Il canone immutabile dei libri da leggere per l'estate
di Paolo Di Stefano
Niente di nuovo sotto il solleone, da trenta-quarant'anni. Ogni estate che il Signore mandi benevolmente sulla Terra, le classifiche dei libri subiscono la solita stanca respirazione bocca a bocca della scuola. Provate a dare un'occhiata: vedrete lievitare nella narrativa italiana almeno quattro-cinque romanzi di Italo Calvino. Non La giornata di uno scrutatore, ma immancabilmente: Il sentiero dei nidi di ragno, l'intera trilogia a raffica, Le città invisibili. Poi: un paio di Pavese, un paio di Fenoglio, un paio di Sciascia. E Primo Levi. Pochi titoli (da decenni sempre quelli) per pagare lo scotto civile alla Resistenza, alla Shoah, alla mafia; quello di genere, dal neorealismo al fantastico; quello geografico distribuendo le parti tra Nord e Sud. Ce n'è (quasi) per tutti i gusti.
Poi, non mancheranno mai, ogni estate: Il fu Mattia Pascal, La coscienza di Zeno, Il Gattopardo, L'isola di Arturo.
Quest'estate, ovvio, non si può rinunciare alla Grande Guerra, dunque Lussu e Un anno sull'altipiano. È la coazione a ripetere delle letture per le vacanze, consigliate (o imposte) dagli insegnanti. Ha proprio ragione Paolo Di Paolo (La Stampa, 2 luglio), è un canone immutabile, istituzionale, privo di sorprese, di slanci, di coraggio. Se ne ricava un effetto di eterno presente o meglio di eterno passato: come se dagli anni Sessanta non ci fosse stato nessun ricambio generazionale (e culturale) tra gli insegnanti, come se gli studenti di oggi fossero esattamente quelli di trenta o quarant'anni fa, soprattutto come se la letteratura non avesse prodotto alcuna pagina degna di fare timidamente capolino tra i classici del nostro tempo. Sì, qualcosa forse, eventualmente, molto eventualmente, ma sono titoli scelti prima dal mercato e poi a ruota dai professori: troverete infatti, sparso qua e là, qualche libro di Eco, di Benni, di Ammaniti, di Baricco e non molto di più. Saranno gli studenti a essere conservatori andando a sbattere sempre negli stessi nomi, o saranno piuttosto gli insegnanti a caldeggiare con ossessione Calvino, Pavese, Sciascia e poco altro? Perché con loro non si sbaglia mai, sono l'usato sicuro. Anche senza volersi spingere spericolatamente sui viventi, non si capisce perché la scuola tagli fuori da mezzo secolo gente come Ortese, Soldati, Parise, Bianciardi, Morselli, Flaiano? E Fruttero & Lucentini? E Pontiggia? E Bufalino? E Consolo? E Tabucchi? E chissà quanti altri. Non sarebbe ora di rompere le righe dell'abitudine? Domenica sul Sole 24 Ore, Claudio Giunta sosteneva che è sbagliato permettere ai laureati in Lettere classiche di insegnare italiano nel triennio dei licei: per formazione, sono troppo orientati sul passato e poco sul contemporaneo. La vera lacuna però non è nella formazione, ma nella curiosità culturale. Quanti laureati in filologia italiana (e futuri insegnanti) conoscono Gianni Celati e Milo De Angelis? Il contemporaneo spesso è fantascienza: dunque se ne parlerà nel XXII secolo. Semmai.
Poi, non mancheranno mai, ogni estate: Il fu Mattia Pascal, La coscienza di Zeno, Il Gattopardo, L'isola di Arturo.
Quest'estate, ovvio, non si può rinunciare alla Grande Guerra, dunque Lussu e Un anno sull'altipiano. È la coazione a ripetere delle letture per le vacanze, consigliate (o imposte) dagli insegnanti. Ha proprio ragione Paolo Di Paolo (La Stampa, 2 luglio), è un canone immutabile, istituzionale, privo di sorprese, di slanci, di coraggio. Se ne ricava un effetto di eterno presente o meglio di eterno passato: come se dagli anni Sessanta non ci fosse stato nessun ricambio generazionale (e culturale) tra gli insegnanti, come se gli studenti di oggi fossero esattamente quelli di trenta o quarant'anni fa, soprattutto come se la letteratura non avesse prodotto alcuna pagina degna di fare timidamente capolino tra i classici del nostro tempo. Sì, qualcosa forse, eventualmente, molto eventualmente, ma sono titoli scelti prima dal mercato e poi a ruota dai professori: troverete infatti, sparso qua e là, qualche libro di Eco, di Benni, di Ammaniti, di Baricco e non molto di più. Saranno gli studenti a essere conservatori andando a sbattere sempre negli stessi nomi, o saranno piuttosto gli insegnanti a caldeggiare con ossessione Calvino, Pavese, Sciascia e poco altro? Perché con loro non si sbaglia mai, sono l'usato sicuro. Anche senza volersi spingere spericolatamente sui viventi, non si capisce perché la scuola tagli fuori da mezzo secolo gente come Ortese, Soldati, Parise, Bianciardi, Morselli, Flaiano? E Fruttero & Lucentini? E Pontiggia? E Bufalino? E Consolo? E Tabucchi? E chissà quanti altri. Non sarebbe ora di rompere le righe dell'abitudine? Domenica sul Sole 24 Ore, Claudio Giunta sosteneva che è sbagliato permettere ai laureati in Lettere classiche di insegnare italiano nel triennio dei licei: per formazione, sono troppo orientati sul passato e poco sul contemporaneo. La vera lacuna però non è nella formazione, ma nella curiosità culturale. Quanti laureati in filologia italiana (e futuri insegnanti) conoscono Gianni Celati e Milo De Angelis? Il contemporaneo spesso è fantascienza: dunque se ne parlerà nel XXII secolo. Semmai.
«Corriere della Sera» del 22 luglio 2014
Nessun commento:
Posta un commento