Il filosofo Brennan dimostra che il socialismo (reale e ideale) è roba scadente rispetto al mercato. Eppure perfino certa destra è convinta del contrario ...
di Alessandro Gnocchi
Primo luogo comune: il socialismo reale è stato un fallimento ma l'ideale socialista resta valido. Secondo luogo comune: in un mondo perfetto, privo di egoismo, gli uomini sceglierebbero spontaneamente il collettivismo in quanto sistema migliore per raggiungere il comune benessere e coltivare le proprie aspirazioni.
Terzo luogo comune: «capitalismo» e «idealismo» nonostante le apparenze non fanno rima. Il capitalismo è sempre predatorio, e prevede il dominio del forte sul debole, del ricco sul povero, delle multinazionali sulla democrazia. Nella nostra società, queste idee preconfezionate sono accettate perfino da molti sostenitori del libero mercato, i quali riconoscono la superiorità morale del socialismo, unico depositario dei valori (uguaglianza, giustizia, cooperazione) cui si dovrebbe ispirare l'umanità se fosse virtuosa.
Jason Brennan, professore di scienze politiche alla Georgetown University, ha deciso di confutare i luoghi comuni. In Why Not Capitalism? (Routledge, pagg. 120, dollari 21,72) Brennan dimostra che: paragonare la perfezione della utopia socialista alle imperfezioni del capitalismo reale è solo un trucchetto; il capitalismo sarebbe preferibile al socialismo in ogni caso, anche (e soprattutto) se l'umanità fosse un esempio di virtù; il socialismo, e non il capitalismo, è davvero «predatorio». Non c'è dunque alcun motivo per cui i sostenitori del collettivismo, più o meno edulcorato, si sentano moralmente superiori a chi accetta le regole del libero mercato.
Il primo passo di Brennan è sgombrare il campo da un equivoco. Il socialismo non si identifica con la virtù morale o lo spirito di comunità, come vorrebbero farci credere. È un'altra cosa. Socialismo e capitalismo sono modi opposti di organizzare il diritto di proprietà: i mezzi di produzione possono essere collettivi o privati.
Quindi lo studioso compara socialismo reale e capitalismo reale. Il socialismo reale ha due problemi principali. Il primo. Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni? Il motto marxista non è un incentivo e non spinge le persone renitenti a dare il massimo. Il secondo. L'economia pianificata soffre di mancanza di informazioni sull'andamento di produzione e mercato. I famosi piani quinquennali non potevano che condurre alla rovina. Dal punto di vista politico, la burocrazia che tutto controlla e re-distribuisce, diventa sempre una aristocrazia rossa, simile all'antica nobiltà, lontanissima dal popolo (e questo, Brennan ce lo consenta, lo racconta alla perfezione Curzio Malaparte nello spietato Il ballo al Kremlino, Adelphi). A questo aggiungiamo la paura, la delazione, l'arbitrio nell'amministrazione della giustizia.
Il capitalismo reale, ovviamente, ha i suoi guai. Brennan non li nasconde, però invita a scoprire una letteratura poco frequentata ma fondata su numeri e non su auspici o esortazioni. Veniamo così a sapere che il mercato induce alla correttezza negli affari, e di lì conduce alla tolleranza religiosa, all'eguaglianza di genere e alla democrazia (tutta merce spesso sconosciuta nei Paesi senza libertà economica). Il commercio spinge a calarsi nei panni altrui, ad avere fiducia nel prossimo, e abitua alla reciprocità: esiste un nesso tra moralità e libertà di scambio. C'è poi un rapporto tra il grado di libertà economica e il grado di corruzione di un Paese. Dove c'è il mercato, e lo Stato è meno invadente, si pagano meno stecche.
Ma veniamo all'aspetto utopico. Secondo Brennan, se l'uomo fosse impeccabile (generoso, solidale, etc etc) opterebbe in ogni caso per il capitalismo. Brennan prende in esame una puntata del famoso cartone animato tv Mickey Mouse Clubhouse: il villaggio di Topolino, Minnie e amici è una buona approssimazione dell'ideale anarco-capitalista. La Disney mette in scena la società volontaria, anarchica, non violenta, fondata sulla cooperazione. I cittadini sono proprietari delle proprie attività, scambiano beni, si godono (e contribuiscono a pagare) gli spazi comuni, aiutano chiunque sia in difficoltà. Insomma, qui c'è una robusta società civile, capace di solidarietà, e in grado di metterla in atto con le ricchezze figlie del business. Ma un villaggio con abitanti così responsabili, moralmente ineccepibili, potrebbe forse non avere bisogno della proprietà privata. Perché non diventa una comune? A Topolino non passa neppure per la testa di rinunciare alle sue cose. Topolino ha un progetto, una visione che intende realizzare alle proprie condizioni. Per questo necessita di essere proprietario della sua attività, senza che nessuno possa mettervi il becco e senza essere costretto a chiedere in continuazione il permesso di agire ad una autorità centrale. Per realizzare la sua «visione», Topolino ha bisogno di ampia libertà in campo economico. Come potrebbe riuscire senza proprietà privata, se dovesse lottare con la burocrazia, se gli obiettivi economici fossero programmati dall'alto? Non è tutto. Dove lavorare? A che condizioni? Quanto consumare, quanto risparmiare? Quali beni scegliere? Il modo in cui Topolino sceglie e reagisce alle scelte altrui lo definisce come ... topo.
L'utopia capitalista, scrive Brennan, sulla scia di Nozick, è un insieme di utopie: ciascuno può scegliere la propria, inclusa il socialismo. Vuoi aprire una fabbrica di proprietà dei lavoratori? Si può fare. Vuoi fondare un kibbutz in cui tutto sia proprietà collettiva? Si può fare. Al contrario, l'utopia socialista vieta la proprietà privata. La libertà è l'argomento supremo a favore del capitalismo. «I socialisti - conclude Brennan - vendono sempre un prodotto inferiore. Il capitalismo ideale è migliore del socialismo ideale. Il capitalismo reale (o qualcosa di simile) è meglio del socialismo reale».
Almeno i nemici del collettivismo si liberino dal complesso di inferiorità e la piantino con la inesistente superiorità morale del socialismo e dei suoi profeti.
Terzo luogo comune: «capitalismo» e «idealismo» nonostante le apparenze non fanno rima. Il capitalismo è sempre predatorio, e prevede il dominio del forte sul debole, del ricco sul povero, delle multinazionali sulla democrazia. Nella nostra società, queste idee preconfezionate sono accettate perfino da molti sostenitori del libero mercato, i quali riconoscono la superiorità morale del socialismo, unico depositario dei valori (uguaglianza, giustizia, cooperazione) cui si dovrebbe ispirare l'umanità se fosse virtuosa.
Jason Brennan, professore di scienze politiche alla Georgetown University, ha deciso di confutare i luoghi comuni. In Why Not Capitalism? (Routledge, pagg. 120, dollari 21,72) Brennan dimostra che: paragonare la perfezione della utopia socialista alle imperfezioni del capitalismo reale è solo un trucchetto; il capitalismo sarebbe preferibile al socialismo in ogni caso, anche (e soprattutto) se l'umanità fosse un esempio di virtù; il socialismo, e non il capitalismo, è davvero «predatorio». Non c'è dunque alcun motivo per cui i sostenitori del collettivismo, più o meno edulcorato, si sentano moralmente superiori a chi accetta le regole del libero mercato.
Il primo passo di Brennan è sgombrare il campo da un equivoco. Il socialismo non si identifica con la virtù morale o lo spirito di comunità, come vorrebbero farci credere. È un'altra cosa. Socialismo e capitalismo sono modi opposti di organizzare il diritto di proprietà: i mezzi di produzione possono essere collettivi o privati.
Quindi lo studioso compara socialismo reale e capitalismo reale. Il socialismo reale ha due problemi principali. Il primo. Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni? Il motto marxista non è un incentivo e non spinge le persone renitenti a dare il massimo. Il secondo. L'economia pianificata soffre di mancanza di informazioni sull'andamento di produzione e mercato. I famosi piani quinquennali non potevano che condurre alla rovina. Dal punto di vista politico, la burocrazia che tutto controlla e re-distribuisce, diventa sempre una aristocrazia rossa, simile all'antica nobiltà, lontanissima dal popolo (e questo, Brennan ce lo consenta, lo racconta alla perfezione Curzio Malaparte nello spietato Il ballo al Kremlino, Adelphi). A questo aggiungiamo la paura, la delazione, l'arbitrio nell'amministrazione della giustizia.
Il capitalismo reale, ovviamente, ha i suoi guai. Brennan non li nasconde, però invita a scoprire una letteratura poco frequentata ma fondata su numeri e non su auspici o esortazioni. Veniamo così a sapere che il mercato induce alla correttezza negli affari, e di lì conduce alla tolleranza religiosa, all'eguaglianza di genere e alla democrazia (tutta merce spesso sconosciuta nei Paesi senza libertà economica). Il commercio spinge a calarsi nei panni altrui, ad avere fiducia nel prossimo, e abitua alla reciprocità: esiste un nesso tra moralità e libertà di scambio. C'è poi un rapporto tra il grado di libertà economica e il grado di corruzione di un Paese. Dove c'è il mercato, e lo Stato è meno invadente, si pagano meno stecche.
Ma veniamo all'aspetto utopico. Secondo Brennan, se l'uomo fosse impeccabile (generoso, solidale, etc etc) opterebbe in ogni caso per il capitalismo. Brennan prende in esame una puntata del famoso cartone animato tv Mickey Mouse Clubhouse: il villaggio di Topolino, Minnie e amici è una buona approssimazione dell'ideale anarco-capitalista. La Disney mette in scena la società volontaria, anarchica, non violenta, fondata sulla cooperazione. I cittadini sono proprietari delle proprie attività, scambiano beni, si godono (e contribuiscono a pagare) gli spazi comuni, aiutano chiunque sia in difficoltà. Insomma, qui c'è una robusta società civile, capace di solidarietà, e in grado di metterla in atto con le ricchezze figlie del business. Ma un villaggio con abitanti così responsabili, moralmente ineccepibili, potrebbe forse non avere bisogno della proprietà privata. Perché non diventa una comune? A Topolino non passa neppure per la testa di rinunciare alle sue cose. Topolino ha un progetto, una visione che intende realizzare alle proprie condizioni. Per questo necessita di essere proprietario della sua attività, senza che nessuno possa mettervi il becco e senza essere costretto a chiedere in continuazione il permesso di agire ad una autorità centrale. Per realizzare la sua «visione», Topolino ha bisogno di ampia libertà in campo economico. Come potrebbe riuscire senza proprietà privata, se dovesse lottare con la burocrazia, se gli obiettivi economici fossero programmati dall'alto? Non è tutto. Dove lavorare? A che condizioni? Quanto consumare, quanto risparmiare? Quali beni scegliere? Il modo in cui Topolino sceglie e reagisce alle scelte altrui lo definisce come ... topo.
L'utopia capitalista, scrive Brennan, sulla scia di Nozick, è un insieme di utopie: ciascuno può scegliere la propria, inclusa il socialismo. Vuoi aprire una fabbrica di proprietà dei lavoratori? Si può fare. Vuoi fondare un kibbutz in cui tutto sia proprietà collettiva? Si può fare. Al contrario, l'utopia socialista vieta la proprietà privata. La libertà è l'argomento supremo a favore del capitalismo. «I socialisti - conclude Brennan - vendono sempre un prodotto inferiore. Il capitalismo ideale è migliore del socialismo ideale. Il capitalismo reale (o qualcosa di simile) è meglio del socialismo reale».
Almeno i nemici del collettivismo si liberino dal complesso di inferiorità e la piantino con la inesistente superiorità morale del socialismo e dei suoi profeti.
«il Giornale» del 25 luglio 2014
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