certo, si può anche sviluppare un’identità opposta, e quindi giungere al narcisismo: in questo caso l’Io è pronunciato ma senza la capacità di percepire gli altri, come se tutto il mondo venisse limitato a quel medesimo Io, e quindi non lo si sapesse riconoscere.
Così avviene per la figura mitologica di Narciso. Egli si innamora di una ninfa, Eco: una pura voce che esce da un antro ma che altro non è se non la propria stessa voce che si ripete, e che Narciso non riconosce come propria credendo appartenga a un altro, mentre questo altro è lui stesso. E così quando si specchia nel lago, dove vede una figura bellissima e subito se ne innamora – perché non riesce a riconoscersi in essa –, pensa si tratti di un altro. Un grave disturbo dell’identità.
Non bisogna tuttavia pensare che il processo per il conseguimento dell’identità si realizzi compiutamente con il terzo anno di età: esso infatti continua e si lega ancora alla storia personale, sia pure dentro una società allargata e non più nella microsocietà della famiglia, cioè del gruppo stabile.
Questo genere di identità, in altre parole, non è lo stesso di una statua che, una volta ultimata, diventa "quella" statua rimanendo così per sempre. L’identità nella persona umana è dinamica, in continuo sviluppo nel tempo. Potremmo dire che si tratta di un variare attorno a un nucleo che rimane sempre il proprio essere, il sé di ciascuno. L’identità diventa in qualche modo anche la propria storia, l’esperienza che ognuno fa nel tempo.
Chi è vecchio – come ormai sono io – resta affascinato dalla vecchia fotografia in bianco e nero che lo ritrae bambino. Poi, guardandosi allo specchio, nota le grandi differenze tra le due immagini fisiche. Eppure c’è un legame solido, straordinario, tra quel bambino e quel vecchio: lo stesso io, lo stesso filo conduttore, la stessa identità pur tra le traversìe e le vicissitudini nello scorrere degli anni.

STORIA PERSONALE. È questa l’identità letta attraverso una storia personale fatta di passato – cioè della memoria che lo cu stodisce – e insieme di futuro, poiché la grande capacità dell’uomo è poter programmare e pensare il domani, immaginarsi diverso da com’è ora. Il desiderio di ogni uomo è vedersi migliore, più vicino a come vorrebbe essere piuttosto che a come di fatto è.
Vi sono dunque due identità: una che potremmo definire "di base", o strutturale, e un’altra che si evolve nel tempo, dinamica, propria del vissuto di ognuno.
È una percezione che trovo eccezionale: essere stati, ed essere ancora ma diversamente da come si è stati nel passato. C’è poi anche la grande funzione della mente umana, che dà la consapevolezza di essere gli stessi, di mantenere la medesima identità pur tra i cambiamenti che segna il tempo e il comportamento. La memoria ha una funzione straordinaria poiché ognuno, chiudendo gli occhi, può rivivere il passato, che lascia tracce e che diventa così una storia in divenire, un continuum.
Il diritto all’identità si lega sia al diritto a un’educazione che renda possibile la costruzione di un "Io" sia alla possibilità che, rimanendo continuo, quell’Io si faccia storia e quindi muti senza perdere la propria identità, semplicemente rendendola dinamica: un Io che si fa storia, dimensione chiamata dagli psicologi "Sé". Tutti hanno un simile diritto: essere "uno" ed essere "uno che però si modifica nell’esperienza".
È importante avere una storia: la piccola storia della propria vita consumata finora, mescolata a quella del proprio gruppo familiare, alle vicende che si sono vissute. Queste ultime, anche se non raggiungono la dimensione della Storia con la "esse" maiuscola, sono parte della storia che ci identifica, ci forgia e diventa il nostro "esserci stati".
È straordinaria anche la nostra immaginazione, cioè la capacità di pensarci e scoprirci diversi, e quindi di fare programmi per attaccare nel futuro un pezzo di esperienza, che domani si farà storia con caratteristiche e capitoli nuovi e addirittura voluti.
Qui arriviamo al sogno, alle fantasie utopiche , all’impossibile, che però riempie e arricchisce ciò che fino a quel momento è stato realizzato. Ogni uomo ha diritto a un’identità strutturale e storica, e ha anche diritto di sognare. Ciò non vale solo per i giovani, nel tempo della crescita, ma per sempre. Bisogna poter sognare fino al momento in cui si vede la morte, e forse persino in quel momento immaginare di essere diversi, magari in una forma che ci arricchisca.
Se uno non ha la memoria del proprio passato e non riesce a immaginare un futuro migliore è carente di identità, e si impoverisce. Guai a quelle società che non promuovono il diritto e il prestigio delle storie personali. Guai per loro, quando non permettono di sognare e impediscono che i sogni possano realizzarsi. Guai, ancora, quando recludono i giovani dentro celle asfittiche che non prevedono futuro ma solo alienazione e precarietà di vita e di ruolo.
Ma questa oggi è, purtroppo, la nostra società.

GENERE. C’è poi l’identità di genere: femminile e maschile. Si tratta di un diritto sacrosanto, che attualmente corre grande pericolo e merita di essere sottolineato con forza. Il modello che oggi si propone è quello dell’anfotero o dell’efebo, cioè di un’identità che sia al tempo stesso maschile e femminile, o meglio, né molto maschile né troppo femminile, ognuna con una percentuale della caratterizzazione dell’altra: come se l’insieme o l’indeterminato fosse la condizione migliore, o il modello "di successo".
Per risalire all’origine di questa confusione d’identità di genere bisogna ricordare alcuni eventi essenziali che si sono verificati dal secondo dopoguerra in qua: la fine del maschilismo, la caduta del ruolo dell’uomo e dunque del suo predominio sulla donna per il semplice fatto di essere uomo.
E di esserlo perché possiede un organo che la donna non ha, e che desidera avere: Sigmund Freud aveva riconosciuto sin dall’infanzia femminile una condizione comune che aveva definito clinicamente "invidia del pene", sintomo di uno s tato di secondarietà, di dipendenza, a suo avviso imputabile al fatto che la donna soffrisse proprio per la mancanza di un organo che poteva avere solo a condizione di essere posseduta dall’uomo.
Oggi la donna non nutre più questa invidia che, anche per l’impegno dei movimenti femministi (tuttavia non sempre rispettosi della donna e dei significati della femminilità), è scomparsa con la scoperta di un’indipendenza sessuale o di una possibile sostituzione dell’uomo con una donna. L’uomo, d’altra parte, non ha più nemmeno il coraggio di mostrare il proprio specifico potere: molti, anzi, arrivano a "invidiare" la gravidanza, prerogativa della sessualità femminile, e vogliono partecipare ai suoi frutti allenandosi a partorire fittiziamente per partecipare all’evento della nascita come se ne fossero i protagonisti.
Nel conto bisogna anche mettere la scoperta di Gregory G. Pincus (1903-1967): la possibilità di esercitare un pieno controllo sulle relazioni con l’uomo, di non renderle fonte di maternità non voluta. Si tratta indubbiamente di un mezzo per controllare le nascite, ma insieme anche per controllare il potere dell’uomo che – metaforicamente parlando – non "spara" più come e quando vuole, senza rispetto o senza permesso. Semmai – restando sempre in questa mia immagine – "spara a salve", spesso anzi nemmeno riuscendovi. E allora vive il dramma di un ruolo perduto.
È necessario infine considerare che con la perdita di funzione della "sessualità di organo", legata alla procreazione, ha avuto inizio o comunque si è privilegiata una forma di sperimentazione passata dall’organo a tutto il corpo fino a scoprirne la sessualità (la cosiddetta "body expression"). Si è così giunti a considerare che sia in lui sia in lei vi sono parti in comune che hanno valenza erotica (quelle che si definiscono "zone erogene"). Ne consegue il fatto che tutto il corpo è sesso, e la donna non ha più l’esclusiva della diversità. Si è giunti così a quella che viene chiamata la morte o l’ind ebolimento del sesso forte per effetto di una "sessualità del corpo", in gran parte comune a entrambi. Di qui la possibilità di sperimentarla tra uomo e uomo, o tra donna e donna, senza la complicazione del rapporto uomo-donna che manca spesso di sincronia e di comprensione, con modalità che non garantiscono sempre una reciproca soddisfazione.
Da queste note sintetiche risulta chiaro come l’attrazione tra uomo e donna sia decisamente cambiata, a tutto vantaggio di modalità relazionali assolutamente nuove che tendono ad allentare l’identità di genere, se non a negarla.
Del resto, quando la sessualità viene staccata completamente dalla procreazione è evidente che lo scopo dell’incontro non è certo generare ma provare piacere. Indubbiamente tale piacere, pur legandosi al rapporto coniugale tra uomo e donna, non è un’esclusiva di questa pratica. Quando ciò viene accettato si rischia però di perdere persino la necessità della distinzione di genere. A chiudere questo cerchio, quantomeno strano, basterebbe dire che una delle modalità oggi più frequenti di soddisfazione erotica è quella che può derivare da un video, tramutato in una sorta di partner, oppure addirittura da una terza presenza.
Non si può che rimanere confusi di fronte a un simile costume, che sembra diffondersi sempre più.
In questo caso, infatti, non si tratta soltanto di un nuovo capitolo del costume sessuale ma di uno stravolgimento delle relazioni sociali, con intrecci amorosi che indeboliscono o escludono la relazione di coppia e la cornice d’un amore che invece tenderebbe a perpetuarsi nella generazione dei figli.
È indubbio che il legame della sessualità è una componente rilevante per la stabilità della famiglia. Oggi tuttavia la varietà di relazioni sessuali (alla base dell’infedeltà) viene considerata "legittima" persino per rendere più sereno il rapporto di coppia. Non credo affatto però che tutto questo debba essere accolto "naturalmente" nel novero dei cambiamenti sociali, e che i dubb i espressi al riguardo siano solo segno di una rigidità da vecchi o da moralisti.

PERDITA DELL’IDENTITÀ SESSUALE. Certo, io sono vecchio, ma non mi preoccupa molto sapere se i miei pensieri siano da vecchio – quindi da nascondere – o da giovane, e dunque da affermare. Semplicemente, dall’alto della mia età, rimango esterrefatto per il modo in cui l’identità di genere (che ha radici biologiche prima che culturali) venga massacrata, e la perdita o la confusione della stessa non solo sia accettata ma persino griffata di modernità.
Rimango dunque perplesso di fronte agli elogi per la perdita di tale identità, con esempi di eroi ambisessuali che per questo praticano indifferentemente omo ed eterosessualità, secondo le occasioni e gli stimoli. Sono scandalizzato dalla coesistenza di pedofilia e di eterosessualità, che vede genitori approfittare di un bambino e della sua impossibilità di scegliere (e fors’anche di capire) per soddisfare desideri che di sicuro non fanno parte della condizione di marito e di madre.
E ancora: sono impaurito da una società dove si pretende che l’infedeltà sia la regola e la fedeltà viene invece scambiata per segno d’impotenza, e che dunque vede la persona fedele come un poveraccio privo di carica erotica. Penso che l’infedeltà non si limiti a una semplice trasgressione.
Essa infatti si estende a un clima che pesa sui figli e sulla dignità di ciascun membro del gruppo familiare, che comincia a vivere nell’ambiguità e nella menzogna. Condizioni, queste, non certo ideali per un’atmosfera costruttiva ed educativa.
Non affermo tutto ciò sulla base di astratti imperativi morali ma sul piano dei princìpi, che in questo caso – così almeno mi pare – rispondono ai bisogni e alle esigenze della vita in questo mondo, e che dunque sono di pertinenza della polis e dell’amministrazione politica.

PATOLOGIA DA MANCATA IDENTITÀ. Come psichiatra, e dunque dal punto di vista di chi si occupa di disturbi della mente e del comportamento, non posso dimenticare quanto sia vasta la patologia da identità non raggiunta. A cominciare da un ampio capitolo che include le dissociazioni dell’Io – diviso o addirittura frammentato – che rientrano nella schizofrenia. Anche molte altre turbe della personalità (le cosiddette nevrosi) sono spesso disturbi dell’identità, che oscillano tra il bisogno di essere il centro esclusivo dell’attenzione del mondo e la necessità di negarsi come individuo, ritenendosi un essere colpevole e incapace, e dunque con molte delle caratteristiche che appartengono a un vissuto depressivo.
Con un’esemplificazione certamente eccessiva si potrebbe persino arrivare a dire che la psichiatria è il campo dei disturbi dell’Io e della sua percezione. È fuor di dubbio infatti che per interpretare il mondo al di fuori di me s’impone un’identità precisa, che mi permetta di stabilire una relazione e un giudizio sicuro.
cosa impossibile se l’Io è oscillante o diviso, oppure se si rinchiude per non farsi vedere dal mondo. È quanto accade con l’autismo, o in quei bambini che si rifugiano in una sorta di torre senza finestre e che non vedono il mondo, nemmeno quello degli affetti e di chi vuol loro bene. Una condizione drammatica e penosa.
La salute della mente parte proprio dalla crescita e dunque dal raggiungimento dell’identità basilare di un Io preciso, fino alla percezione di essere parte di un genere, alla consapevolezza delle caratteristiche che lo connotano, tanto da accettarlo e da amarlo (in altre parole, da ritrovarvisi), e al raggiungimento di un’identità sociale più vasta, che si conquista nell’adolescenza. È questo infatti il momento in cui ci si stacca dal gruppo familiare originario per sperimentare una nuova comunità: quella dei pari età, che apre poi a una socialità più vasta, oggi estesa al mondo intero.
Sempre – anche quando esamineremo tale dimensione – torneremo però a richiamare quelle identità dell’Io e del genere nelle quali si è stati prima posti e poi educati. Senza di esse l’esistenza diventa molto difficile, talvolta fatta solo di comportamenti compensatori che nulla hanno a che vedere con la serenità e la qualità della vita e con il suo "ben d’essere". Vite di eroi di carta, non di uomini di carne.

MONDO PRESENTE. I confini del mondo stanno scomparendo, si diventa cittadini di una comunità immensa per numero e per vastità del territorio (la globalizzazione), e di conseguenza si sostiene che i piccoli riferimenti sono un segno di arretratezza. È interessante notare che in un momento come questo si scopre invece che per essere cittadini di un mondo tanto grande occorre radicarsi meglio nel proprio piccolo mondo, in quell’Io fatto anche di storia personale e di luoghi di riferimento all’ombra del campanile. Si può andare dappertutto solo se non si dimentica la propria origine, se non si smarrisce un’identità costituita dall’Io e dal proprio genere, maschile o femminile. Si potranno poi anche indossare le diverse maschere, ma sapendo bene qual è il proprio volto, la propria faccia di carne. Invece l’agonia, se non la morte, di questo principio elementare ma basilare per vivere sulla terra ha reso ridicolo persino l’«uno nessuno centomila» di Luigi Pirandello (1867-1936).
E rischia di ridurci a semplici pupazzi ormai ignari di quale sia il proprio volto, maschere che s’indossano in funzione delle diverse occasioni e circostanze poiché manca un’identità, senza la quale nemmeno può esserci coerenza. Un teatro dell’assurdo, un carnevale continuo che si fa realtà.
E allora si è tutto e il contrario di tutto e si diventa ciò che il momento sembra suggerire, sempre pronti a cambiare abito e maschera, a essere altro, sempre altro, poiché manca il riferimento a chi veramente si è. Cioè a una precisa identità.




IL LIBRO
Sessualità in famiglia
Questo volume racconta il modo in cui si intrecciano le differenze sessuali e generazionali in una famiglia. Al centro dell'interesse sta la narratività come qualità delle relazioni familiari, la capacità da parte delle famiglie di produrre storie e di alimentare nei propri membri la memoria del «romanzo» familiare. Sullo sfondo le domande: «La famiglia continua ad essere un generatore di storie? E di storie intorno al genere? Ma, soprattutto, quale spazio, in questa narrazione familiare, per la rappresentazione delle identità sessuali? Quali modelli di maschile e femminile?». I risultati dell'indagine tracciano un innovativo profilo delle trame narrative delle famiglie italiane, caratterizzate da un'estrema eterogeneità di modelli di trasmissione e di narrazione. Ogni famiglia «inventa» un modo di raccontare le proprie storie, con narratori, miti e riti che segnano la vita quotidiana e costituiscono un importante momento di costruzione dell'identità individuale e dell'appartenenza familiare. Rispetto all'identità di genere, emerge nel complesso una «scarsa coscienza esplicita» della differenza sessuale, soprattutto nelle nuove generazioni, che viene preferibilmente omologata in un'idea di «individuo» unico, indifferente al sesso. La consapevolezza dei cambiamenti dell'identità del maschile e del femminile emerge a fatica anche nelle vicende e nei racconti familiari (e ancora più difficilmente nella società); lo sguardo delle nuove generazioni appare prevalentemente appiattito sul presente, ed è difficile rendersi conto di quanto l'attuale condizione maschile e femminile sia significativamente diversa rispetto a quella delle generazioni precedenti. Emergono infine rilevanti differenze anche nei percorsi formativi («Come si impara a diventare uomo e donna, in famiglia?»), con passaggi di iniziazione, compiti e attività molto più chiari, ma spesso stereotipati e tradizionali, per le giovani donne, mentre appare meno netta, più incerta e problematica l'iniziazione al maschile per i ragazzi. Uomini e donne, quindi, che scrivono in ogni famiglia un nuovo ed irripetibile romanzo, fatto di racconti, di progetti, di legami: in questo volume le loro voci.

Laura Formenti, La trasmissione dell’identità di genere tra le generazioni, San Paolo 2002, € 18
«Avvenire» del 22 ottobre 2006

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