Nel giugno 1914 Mussolini e Nenni furono all’avanguardia nei moti sovversivi della Settimana rossa. Ma subito dopo entrambi si schierarono per l’ingresso in guerra
di Claudio Venza
«La monarchia è condannata. Cadrà oggi o cadrà domani, ma cadrà sicuramente e presto». Così scrive il leader anarchico Errico Malatesta indicando l’obiettivo della rivolta iniziata l’8 giugno 1914 e passata alla storia come «Settimana rossa». In effetti la notizia della caduta dei Savoia circola tra gli insorti e ne anima la lotta. L’enorme, e pare irrefrenabile, movimento parte da un fatto di sangue: l’uccisione di tre manifestanti, due repubblicani e un anarchico, colpiti dagli spari dei carabinieri ad Ancona dopo il comizio antimilitarista del 7 giugno. L’agitazione vuole ottenere lo scioglimento delle compagnie di disciplina, reparti punitivi per soldati sovversivi, e l’inizio del processo ad Augusto Masetti, l’anarchico che nel 1911 aveva sparato a un ufficiale che incitava a partecipare alla guerra di Libia.
La dimensione e la radicalità dell’insurrezione sorprendono gli stessi rivoluzionari. Come ricorda Luigi Lotti nel suo studio ormai classico, il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris confessa: «Non credevamo ci fosse in Italia tanta materia infiammabile». Fra i protagonisti si fanno notare, oltre a Malatesta e a Luigi Fabbri, il dirigente repubblicano Pietro Nenni e il socialista estremista Benito Mussolini. Non a caso gli ultimi tre sono romagnoli o marchigiani. Una regione ampia, e dalle tradizioni ribelli, è l’epicentro della sollevazione. Si va da Ancona, la città più importante, alle intere Marche e si coinvolge in pieno la «Romagna rossa». La forza pubblica, polizia ed esercito, sembra restare paralizzata di fronte all’occupazione di municipi, all’assalto di chiese, all’invasione di edifici statali. In effetti molti reparti restano senza ordini, in quanto il telegrafo viene sabotato in più punti e le comunicazioni ferroviarie sono quasi totalmente sospese.
In queste condizioni esplode una rabbia popolare che porta perfino alla ripresa di vecchie simbologie e pratiche. In diverse piazze di centri romagnoli, e non solo, si innalza l’«Albero della libertà», si assaltano i circoli dei notabili e si proclama la Repubblica a livello comunale. In grandi città, da Roma a Milano, da Torino a Firenze, dilaga lo sciopero generale. La Cgl, il sindacato socialista diretto dai moderati, deve seguire la mobilitazione spontanea e avallare le sospensioni del lavoro che si stanno moltiplicando. Sarà poi la stessa confederazione sindacale maggioritaria a spegnere l’incendio insurrezionale, con l’accordo della maggioranza riformista del Psi: il 10 giugno dichiara la fine delle agitazioni e il ritorno in fabbrica o nei campi. Malgrado parte dei rivoltosi intenda continuare la lotta, che prosegue in diversi centri fino al 13, la rottura dell’unità fra le organizzazioni e le stesse indecisioni dei protagonisti portano al termine della massiccia agitazione, la più importante dall’Unità d’Italia.
L’arrabbiato Mussolini accusa di «fellonia» i dirigenti sindacali. Anche il movimento più sovversivo, quello anarchico, deve fare i conti con l’impossibilità di realizzare una vera rivoluzione che, come più volte proclamato da Malatesta, dovrebbe far sì «che nessuno manchi di pane, che nessun bambino manchi di latte, che gli ospedali siano forniti di tutto l’occorrente». Dal punto di vista dello Stato, la Settimana Rossa mostra i limiti del controllo istituzionale sulla popolazione. Ciò risponde, secondo il capo del governo, Antonio Salandra, a una linea politica di «massima prudenza». Si tratterebbe di mantenere la difesa militare dei punti nevralgici e di aspettare l’inevitabile riflusso del movimento. Il ripristino dell’ordine viene facilitato da un avvenimento che cambia la storia mondiale. Nel giro di alcune settimane, in seguito all’attentato di Sarajevo, scoppia la Prima guerra mondiale e tutto il continente è investito da un terremoto. Niente sarà più come prima del 1914.
La guerra provoca in Italia un acerrimo scontro interno fra interventisti e neutralisti, spostando il piano del confronto dall’ambito sociale a quello politico e militare. L’evento traumatico ha effetti sui singoli esponenti delle agitazioni della Settimana rossa. A ciò si aggiunga l’avvio di una nuova fase repressiva e diversi esponenti di primo piano, tra cui Malatesta e Fabbri, scelgono la via dell’esilio. In poco tempo si ridimensiona il contenuto antimilitarista che era stato la miccia della tentata insurrezione del 7-13 giugno. In realtà i repubblicani restano antisabaudi, ma tra loro emerge con prepotenza la componente patriottica. Inoltre si sviluppa in modo quasi irresistibile un altro elemento: il bisogno dell’azione e il rifiuto della passività di fronte a un fatto così enorme come la guerra mondiale.
Il «patriottismo d’azione» si impone progressivamente quale viatico dell’impegno dei repubblicani. Lo stesso Nenni dichiara pubblicamente, dal carcere, di auspicare l’intervento italiano e la partecipazione volontaria dei militanti. Altri attivisti di primo piano nella Settimana rossa scelgono invece la continuità con l’antiautoritarismo. Così Armando Borghi, nel convegno del sindacato rivoluzionario Usi del settembre 1914, rompe con una personalità di grande prestigio come Alceste De Ambris, segretario della potente Camera del lavoro di Parma. Questi si schiera per l’intervento ed è quindi espulso dal sindacato insieme a non pochi seguaci. Da parte sua Benito Mussolini, direttore dell’«Avanti!» e quindi ai vertici del Psi, ha valorizzato la Settimana rossa come momento di rottura del sistema vigente. La sua ricerca ossessiva delle circostanze eccezionali che possano favorire lo scoppio insurrezionale trova poi soddisfazione nella deflagrazione bellica.
Polemizzando con gli antibellicisti, vede nel conflitto in corso in Europa un rimescolamento di carte talmente profondo da creare, anche al di là delle intenzioni di governi e alleanze, nuovi spazi per la «guerra rivoluzionaria». Dopo alcuni mesi di conferme e riconferme della linea ufficiale socialista della «neutralità assoluta», in un articolo del 18 ottobre 1914 enuncia una «neutralità attiva e operante», formula personale e sintomo di un radicale cambiamento di prospettiva. In ultima analisi, la Settimana rossa ha rappresentato per i suoi protagonisti una duplice esperienza valutata in modo in apparenza coincidente: è stata una lotta aperta e foriera di una trasformazione senza ritorno della società. Pro e contro la guerra sono le due posizioni opposte di chi riflette, da angolature politiche e ideali divergenti, sul medesimo cruciale momento storico. È appena terminato, ma appare già lontano e sfumato.
La dimensione e la radicalità dell’insurrezione sorprendono gli stessi rivoluzionari. Come ricorda Luigi Lotti nel suo studio ormai classico, il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris confessa: «Non credevamo ci fosse in Italia tanta materia infiammabile». Fra i protagonisti si fanno notare, oltre a Malatesta e a Luigi Fabbri, il dirigente repubblicano Pietro Nenni e il socialista estremista Benito Mussolini. Non a caso gli ultimi tre sono romagnoli o marchigiani. Una regione ampia, e dalle tradizioni ribelli, è l’epicentro della sollevazione. Si va da Ancona, la città più importante, alle intere Marche e si coinvolge in pieno la «Romagna rossa». La forza pubblica, polizia ed esercito, sembra restare paralizzata di fronte all’occupazione di municipi, all’assalto di chiese, all’invasione di edifici statali. In effetti molti reparti restano senza ordini, in quanto il telegrafo viene sabotato in più punti e le comunicazioni ferroviarie sono quasi totalmente sospese.
In queste condizioni esplode una rabbia popolare che porta perfino alla ripresa di vecchie simbologie e pratiche. In diverse piazze di centri romagnoli, e non solo, si innalza l’«Albero della libertà», si assaltano i circoli dei notabili e si proclama la Repubblica a livello comunale. In grandi città, da Roma a Milano, da Torino a Firenze, dilaga lo sciopero generale. La Cgl, il sindacato socialista diretto dai moderati, deve seguire la mobilitazione spontanea e avallare le sospensioni del lavoro che si stanno moltiplicando. Sarà poi la stessa confederazione sindacale maggioritaria a spegnere l’incendio insurrezionale, con l’accordo della maggioranza riformista del Psi: il 10 giugno dichiara la fine delle agitazioni e il ritorno in fabbrica o nei campi. Malgrado parte dei rivoltosi intenda continuare la lotta, che prosegue in diversi centri fino al 13, la rottura dell’unità fra le organizzazioni e le stesse indecisioni dei protagonisti portano al termine della massiccia agitazione, la più importante dall’Unità d’Italia.
L’arrabbiato Mussolini accusa di «fellonia» i dirigenti sindacali. Anche il movimento più sovversivo, quello anarchico, deve fare i conti con l’impossibilità di realizzare una vera rivoluzione che, come più volte proclamato da Malatesta, dovrebbe far sì «che nessuno manchi di pane, che nessun bambino manchi di latte, che gli ospedali siano forniti di tutto l’occorrente». Dal punto di vista dello Stato, la Settimana Rossa mostra i limiti del controllo istituzionale sulla popolazione. Ciò risponde, secondo il capo del governo, Antonio Salandra, a una linea politica di «massima prudenza». Si tratterebbe di mantenere la difesa militare dei punti nevralgici e di aspettare l’inevitabile riflusso del movimento. Il ripristino dell’ordine viene facilitato da un avvenimento che cambia la storia mondiale. Nel giro di alcune settimane, in seguito all’attentato di Sarajevo, scoppia la Prima guerra mondiale e tutto il continente è investito da un terremoto. Niente sarà più come prima del 1914.
La guerra provoca in Italia un acerrimo scontro interno fra interventisti e neutralisti, spostando il piano del confronto dall’ambito sociale a quello politico e militare. L’evento traumatico ha effetti sui singoli esponenti delle agitazioni della Settimana rossa. A ciò si aggiunga l’avvio di una nuova fase repressiva e diversi esponenti di primo piano, tra cui Malatesta e Fabbri, scelgono la via dell’esilio. In poco tempo si ridimensiona il contenuto antimilitarista che era stato la miccia della tentata insurrezione del 7-13 giugno. In realtà i repubblicani restano antisabaudi, ma tra loro emerge con prepotenza la componente patriottica. Inoltre si sviluppa in modo quasi irresistibile un altro elemento: il bisogno dell’azione e il rifiuto della passività di fronte a un fatto così enorme come la guerra mondiale.
Il «patriottismo d’azione» si impone progressivamente quale viatico dell’impegno dei repubblicani. Lo stesso Nenni dichiara pubblicamente, dal carcere, di auspicare l’intervento italiano e la partecipazione volontaria dei militanti. Altri attivisti di primo piano nella Settimana rossa scelgono invece la continuità con l’antiautoritarismo. Così Armando Borghi, nel convegno del sindacato rivoluzionario Usi del settembre 1914, rompe con una personalità di grande prestigio come Alceste De Ambris, segretario della potente Camera del lavoro di Parma. Questi si schiera per l’intervento ed è quindi espulso dal sindacato insieme a non pochi seguaci. Da parte sua Benito Mussolini, direttore dell’«Avanti!» e quindi ai vertici del Psi, ha valorizzato la Settimana rossa come momento di rottura del sistema vigente. La sua ricerca ossessiva delle circostanze eccezionali che possano favorire lo scoppio insurrezionale trova poi soddisfazione nella deflagrazione bellica.
Polemizzando con gli antibellicisti, vede nel conflitto in corso in Europa un rimescolamento di carte talmente profondo da creare, anche al di là delle intenzioni di governi e alleanze, nuovi spazi per la «guerra rivoluzionaria». Dopo alcuni mesi di conferme e riconferme della linea ufficiale socialista della «neutralità assoluta», in un articolo del 18 ottobre 1914 enuncia una «neutralità attiva e operante», formula personale e sintomo di un radicale cambiamento di prospettiva. In ultima analisi, la Settimana rossa ha rappresentato per i suoi protagonisti una duplice esperienza valutata in modo in apparenza coincidente: è stata una lotta aperta e foriera di una trasformazione senza ritorno della società. Pro e contro la guerra sono le due posizioni opposte di chi riflette, da angolature politiche e ideali divergenti, sul medesimo cruciale momento storico. È appena terminato, ma appare già lontano e sfumato.
«Corriere della Sera» del 25 giugno 2014
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