di Davide Rondoni
Sono loro di nuovo protagonisti. In modo più evidente. I corpi. Con l’estate è inevitabile. Si smettono tabarri e riemergono, a volte pallidissimi e non proprio in formissima loro, i nostri corpi. Per così dire più esposti. Le maniche corte, o via le maniche, i calzoni più corti, e le gonne. E insomma una maggior esposizione dei corpi reali. Quelli che l’estate – questo grande effetto speciale che nessun regista di cinema è mai riuscito a inventare – ritira fuori come nessun altro tempo del mondo e dell’uomo. E lo spettacolo, va detto, tranne qualche eccezione, non è dei più esaltanti se visto con gli occhiali deformanti di un 'ideale estetico' banale, quello a cui ci hanno vincolato con le invincibili armate dei media. Ma se togliamo quegli occhiali e guardiamo davvero, lungo le spiagge o lungo i binari di affollate stazioni, su piazzali desolati nel sole o sotto i portici per improvvisi temporali, vediamo i nostri i corpi dare uno spettacolo unico e, in un certo senso, meraviglioso.
Corpi difettosi, imperfetti, a volte veramente disfatti o feriti. Eppure, tutti, anche quelli nelle più miserevoli condizioni (l’estate ci fa vedere anche quel che non vorremmo) mostrano una strana gloria, una tendenza a cercare di esser belli. Magari sbagliando accostamenti di colori, o con pettinature o ninnoli a volte patetici. Ma sempre, o quasi sempre, cercando di manifestare, di tentare una qualche bellezza. Provandoci a volte senza sapere come fare. Come se il corpo, il nostro corpo fosse una lingua, un linguaggio. Insomma, d’estate si vede cosa vogliamo dire con il nostro corpo, che è un modo di esprimere non solo se stessi (come tutti banalmente pensano), ma anche – come succede con ogni linguaggio di cui disponiamo: lettere, suoni, colori, etc. – una visione del mondo dove siamo. E però il corpo, come, appunto, accade con ogni linguaggio, va imparato. Ne abbiamo una competenza innata, proprio come il bambino che impara ad articolare le parole o i suoni per una disposizione innata. Se però non si impara e non si coltiva, un linguaggio può essere usato al minimo, poveramente, o in modo distorto. E quindi inevitabilmente confuso.
Credo che la moda ormai invasiva dei tatuaggi, sia un segno di questa voglia: avere qualcosa da dire che davvero coincida con il mio corpo, con la mia spessa presenza nel mondo. Ma siccome non si sa bene come farlo o lo si intende fare in misura più forte di quanto sembra che il corpo consenta, si trasforma quest’ultimo in una pagina su cui scrivere con segni e parole. Un tentativo estremo di far coincidere corpo e significato.
Come se grazie almeno ai tatuaggi, segni delicati o selve salienti per braccia e gambe, schiene e linee del collo, il nostro corpo parlasse di qualcosa che non è la sola sua presenza, non la sola sua (povera) bellezza. Presenza che spesso, appunto, con la sua nudità o seminudità invece quasi ci mette a disagio, quando non sia mascherata o distorta per motivi commerciali o di intrattenimento. Quella nudità del corpo che, come hanno narrato ed evidenziato anche artisti contemporanei, mette in questione il modo banale di rappresentazione che del sistema mediatico. Siamo in una dittatura del 'presunto' bello, a cui si oppone la presenza dei nostri corpi veri. Povere creature, corpi imperfetti che cercano di comunicare qualcosa di bello.
Tatuandosi, truccandosi, a volte manipolandosi o agghindandosi. Miseria e nobiltà del nostro essere carnali.
Ci sono magnati (e organizzazioni internazionali) che lavorano per replicare o trasferire il cervello umano in un computer o in un ologramma. I nuovi profeti dello Spirito Contemporaneo pensano che il corpo sia poco più che un peso da evitare e parcheggiare per liberare la mente. Ma contro di loro lavora lo spettacolo dell’estate, il grande insegnamento del vivente, quando vedi la diversità dei corpi e dici: 'Siamo questi', no, non siamo solo mente. E un po’ di magone e di allegria ti vengono.
Perché siamo corpi di creature, non ci siamo creati da soli alti, magri, o atletici come vorremmo o secondo le mode. Ma che anche solo con la nuda (o seminuda) presenza i nostri corpi ancora dicono che siamo fatti per dare gloria a qualcosa di più bello di noi.
Corpi difettosi, imperfetti, a volte veramente disfatti o feriti. Eppure, tutti, anche quelli nelle più miserevoli condizioni (l’estate ci fa vedere anche quel che non vorremmo) mostrano una strana gloria, una tendenza a cercare di esser belli. Magari sbagliando accostamenti di colori, o con pettinature o ninnoli a volte patetici. Ma sempre, o quasi sempre, cercando di manifestare, di tentare una qualche bellezza. Provandoci a volte senza sapere come fare. Come se il corpo, il nostro corpo fosse una lingua, un linguaggio. Insomma, d’estate si vede cosa vogliamo dire con il nostro corpo, che è un modo di esprimere non solo se stessi (come tutti banalmente pensano), ma anche – come succede con ogni linguaggio di cui disponiamo: lettere, suoni, colori, etc. – una visione del mondo dove siamo. E però il corpo, come, appunto, accade con ogni linguaggio, va imparato. Ne abbiamo una competenza innata, proprio come il bambino che impara ad articolare le parole o i suoni per una disposizione innata. Se però non si impara e non si coltiva, un linguaggio può essere usato al minimo, poveramente, o in modo distorto. E quindi inevitabilmente confuso.
Credo che la moda ormai invasiva dei tatuaggi, sia un segno di questa voglia: avere qualcosa da dire che davvero coincida con il mio corpo, con la mia spessa presenza nel mondo. Ma siccome non si sa bene come farlo o lo si intende fare in misura più forte di quanto sembra che il corpo consenta, si trasforma quest’ultimo in una pagina su cui scrivere con segni e parole. Un tentativo estremo di far coincidere corpo e significato.
Come se grazie almeno ai tatuaggi, segni delicati o selve salienti per braccia e gambe, schiene e linee del collo, il nostro corpo parlasse di qualcosa che non è la sola sua presenza, non la sola sua (povera) bellezza. Presenza che spesso, appunto, con la sua nudità o seminudità invece quasi ci mette a disagio, quando non sia mascherata o distorta per motivi commerciali o di intrattenimento. Quella nudità del corpo che, come hanno narrato ed evidenziato anche artisti contemporanei, mette in questione il modo banale di rappresentazione che del sistema mediatico. Siamo in una dittatura del 'presunto' bello, a cui si oppone la presenza dei nostri corpi veri. Povere creature, corpi imperfetti che cercano di comunicare qualcosa di bello.
Tatuandosi, truccandosi, a volte manipolandosi o agghindandosi. Miseria e nobiltà del nostro essere carnali.
Ci sono magnati (e organizzazioni internazionali) che lavorano per replicare o trasferire il cervello umano in un computer o in un ologramma. I nuovi profeti dello Spirito Contemporaneo pensano che il corpo sia poco più che un peso da evitare e parcheggiare per liberare la mente. Ma contro di loro lavora lo spettacolo dell’estate, il grande insegnamento del vivente, quando vedi la diversità dei corpi e dici: 'Siamo questi', no, non siamo solo mente. E un po’ di magone e di allegria ti vengono.
Perché siamo corpi di creature, non ci siamo creati da soli alti, magri, o atletici come vorremmo o secondo le mode. Ma che anche solo con la nuda (o seminuda) presenza i nostri corpi ancora dicono che siamo fatti per dare gloria a qualcosa di più bello di noi.
«Avvenire» del 12 luglio 2014
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