25 luglio 2014

L'Italia moderna? È nata dal fuoco della Grande guerra

L'immane carneficina del primo conflitto mondiale rafforzò l'identità nazionale. Perché il "cameratismo" si diffuse dalle trincee a tutto il Paese
di Francesco Perfetti
Negli
La prospettiva dello scontro che sarebbe diventato la «Grande Guerra» era stata da tempo presa in considerazione dai vertici politici e militari delle potenze europee nella presunzione che un conflitto, breve e limitato, avrebbe stabilizzato la situazione internazionale.
Era un calcolo sbagliato. Lo si vide subito. La guerra coinvolse sempre più Stati, dilagò oltre i confini europei e costò decine di milioni di caduti sui campi di battaglia e, dopo, a operazioni militari concluse, altri milioni di morti o invalidi.
La guerra mondiale, però, non fu soltanto una carneficina da ricordare con orrore. Comportò, in positivo e in negativo, effetti duraturi e dirompenti. Per l'Italia, a esempio, rappresentò, sì, la conclusione del processo risorgimentale, ma anche il rafforzamento dell'identità nazionale. Prima dell'intervento, il Paese era diviso fra neutralisti e interventisti, immerso in un clima di latente guerra civile. Quasi per incanto, a guerra iniziata, si instaurò un clima di concordia nazionale. Il movimento delle «radiose giornate» del maggio 1915 aveva interessato una minoranza egemonizzata da élites culturali. La maggioranza della popolazione, in campagna come in città, era rimasta estranea alla battaglia per la neutralità o per l'intervento. Ed è comprensibile. Il processo di trasformazione economica e sociale e la fase di decollo economico avevano da poco aperto la strada alla partecipazione delle masse alla vita politica e sociale sia con l'estensione del suffragio sia con una pur limitata militanza partitica sia, infine, con le prime significative espressioni di conflittualità sindacale.
Durante il conflitto le cose mutarono. Il protrarsi dello stato di belligeranza, il succedersi delle chiamate alla leva, la necessità di modificare abitudini secolari o di cambiare lavoro e residenza, il riflettersi, insomma, degli effetti di un conflitto, divenuto esso stesso di massa, su tutte le fasce della popolazione, accelerarono la trasformazione della società. Piero Melograni in uno splendido e insuperato volume apparso nel 1969 - Storia politica della Grande Guerra (Mondadori), punto di svolta nella storiografia in materia - osservò che la guerra divenne la «prima esperienza collettiva degli italiani», di tutti gli italiani, non soltanto degli uomini impegnati al fronte.
Attraverso la dura vita della trincea facilitò lo sviluppo di un processo di robusta integrazione, favorendo la nascita - assai bene analizzata, a livello generale, da George L. Mosse - di quel sentimento del «cameratismo» che dopo il conflitto avrebbe rappresentato il collante capace di tenere insieme, uniti nella rivendicazione dei sacrifici sopportati al fronte e nella difesa dei valori per i quali si erano battuti, gli ex combattenti, espressione di un tipo umano inedito, nato, cresciuto e temprato in mezzo alle «tempeste d'acciaio». Attraverso la condivisione di sofferenze e disagi al fronte e il forzato annullamento o la riduzione delle distanze sociali, la guerra fece sì che gli individui coinvolti nel conflitto - con diverse mentalità, gusti, abitudini, esigenze e costretti a operare insieme sui campi di battaglia o a vegetare gomito a gomito nelle trincee - si adeguassero a una vita di relazione nuova, basata sull'uniformità del vestiario e dell'alimentazione, oltre che sulla necessità di superare le barriere linguistiche che, per la persistenza dei dialetti e la sopravvivenza di sacche di analfabetismo o semianalfabetismo, ancora li dividevano e li rendevano estranei l'uno all'altro.
In tal modo la guerra contribuì a far acquisire alla popolazione - anche quella non impegnata al fronte - il sentimento di appartenenza a una comunità nazionale nei confronti della quale non era pensabile rimanere estranei. Sotto questo profilo essa, sul terreno dei comportamenti collettivi, gettò le premesse per un massiccio e coinvolgente ingresso, o desiderio di ingresso, delle masse nella vita politica con il proposito, se non proprio di impadronirsi del Paese e di gestirlo, quanto meno di influire sui centri decisionali del potere. Non basta. Sul terreno economico, la guerra determinò il brusco passaggio da una società ancora legata a una struttura di produzione di tipo agrario a una società che dell'industria, in particolare quella pesante, doveva fare, per motivi bellici, il punto di forza, con tutto ciò che tale trasformazione finì per comportare: dalle migrazioni interne dalla campagna verso la città sino alla modifica della composizione della manodopera nelle strutture industriali che videro crescere in misura significativa la presenza femminile e il lavoro giovanile; dal consolidarsi di intrecci fra interessi industriali e bancari all'imposizione di vincoli legislativi e disposizioni regolamentari che, dopo la conclusione del conflitto, avrebbero rappresentato un pesante intralcio ai processi di riconversione verso un'economia di pace; e via dicendo. Sul terreno politico, infine, la guerra favorì le aspirazioni al rafforzamento dell'esecutivo e, più in generale, a quelle soluzioni che, a tutti i livelli, comportavano unicità di decisione.
La «Grande Guerra» si rivelò insomma, nel bene e nel male, un grande evento modernizzatore. Anche se - per il triste bagaglio di morti delle generazioni più giovani e per la pericolosa eredità di pulsioni rivoluzionarie e di suggestioni autoritarie e avventuristiche - lasciò, come mai nessun altro conflitto nella storia passata e recente aveva fatto, sul terreno di una società come quella italiana, in profonda e accelerata trasformazione, molte questioni aperte, da quelle più legate alla necessità di recuperare le condizioni di normalità a quelle connesse all'esigenza di rispondere a tante sfide innovatrici.
«Il Giornale» del 24 luglio 2014

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