30 luglio 2014

La prova generale dell’orrore genocida

Deportazioni, stragi,stupri: le atrocità sui civili preannunciano un cupo futuro. E rimangono tutte impunite. L’avvio di una deriva che porterà ad Auschwitz
di Marcello Flores
La memoria più vicina e più forte della Seconda guerra mondiale, in cui la metà delle vittime sono state civili, ha fatto spesso dimenticare che i crimini di guerra e contro l’umanità hanno fatto la loro comparsa nel primo conflitto mondiale. Le convenzioni dell’Aia del 1899 e 1907 avevano stabilito quali fossero, nel corso di una guerra, i comportamenti ritenuti lesivi della dignità, dell’onore, di un sentimento di umanità che dovevano sopravvivere anche in epoca bellica. Ma già nel corso del 1915 e del 1916 erano apparsi diversi «rapporti» sulle atrocità commesse dall’esercito tedesco in Belgio e Francia, su quelle delle truppe austriache in Serbia, su quelle dell’esercito turco ai danni delle minoranze dell’Impero ottomano. Ma sarà soprattutto nel corso della conferenza di pace di Parigi che, nel marzo 1919, una commissione «sulle responsabilità degli autori della guerra e sull’applicazione delle punizioni» presenterà un ampio e dettagliato rapporto che elencava 32 crimini di guerra e allegava 30 pagine di esempi che enumeravano i luoghi e i tempi in cui essi erano stati commessi.
Un’anticipazione drammaticadi quanto sarebbe accaduto si era già avuta durante le due guerre balcaniche che, nel 1912-13, costituirono la premessa al conflitto mondiale. Anche in questo caso, nel 1914, era stato pubblicato un rapporto, voluto dalla Carnegie Foundation e stilato da giuristi di sei Paesi, in cui erano elencati gli orrori commessi da tutte le parti coinvolte (nella prima guerra la Lega balcanica contro l’Impero ottomano; nella seconda il conflitto era scoppiato tra i membri della Lega, la Bulgaria contro i suoi ex alleati Serbia, Grecia e Montenegro). Un ampio affresco in due tomi dello storico inglese Mark Levene sugli orrori dei genocidi novecenteschi, The Crisis of Genocide, dedica la prima parte proprio ai crimini commessi tra il 1912 e il 1918, mostrando come nell’area prevalente dei massacri (i Balcani, il Caucaso, l’Anatolia) in realtà le violenze continuarono fino almeno al trattato di Losanna del 1922, proseguendo sulla linea di quelle commesse negli anni precedenti.
Levene inquadra l’intero sviluppo mondiale moderno dell’Ottocento e Novecento come un contesto che favorisce il genocidio e vede le crisi delle semiperiferie — dove più gravi sono le violenze — come conseguenza del generale conflitto tra le grandi potenze in quelle zone che devono reggere l’impatto del collasso degli imperi tradizionali. Cercando di superare il contrasto tra coloro che vedono l’orizzonte della guerra come il contesto più propizio per le peggiori violenze o, al contrario, come il risultato di dinamiche che localmente hanno già il segno della barbarie, Levene cerca di comprendere la violenza intrecciando le «circostanze» da cui nasce il conflitto con la «esperienza» in cui esso si concretizza. Per i serbi, ad esempio, gli islamici macedoni potevano essere assimilati, mentre i musulmani albanesi dovevano essere deportati o sterminati, in quanto gruppo che sembrava costituire una minaccia particolarmente pericolosa.
È proprio la percezione della minaccia rappresentata da un gruppo avverso (nazionale, etnico, religioso) a costituire in genere la molla delle atrocità, oltre alla spirale di vendetta e controvendetta. Se nel corso della prima guerra balcanica migliaia di musulmani ottomani vengono uccisi dalle truppe serbe e bulgare nel corso della deportazione di oltre 200 mila di loro, nella seconda saranno i greci a distruggere 160 villaggi e a giustificare nell’estate del 1913 le loro atrocità, sostenendo che i bulgari non erano uomini e che con i barbari occorre comportarsi da barbari. I massacri dei serbi nei confronti degli albanesi — per ridurre il loro peso demografico in Kosovo — toccano l’apice nel settembre 1914, quando la repressione di un tentativo di rivolta conduce all’annientamento del distretto di Luma e alla fuga dei 25 mila sopravvissuti. È quindi senza soluzione di continuità che si succedono gli eccidi, le deportazioni, le violenze che accompagnano le prime terribili battaglie del conflitto mondiale (Charleroi, Marna, Tannenberg, Laghi Masuri, Langemarck, Cer).
La novità, in questo caso, è data dal luogo in cui avvengono le atrocità e da chi le commette. Nell’agosto-settembre del 1914, infatti, sono i soldati tedeschi a creare il terrore tra le popolazioni del Belgio e della Francia del nord. Con la scusa del timore di spie e della presenza di francs-tireurs (civili armati), come nella guerra franco-prussiana di quarant’anni prima, il generale von Bülow autorizza il 9 agosto la presa e uccisione di ostaggi e l’incendio dei villaggi dove i tedeschi hanno trovato resistenza. A Dinant quasi 700 persone (donne e bambini compresi) vengono allineate e uccise il 23 agosto, mentre due giorni dopo l’incendio di Lovanio distruggerà la preziosa biblioteca medievale, uccidendo circa 250 persone. Certo, in termini numerici, le 6.500 vittime civili del Belgio sono poca cosa di fronte a oltre un milione di morti che conterà, di lì a un anno, il genocidio degli armeni da parte ottomana, o ai massacri degli assiri e alla deportazione dei greci; o alle altre deportazioni di cui sono vittime in Russia oltre 300 mila tedeschi del Volga inviati in Siberia, o 100 mila ebrei rimossi dalle aree vicino al fronte e mandati in Polonia, mentre i cosacchi nel settembre 1914 entrano nella capitale della Galizia, Leopoli, uccidendo coloro che sono rimasti e distruggendo la città.
La deportazione è l’arma privilegiata, perché permette di uccidere o di far morire indirettamente una gran quantità di nemici presunti, impossessandosi di beni e villaggi e lasciando spesso alla popolazione locale il compito di intervenire contro le minoranze (ma queste minoranze, in Russia, sono oltre sette milioni di persone che saranno rimosse dalle loro case nel corso della guerra e saranno vittime della violenza militare dell’esercito zarista e a volte anche di quello nemico). Lo stupro di massa nei confronti delle donne — e spesso delle bambine — dei villaggi occupati fu una costante che anticipò e accompagnò le distruzioni e le deportazioni. Ciò avvenne in particolare, e con decine di migliaia di casi, nel corso della deportazione degli armeni, dell’espulsione degli ebrei dalle regioni occidentali della Russia, dell’invasione della Galizia, dell’occupazione austro-ungarica e bulgara della Serbia.
Autorizzati e incoraggiati dalle gerarchie militari, gli stupri di massa si rivelarono strumenti del genocidio e della snazionalizzazione. Quelli commessi sul fronte orientale e balcanico — di gran lunga la maggioranza — passarono però quasi inosservati, mentre fu alle centinaia compiuti da parte tedesca in Belgio e Francia che si diede particolare attenzione, anche se prevalentemente da parte di organizzazioni femminili. La commissione che nel marzo 1919 consegna il suo rapporto sulle violazioni delle «leggi di guerra» e sui crimini «contro l’umanità e la civiltà» (come le grandi potenze avevano dichiarato nel maggio 1915, avvertendo la Turchia che tutto il suo governo sarebbe stato ritenuto colpevole dei massacri degli armeni da poco iniziati) indica come responsabilità principali delle armate tedesche, austriache e ottomane, i massacri e il terrorismo sistematico, la messa a morte degli ostaggi, la tortura di civili, la deliberata riduzione alla fame, lo stupro, il sequestro di ragazze e donne per la prostituzione forzata, la deportazione, le condizioni inumane dell’internamento, il lavoro forzato dei civili nel corso di operazioni militari. Di alcuni di questi delitti si erano resi responsabili anche le potenze vincitrici. Ma il disaccordo politico (e soprattutto l’opposizione americana alla definizione stessa di crimini contro l’umanità e all’instaurazione di un tribunale internazionale) impedì che perfino per le nazioni sconfitte scattasse la risposta di una giustizia internazionale che pure sembrava avere individuato ciò che era accaduto.
«Corriere della Sera» dell'11 maggio 2014

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