27 agosto 2015

Amicizia civica oltre l'estraneità

Flussi migratori. Anche il mondo antico dovette affrontarli
di Roberto Colombo
L'accoglienza nella storia: prudenza al servizio della giusta carità
L’arrivo in Europa di un numero crescente di migranti dall’Africa e dal Vicino Oriente in cerca di quanto la loro terra natale non offre – incolumità, alloggio, cibo, lavoro e soprattutto una speranza di vita dignitosa per sé e i propri figli – appare come un connotato ineludibile del secondo decennio del nostro secolo. Con questo 'flusso migratorio' e la nuova 'questione sociale' che esso pone si confrontano (e si scontrano) settori della società civile, le loro rappresentanze politiche e i governi europei da una parte, e alcune realtà di vita comune, associativa, culturale, educativa e solidaristica dall’altra, non ultime quelle la cui natura e storia religiosa pone il valore della persona e la carità fraterna al centro di ogni pensiero e iniziativa sociale. Per quanto possa apparire un fenomeno dai tratti inediti e inquietanti, quello della 'pressione dei popoli' ai confini e della 'infiltrazione' di persone da lontano non è un quadro geosociale senza precedenti nella storia nostro Continente.
Di essi e delle risposte suscitate nel popolo autoctono e in quello cristiano torna utile riprendere qualche elemento che – pur nelle mutate circostanze culturali, sociali ed economiche – aiuti a cogliere le ragioni di una differente (ma non necessariamente confliggente) prospettiva. Come non partire, anche se questa scelta sacrifica pagine dell’umanesimo pre-cristiano (testimoniate dagli storici, dai poeti e dai miti dell’epoca: per Isocrate, Atene era «l’asilo più sicuro per lo straniero che aveva subito un’avversità nella propria patria»), dalla tarda antichità romana, quando le strade che attraversavano l’Europa erano percorse non solo da mercanti, pellegrini, mercenari e briganti, ma anche da miserabili che fuggivano dai confini dell’Impero verso il più sicuro centro e il sud, pressati dalle violente penetrazioni delle popolazioni 'barbariche' che destabilizzavano la pax romana?
Al contrario dei greci, «facilmente portati verso l’altro e l’altrove» – come sottolinea Michel Meslin – a motivo della mescolanza con un mondo esteso dalle conquiste alessandrine, i romani delle varie province dell’Impero erano per tradizione, almeno all’inizio di quest’ondata migratoria, «più casalinghi, diffidenti, arroccati nella loro piccola patria», con un sospetto spontaneo verso lo straniero che ne rendeva difficile l’accettazione (tra l’altro, i plebei temevano che gli stranieri sottraessero loro una parte dell’annona fatta distribuire nell’Urbe dall’imperatore). I due termini latini hospes (ospite) e
hostis (nemico) tradiscono una radice comune che designa l’estraneo con l’ambivalenza dell’accoglienza e della preoccupazione per la sua presenza.
Il cristianesimo, non senza qualche attrito con la cultura dominante e il potere imperiale che la esprimeva, contribuì in modo decisivo a sciogliere questa diffidenza verso l’altro, il 'diverso'. Eredi della tradizione ebraica dell’accoglienza che trova nel precetto levitico la sua sintesi («Il forestiero che dimora in mezzo a voi lo tratterete come colui che è nato tra di voi. Tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto»; Lv 19, 34), i cristiani hanno ben presto concepito la condizione di 'estraneità' come esemplare della loro stessa identità spirituale (un «esilio», secondo San Paolo; 2 Cor 5, 6) ed ecclesiale (essi «vivono nella loro patria, ma come forestieri. […] Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera»; Lett. a Diogneto V, 5). E questo li ha portati ad 'immedesimarsi' con la condizione dei migranti in cerca di salvezza. Ancor più, l’ospitalità – in greco philoxenia, letteralmente 'amore per lo straniero' – ha per il cristiano una ragione propriamente teologica: l’essere stato salvati da Gesù attraverso l’accoglienza alla sua mensa, l’Eucaristica, e l’incontrarlo in colui nel quale Egli stesso si è identificato: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25, 35). Al tempo delle migrazioni attraverso l’Impero romano, l’accoglienza dello straniero i cristiani l’hanno praticata e predicata (tra gli altri, il vescovo Ambrogio, dopo la sconfitta di Adrianopoli del 378, accolse con generosità a Milano i profughi danubiani che fuggivano all’avanzata dei Goti), favorendo così la gestazione di un’era nuova nella quale «la civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes)». (Jean Daniélou).
Ora come allora, il compito della Chiesa è questo e null’altro: testimoniare e richiamare questa civiltà dell’amore, dell’amicizia civica che non esclude nessuno.
«Avvenire» del 25 agosto 2015

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