Il valore di lavoro e relazioni, e il re nudo
di Luigino Bruni
La crisi del nuovo coronavirus sta svelando anche la natura ambivalente dell’economia. Di fronte alla difficoltà del lavorare, ci accorgiamo che prima di amare il tempo libero noi amiamo il nostro lavoro.
Stiamo capendo che ci piace stare a casa la domenica perché poi c’è il lunedì e si torna a lavoro, perché senza i giorni feriali si abbuiano anche i giorni festivi. Anche per questo facciamo tutti una grande resistenza a rinunciare al lavoro per gli evidenti motivi di sicurezza; vorremmo e vogliamo tenere aperte le fabbriche e gli uffici non solo per non ridurre troppo il Pil, non solo per guadagnarci lo stipendio necessario, ma anche perché sentiamo che non siamo schiacciati finché riusciamo ancora a lavorare, e a lavorare insieme. Questa è una dimensione e una vocazione del lavoro, che niente come una grande e grave crisi come quella che stiamo vivendo ci sta svelando: in fondo, se guardiamo bene dentro di noi, quando una forma di morte ci minaccia, il lavoro diventa un suo potente antidoto - perché non c’è solo il conflitto tra eros e thanatos, c’è anche quello tra il lavoro dei viventi e il non lavoro della morte.
È così, anche se nei tempi ordinari non ci pensiamo mai abbastanza, in realtà noi andiamo a lavorare anche per sconfiggere la morte. Creando beni e servizi con la nostra azione collettiva generativa stiamo dicendo, ogni giorno, che la vita è più grande. E non è certo un caso che nella Bibbia molti episodi decisivi per la vita e per la morte accadono mentre le persone lavorano – da Mosè che pascolava il gregge fino agli apostoli, chiamati mentre lavoravano.
Come non è un caso che in alcune lingue il lavoro è accostato al parto, a quell’altro travaglio che tanto gli somiglia, anche nel dolore che accompagna ogni lavoro vero che non sia solo hobby o gioco.
Abbiamo poi capito che quei beni relazionali, tanto derisi dagli economisti e dai politici in tempi ordinari, sono essenziali come e più delle merci. Abbiamo improvvisamente compreso che la gente, gli anziani soprattutto, vanno a comprare il pane anche, e forse soprattutto, per 'consumare' la chiacchierata con la gente del quartiere perché al mercato si va anche e soprattutto per 'scambiare parole', che non ricevere visite di volontari e amici in carcere è questione di vita e di morte. Le grandi crisi ribaltano le vecchie 'piramidi dei bisogni'. Tutte le civiltà queste cose le hanno sempre sapute, quella capitalistica lo aveva dimenticato, speriamo lo reimpari dal dolore di questi giorni. Come un 'male comune' (virus) ci ha insegnato improvvisamente cosa sia il 'Bene comune', la solitudine forzata ci ha insegnato il valore e il prezzo delle relazioni umane, la distanza superiore al metro ci ha svelato la bellezza e la nostalgia delle distanze brevi.
Ma, lo vediamo e lo vedremo sempre di più, l’economia sta mostrando anche un’altra faccia. È quella delle Borse e delle speculazioni, la paura delle perdite di Pil che diventano più importanti delle perdite di vite, che hanno impedito finora di fermare anche quelle attività commerciali e produttive che non sono essenziali per la vita della gente – studi legali, di commercialisti, alcune fabbriche, studi di analisti finanziari, molti tipi di negozi… – attività che sappiamo quanta gente mette assieme ogni giorno soprattutto al Nord. Che ha fatto sì che il 'fermiamoci tutti' fermasse subito le scuole ma non il business.
Continuo a pensare e a ripetere ormai da diversi giorni che una 'quaresima da capitalismo', dimentica di Pil, spread, debito pubblico e patto di stabilità, sarebbe una terapia efficace per rallentare l’avanzare troppo minaccioso e veloce del virus.
Queste ragioni dell’economia sono molte diverse delle prime ragioni del lavoro- vita, e sono loro nemiche. Perché dicono che abbiamo messo in piedi un sistema sociale dove l’ultima parola, alla fine, sembra avercela il business e non il bene comune, dove la politica non ha abbastanza forza per fare cose ovvie. Tutto ciò è evidente in Italia, ma lo è di più in Europa, in Gran Bretagna e negli Usa dove si sta sottostimando e sotto-raccontando l’entità della crisi sanitaria per ridurre o magari evitare le sue conseguenze sull’economia – in particolare sulla finanza, che non sempre è alleata dell’economia.
Se siamo attenti, in questa crisi possiamo leggerci allora anche importanti messaggi sul capitalismo che abbiamo costruito in questi ultimi decenni. Abbiamo corso troppo, inseguendo i segnali di mercato abbiamo pensato di essere invincibili, non abbiamo applicato quel principio fondamentale della convivenza umana che la Dottrina sociale della Chiesa chiama principio di precauzione, che dovrebbe portare una comunità a non attendere che arrivi il 'cigno nero' per attrezzarsi e far fronte al caso eccezionale ma devastante. Una comunità saggia e non guidata dal capitale investe in tempi ordinari per premunirsi per il tempo eccezionale. Lo facciamo tutti i giorni con le assicurazioni individuali e aziendali, non lo facciamo più per la società nel suo insieme, che si ritrova totalmente scoperta su questioni decisive, nonostante gli allarmi seri che erano arrivati negli anni passati.
Che il re (capitalista) fosse nudo, ce lo aveva detto, come nella fiaba, una bambina, un anno fa. Noi non l’abbiamo ascoltata, e abbiamo continuato a vivere come se i vestiti del re ci fossero realmente, incantati dal benessere e dal delirio di onnipotenza. Questo virus è un secondo messaggio, che possiamo gestire e poi continuare a vivere come prima, o interpretare con saggezza e cambiare, cambiare molto.
Stiamo capendo che ci piace stare a casa la domenica perché poi c’è il lunedì e si torna a lavoro, perché senza i giorni feriali si abbuiano anche i giorni festivi. Anche per questo facciamo tutti una grande resistenza a rinunciare al lavoro per gli evidenti motivi di sicurezza; vorremmo e vogliamo tenere aperte le fabbriche e gli uffici non solo per non ridurre troppo il Pil, non solo per guadagnarci lo stipendio necessario, ma anche perché sentiamo che non siamo schiacciati finché riusciamo ancora a lavorare, e a lavorare insieme. Questa è una dimensione e una vocazione del lavoro, che niente come una grande e grave crisi come quella che stiamo vivendo ci sta svelando: in fondo, se guardiamo bene dentro di noi, quando una forma di morte ci minaccia, il lavoro diventa un suo potente antidoto - perché non c’è solo il conflitto tra eros e thanatos, c’è anche quello tra il lavoro dei viventi e il non lavoro della morte.
È così, anche se nei tempi ordinari non ci pensiamo mai abbastanza, in realtà noi andiamo a lavorare anche per sconfiggere la morte. Creando beni e servizi con la nostra azione collettiva generativa stiamo dicendo, ogni giorno, che la vita è più grande. E non è certo un caso che nella Bibbia molti episodi decisivi per la vita e per la morte accadono mentre le persone lavorano – da Mosè che pascolava il gregge fino agli apostoli, chiamati mentre lavoravano.
Come non è un caso che in alcune lingue il lavoro è accostato al parto, a quell’altro travaglio che tanto gli somiglia, anche nel dolore che accompagna ogni lavoro vero che non sia solo hobby o gioco.
Abbiamo poi capito che quei beni relazionali, tanto derisi dagli economisti e dai politici in tempi ordinari, sono essenziali come e più delle merci. Abbiamo improvvisamente compreso che la gente, gli anziani soprattutto, vanno a comprare il pane anche, e forse soprattutto, per 'consumare' la chiacchierata con la gente del quartiere perché al mercato si va anche e soprattutto per 'scambiare parole', che non ricevere visite di volontari e amici in carcere è questione di vita e di morte. Le grandi crisi ribaltano le vecchie 'piramidi dei bisogni'. Tutte le civiltà queste cose le hanno sempre sapute, quella capitalistica lo aveva dimenticato, speriamo lo reimpari dal dolore di questi giorni. Come un 'male comune' (virus) ci ha insegnato improvvisamente cosa sia il 'Bene comune', la solitudine forzata ci ha insegnato il valore e il prezzo delle relazioni umane, la distanza superiore al metro ci ha svelato la bellezza e la nostalgia delle distanze brevi.
Ma, lo vediamo e lo vedremo sempre di più, l’economia sta mostrando anche un’altra faccia. È quella delle Borse e delle speculazioni, la paura delle perdite di Pil che diventano più importanti delle perdite di vite, che hanno impedito finora di fermare anche quelle attività commerciali e produttive che non sono essenziali per la vita della gente – studi legali, di commercialisti, alcune fabbriche, studi di analisti finanziari, molti tipi di negozi… – attività che sappiamo quanta gente mette assieme ogni giorno soprattutto al Nord. Che ha fatto sì che il 'fermiamoci tutti' fermasse subito le scuole ma non il business.
Continuo a pensare e a ripetere ormai da diversi giorni che una 'quaresima da capitalismo', dimentica di Pil, spread, debito pubblico e patto di stabilità, sarebbe una terapia efficace per rallentare l’avanzare troppo minaccioso e veloce del virus.
Queste ragioni dell’economia sono molte diverse delle prime ragioni del lavoro- vita, e sono loro nemiche. Perché dicono che abbiamo messo in piedi un sistema sociale dove l’ultima parola, alla fine, sembra avercela il business e non il bene comune, dove la politica non ha abbastanza forza per fare cose ovvie. Tutto ciò è evidente in Italia, ma lo è di più in Europa, in Gran Bretagna e negli Usa dove si sta sottostimando e sotto-raccontando l’entità della crisi sanitaria per ridurre o magari evitare le sue conseguenze sull’economia – in particolare sulla finanza, che non sempre è alleata dell’economia.
Se siamo attenti, in questa crisi possiamo leggerci allora anche importanti messaggi sul capitalismo che abbiamo costruito in questi ultimi decenni. Abbiamo corso troppo, inseguendo i segnali di mercato abbiamo pensato di essere invincibili, non abbiamo applicato quel principio fondamentale della convivenza umana che la Dottrina sociale della Chiesa chiama principio di precauzione, che dovrebbe portare una comunità a non attendere che arrivi il 'cigno nero' per attrezzarsi e far fronte al caso eccezionale ma devastante. Una comunità saggia e non guidata dal capitale investe in tempi ordinari per premunirsi per il tempo eccezionale. Lo facciamo tutti i giorni con le assicurazioni individuali e aziendali, non lo facciamo più per la società nel suo insieme, che si ritrova totalmente scoperta su questioni decisive, nonostante gli allarmi seri che erano arrivati negli anni passati.
Che il re (capitalista) fosse nudo, ce lo aveva detto, come nella fiaba, una bambina, un anno fa. Noi non l’abbiamo ascoltata, e abbiamo continuato a vivere come se i vestiti del re ci fossero realmente, incantati dal benessere e dal delirio di onnipotenza. Questo virus è un secondo messaggio, che possiamo gestire e poi continuare a vivere come prima, o interpretare con saggezza e cambiare, cambiare molto.
«Avvenire» dell'11 marzo 2020
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