23 marzo 2020

Scuole chiuse

di Alessandro D'Avenia
«Margie lo scrisse perfino nel suo diario. Sulla pagina che portava la data 17 maggio 2157: Oggi Tommy ha trovato un vero libro!». Comincia così «Chissà come si divertivano», un racconto del 1955 del maestro della fantascienza, Isaac Asimov, in cui Margie e Tommy, 11 e 13 anni, trovano in soffitta un libro. Quell’oggetto, in cui le parole «non si muovono», è un reperto archeologico, sostituito da più di un secolo dai «telelibri», testi che scorrono sullo schermo tv come i titoli di coda di un film. Ma la sorpresa è ancora più grande quando i due scoprono che il libro parla di qualcosa a loro ignoto: la scuola. Nel 2157 ci sono infatti solo i «Maestri Meccanici», robot individuali che, in camera, spiegano e verificano: «La cosa che Margie odiava soprattutto era la fessura dove doveva infilare i compiti. Le toccava scriverli in un codice perforato che le avevano fatto imparare a sei anni, e il maestro meccanico calcolava i voti a velocità spaventosa». E nel marzo 2020 la scuola esiste ancora? Sì, ma a una condizione: se tutte «le» scuole sono chiuse, «la» scuola è rimasta aperta solo dove «scuola» è il nome che diamo alla relazione che sopravvive alla chiusura dell’edificio. Altrimenti aperta, una scuola, non lo è mai. «Questo è un tipo di scuola molto antico. Avevano un maestro, ma non un maestro regolare. Era un uomo» dice Tommy, e Maggie stupita risponde: «Un uomo? Come faceva un uomo a fare il maestro?». La scuola del passato era una comunità di ricerca guidata da maestri in carne e ossa: «Ci andavano i ragazzi del vicinato, ridevano e vociavano nel cortile, sedevano insieme in classe, tornavano a casa insieme. Imparavano le stesse cose, così potevano aiutarsi per i compiti e parlare di ciò che avevano da studiare. E i maestri erano persone».
I maestri meccanici non ci sostituiranno mai perché la materia è la «materia» con cui si in- e co-struisce l’edificio relazionale: a scuola non ci si va, ma ci si è, a patto che essa sia fondata su relazioni generative. Se ciascuno dà all’altro ciò di cui l’altro ha bisogno, la relazione rigenera le persone coinvolte e genera i cosiddetti beni relazionali, frutti specifici di una relazione (in quella educativa: cultura, autonomia, vocazione). Questi frutti non si danno se la relazione è ridotta a prestazione (tu ripeti/fai ciò che ti dico), e diventa addirittura de-generativa (toglie vita). I ragazzi hanno bisogno di noi per scoprire sé e il mondo, e per inserirsi gradualmente nella storia umana: la loro anima non può farsi da sola. Allo stesso modo noi docenti abbiamo bisogno di loro per scoprire noi stessi e il mondo, perché anche la nostra anima (come quella di tutti gli esseri umani) è in continua crescita. Non siamo robot che erogano materie e voti, noi con- e in-segniamo, nello stesso spazio-tempo (online o in classe), pezzi di mondo a cui ci siamo dedicati. Ed è proprio nell’atto di porgerli che scopriamo cose nuove del mondo e di noi: se dopo una lezione non ho imparato niente, sono certo di non aver insegnato niente. In una scuola relazionale e non prestazionale infatti non si riesce mai a fare la stessa lezione (altrimenti che mi sostituisca il maestro meccanico): insegno da 20 anni e non posso raccontare mai lo stesso Dante, perché cambio io, così come le anime da raggiungere. Ed è grazie a questa «materia viva» che non solo non mi annoio, ma mi viene donato ogni anno un nuovo Dante, interpellato in modo diverso in ogni classe. La testa di un ragazzo è come quella di un fiammifero: si accende e accende, solo se la sfreghi con ciò che ha capacità di innesco (verità e bellezza), per questo le grandi opere (letterarie, tecniche, scientifiche...) fanno «il programma». Noi riceviamo vita solo da chi la vita la sa mettere «a fuoco», chi è «passato» nel mondo e ce ne ha lasciato una mappa: poi sta a noi camminare e aprire nuove strade.
È proprio Dante - il 25 marzo 2020 ricorre la prima celebrazione nazionale - che distilla la relazione con un maestro quando, incontrando nell’aldilà il suo, Brunetto Latini, gli dice che non dimentica «la cara e buona imagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uom s’etterna», e Brunetto si rammarica di non aver potuto seguire sino in porto la promettente navigazione del suo allievo. La scuola è un faticoso «ora ad ora» che serve a dare senso e vita a tutte le altre ore. Uno studente non deve rifare da solo la storia umana, ma fare i passi indietro necessari per saltare, lui, un po’ più avanti, proprio grazie alla rincorsa in un passato che passato non è, altrimenti non lo si studierebbe. Ma questo, senza una scuola viva (relazionale e generativa) è impossibile: «Margie pensava ai bambini di quei tempi, a come dovevano amare la scuola: - Chissà come si divertivano!». Le scuole adesso sono chiuse: ma prima erano aperte?
«Corriere della sera» del 23 marzo 2020

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