09 agosto 2014

Chi dovrebbe insegnare italiano a scuola?

Istruzione
di Claudio Giunta
Premetto che
(1) credo che, in media, i migliori, i più colti e motivati (e, che non guasta, i più umili) tra gli studenti di Lettere, e tra i dottori in Lettere, siano gli studenti e i dottori in lettere classiche;
(2) non sono convinto del fatto che nel curriculum di uno studente di Lettere sia giusto dare all’insegnamento della/e letteratura contemporanea/e tutto lo spazio che gli si dà oggi (cioè da due-tre decenni a questa parte), fondamentalmente perché credo che all’università bisognerebbe studiare cose diverse da quelle che ci si vede intorno ogni giorno, che dovrebbero essere note per altre vie, e che non sempre meritano di essere studiate.
Ora che mi sono coperto le spalle con queste due belle premesse reazionarie, aggiungo una terza opinione che invece può suonare leggermente sovversiva: non credo che i laureati in latino o in greco o in glottologia, e insomma in discipline classiche, dovrebbero insegnare la letteratura italiana nelle scuole superiori.
La ragione è che, nel corso dei loro studi all’università, latinisti e grecisti fanno pochi esami di letteratura italiana e (salvo eccezioni) non ne fanno nessuno di discipline come Filologia romanza, Filologia italiana, Letterature comparate, Letteratura italiana moderna e contemporanea; e danno anche pochi o nessun esame di lingue e letterature straniere. È giusto così: diventare bravi classicisti richiede sforzo e concentrazione, direi più sforzo e concentrazione di quelli richiesti da un’altra laurea umanistica: ma è chiaro che non si può fare e non si può essere tutto, e il giusto approfondimento in questi settori rende impossibile – salvo eccezioni: sulle quali non si può però modellare la regola – l’approfondimento degli altri.
Scrivo questo perché invece una recente decisione del MIUR, dichiarando ‘atipica’ la classe di concorso 051 (italiano e latino nei licei), ha dato anche ai laureati in lettere classiche (classe di concorso 052) la possibilità di insegnare italiano non solo nel biennio (dove già potevano) ma anche nel triennio dei licei (dove non potevano).
Non so se dietro questa decisione c’è, come alcuni malignano, la ‘lobby dei classicisti’ (alla quale m’iscriverei subito, se ci fosse, perché considero l’istruzione classica la parte più importante dell’educazione umanistica), né m’interessa saperlo. Credo solo che, a scuola, le letterature moderne vadano insegnate da chi ha preparazione specifica sulle letterature moderne, e passa il suo tempo a leggere Proust e Gadda piuttosto che Menandro e Ovidio. Si possono fare le due cose insieme? No, non direi, e mi pare che questo pregiudizio favorevole ai classicisti (‘se uno sa bene il latino può insegnare tranquillamente anche letteratura italiana’) abbia un’influenza negativa sia su come s’insegna la letteratura a scuola sia su quale letteratura s’insegna.
Quanto al come, è difficile, per chi si è specializzato in latino o in greco, rinunciare alla tentazione di leggere, nei moderni, l’impronta dei classici. Questo atteggiamento è spesso legittimo, naturalmente, ma altrettanto spesso provoca, specie nei più dogmatici (non ne mancano, tra i classicisti), un tematismo ingenuo e antistorico (genere ‘La figura della donna da Catullo a Sereni’), e insomma rende poco sensibili alle discontinuità e alle specificità del mondo e della letteratura moderna, che per essere ben comprese necessitano, a mio avviso, di strumenti diversi.
Quanto al cosa, chi ha dedicato i suoi studi al latino e al greco sarà, in genere, poco propenso a interessarsi e a dare spazio, nell’insegnamento, alla letteratura contemporanea, che del resto conoscerà solo superficialmente (onde aggiornamenti frettolosi, velleitari e a volte semplicemente stupidi, cioè il salto da Virgilio a «quello che c’è in vetrina da Feltrinelli», senza tappe intermedie). Ma mentre sono del parere che all’università (dove bisognerebbe formare dei letterati, diciamo, ‘completi’) di letteratura contemporanea se ne faccia anche troppa, trovo assurdo che i programmi delle superiori, i programmi svolti, si fermino spesso a Pirandello o agli Ossi di seppia, e che alla domanda ‘mi dica i nomi di un poeta e di un romanziere che le piacciono’ i candidati al TFA (cioè i futuri insegnanti) rispondano, con frequenza allarmante, «Ungaretti e Svevo». Sono del parere che occorra ripensare in toto l’insegnamento della letteratura nelle scuole superiori, e in questo ripensamento (che vuol dire sfrondare, che vuol dire de-retoricizzare, e orientare sull’oggi più che sull’altroieri) i classicisti rischiano di essere più d’ostacolo che d’aiuto.
«Il Sole 24 Ore» del 20 luglio 2014

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