14 settembre 2016

Dante da rileggere all’infinito

di Piero Boitani
I centenari sono occasioni importanti e nefaste: ogni ente culturale che aspiri alla notorietà vuole celebrarli, e ogni editore, anche il più minuscolo, vuole sfruttarli per ergersi, nano, sulle spalle dei giganti. Solo Omero, tra i tre o quattro sommi d’Occidente, sfugge alla dura legge dell’anniversario. Siamo appena usciti dal 750° della nascita di Dante (2015), viviamo tuttora nel 400° della morte di Shakespeare e Cervantes (2016), e già si staglia all’orizzonte, più imminente di quanto non paia, il temibile 700° della morte dell’Alighieri (2021). Solo gli dei superni sanno cosa succederà quell’anno.
La Salerno Editrice, comunque, ci sarà, con biglietti da visita non proprio indifferenti. Non solo pubblica da anni l’Edizione Nazionale dei Commenti danteschi, ma si prepara, sin dai Novanta del secolo scorso, a pubblicare entro il 2021 la NECOD: Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante. Per il VI centenario della morte, quello del 1321, un gruppo di studiosi guidati da Michele Barbi aveva fatto nascere Le Opere di Dante. Testo critico della Società Dantesca Italiana, la cosiddetta «Edizione del Centenario»: memorabile, ma sprovvista di commento. In vista del VII centenario della nascita del poeta, nel 1965, si era coagulata l’iniziativa Ricciardi che, iniziata con la Divina Commedia di Natalino Sapegno nel 1957, è in realtà terminata soltanto nel 1988. Allora prendeva ormai corpo, dopo l’edizione «secondo l’antica vulgata» della Commedia di Giorgio Petrocchi, l’iniziativa dei Meridiani Mondadori: nei quali, a seguire la Commedia commentata da Anna Maria Chiavacci Leonardi (1991-94), uscivano due volumi di Opere tra il 2011 e il 2014.
Tanto, per la storia. La quale documenta il generarsi infinito dell’esegesi e il suo protrarsi se non infinito comunque pluridecennale. La scala della NECOD è tuttavia incomparabile: più di 900 pagine, per esempio, per un volume, degli otto (uno per gli Indici) previsti e dei cinque già usciti. E poi, vengono i «cardini», che Enrico Malato, motore primo dell’impresa, riassume così, dopo averli più pienamente enunciati già nel 2004 in Per una nuova edizione commentata delle opere di Dante e averne fornito Saggio applicato a Inferno Inel 2007: «attenzione alla rigorosa ricostituzione della lettera dei testi, massimo impegno nella illuminazione esegetica».
Più facile, si direbbe, a disegnare che non a realizzare. Invece, i volumi della NECOD sono proprio così: non roba, certo, da portare sulla spiaggia, ma tomi consistenti, chiari ed esaurienti, dal prezzo contenuto, che affrontano con parecchie novità testi e problemi discussi da centinaia d’anni, e con particolare intensità nell’ultimo secolo. In questo volume V, per dirne una, si parla estesamente della cosiddetta Epistola a Cangrande, separata per l’occasione dal corpus delle altre dodici. È quella, celeberrima, e della cui attribuzione a Dante si dibatte con acrimonia da decenni, nella quale, dopo la dedica a Cangrande della Scala del Paradiso, qualcuno che si definisce «fiorentino di nascita, non di costumi» si dà a introdurre la Commedia intera, e poi a presentarne l’ultima cantica. È qui che l’autore dell’Epistola parla della polisemia del poema e richiama l’interpretazione del Salmo 113 (In exitu Israel de Aegypto) per applicarne la griglia di senso letterale, allegorico, morale e anagogico alla Commedia stessa.
Se l’autore della lettera è Dante – e Luca Azzetta, che la introduce e la commenta nel volume, offre non pochi indizi a favore di questa ipotesi – si tratta di un momento emozionante. Un grande scrittore, uno appunto dei tre o quattro sommi d’Occidente, che fa autoesegesi, cioè che commenta un testo suo (all’epoca, l’esegesi era riservata alla Bibbia e ad Aristotele). Dante sarebbe così (quasi) perfettamente coerente con se stesso, visto che aveva iniziato a compiere tale operazione già con la Vita nova e l’aveva poi estesa e approfondita col Convivio (“quasi” perché se aveva usato nel trattato l’allegoria dei poeti, sembra ora impiegare l’allegoria dei teologi). Per capire la portata di questo autocommento basta pensare a un Omero che decida di introdurre l’Odissea, a uno Shakespeare che illustri l’Amleto, a un Cervantes che spieghi i sensi riposti del Chisciotte. Leggere l’Epistola a Cangrande come se uno non l’avesse mai letta è un’esperienza unica, che chiunque si occupi di letteratura dovrebbe fare. C’è in essa la passione argomentativa che si ritrova in tanti brani del Paradiso, c’è la presenza di quella «mente innamorata» che fa dire al poeta, nel canto IV dell’ultima cantica, che il nostro intelletto non si sazia se non lo illumina quella verità, Dio, al di fuori della quale nessuna verità può aver luogo. Dante usa, per l’attività dell’intelletto umano, un’immagine del mondo animale: dice che l’intelletto si riposa in quella verità come la fiera nella sua tana, non appena l’abbia raggiunta – e può ben raggiungerla, altrimenti il desiderio di verità innato nell’uomo sarebbe vano. Non aveva forse aperto il Convivio, Dante, ripetendo la frase iniziale della Metafisica di Aristotele, «tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere»? Non lo riprendeva all’inizio del Paradiso, affermando che «appressando sé al suo desire, / nostro intelletto si profonda»? Ecco, lo pronuncia ancora una volta qui: «l’intelleto umano in questa vita, per la connaturalità e l’affinità che ha con la sostanza intellettuale separata, quando si eleva, si eleva a tal punto che la memoria, dopo il ritorno, viene meno, per avere trasceso la misura umana».
Scrivere frasi del genere, direbbe Dante stesso, «non è impresa da pigliare a gabbo», perché vuol dire «descriver fondo a tutto l’universo». E in questo volume V della NECOD di tale «fondo» si vedono diverse testimonianze. Per esempio, quella Questione sull’acqua e sulla terra giudicata spesso mero esercizio di scuola e talvolta, anch’essa, non ascritta a Dante, è, come ben mette in luce Michele Rinaldi, un piccolo trattato cosmografico.
Le Egloghe, la risposta di Dante a Giovanni del Virgilio, il professore bolognese che lo invitava a comporre un poema in latino su qualche evento contemporaneo, documentano con non poca ironia la superiorità e a un tempo l’umiltà dantesca. Lui, ora che sta terminando la Commedia in volgare, non scimmiotterà il Virgilio dell’Eneide. Al massimo confezionerà delle Bucoliche. Ma guarda un po’ che Bucoliche! Le migliori dopo quelle di Virgilio stesso. Resta attaccato al perseguimento della verità, Dante. Quando, come emerge dall’Epistola XII, rifiuta di ritornare in patria soggiacendo a condizioni che considera umilianti, esclama: «Forse non vedrò ovunque i raggi del sole e delle stelle? Forse non potrò investigare le dolcissime verità ovunque sotto il cielo, se prima non mi renda privo di gloria, anzi disonorato al popolo della città di Firenze?».
«Il Sole 24 ore» dell'11 settembre 2016

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