Goethe, la donna, il «gender»
di Francesco D’Agostino
Un errore frequente che commettono coloro che parlano della teoria del "gender" è quello di ritenerla una teoria compatta, coerente, strutturata. Non è così: sotto l’etichetta del "gender" si accumulano (e un po’ nascondono) diverse visioni antropologiche, spesso persino contraddittorie tra loro, quasi sempre argomentate male e frettolosamente, tutte fragilissime, sia dal punto di vista filosofico che sociologico e politico.
Proprio per questo, però, criticarle è molto faticoso, perché non si sa mai, volta per volta, quale sia lo specifico paradigma oggetto della discussione. Il teorico del" gender" che ci ha sfidato, ad esempio, a confutare il paradigma A è in genere abilissimo, di fronte a una confutazione efficace, a provocarci nuovamente, sostituendo come un giocoliere il paradigma A, non più utilizzabile, con il paradigma B, C o Z, e riattivando una discussione defatigante tanto quanto infruttuosa.
Ecco perché da un po’ di tempo, quando sono coinvolto in un dibattito sulla teoria del "gender", uso un argomento trasversale rispetto a quelli usati comunemente e, almeno all’apparenza, stravagante: quello dell’eterno femminino, citando l’ultimo verso del Faust di Goethe: «das Ewig-Weibliche zieht uns hinan», e cioè «l’eterno femminino ci spinge verso l’alto». Naturalmente nessuno capisce sulle prime il senso della citazione, ma almeno il dibattito sul "gender" può essere fruttuosamente rimesso sul binario giusto.
Il verso di Goethe non solo è bello, ma incredibilmente preciso.
Afferma qualcosa di molto forte sull’identità sessuale umana. Ci spiega che è proprio dell’essere umano (del Mensch, maschio o femmina che esso sia, giovane o vecchio, forte o fragile) il desiderio di tendere sempre verso «l’alto», assumendo la statura eretta, amando la luce piuttosto che le tenebre, sentendo il fascino della novità e la noia della ripetizione, adorando la vita e aborrendo la morte. Ma l’essere umano non ha e non trova in se stesso la forza necessaria a dare a questa sua aspirazione profonda un orientamento stabile e garantito.
Ha bisogno di un aiuto. E questo aiuto lo troviamo nei recessi più profondi della nostra psiche, del nostro animo, del nostro io, quando da essi emerge la parola donna nel suo significato archetipico, cioè per l’appunto eterno. È il femminile che ci orienta verso l’alto, perché è la donna (e non l’uomo) colei che custodendo la vita nel suo grembo esprime la forma di amore più analogabile, per noi, a quello che Dio nutre per le sue creature. È in questo senso che ogni donna, nessuna esclusa, opera sempre per spingere in avanti e verso l’alto l’uomo: ciò che la Madonna ha fatto per Gesù, Beatrice per Dante, ciò che ogni madre fa per il suo bambino, ogni amata per il suo innamorato, la vedova di Zarepta per Elia, ciò che ogni donna fa quando risponde a un qualsiasi umanissimo bisogno di soccorso le venga rivolto, è ciò che qualifica il femminile e lo eternizza, perché non dipende da contingenze storiche o culturali, da scelte di vita o da assunzioni di identità, da obblighi religiosi o da precetti morali, ma dal fatto che è la donna e la donna soltanto (e non ad esempio la creatura angelica che non ha identità sessuale) ad avere avuto in dono (da Dio per il credente, dalla natura per il non credente) questa straordinaria "potenza" generativa, che non potrà mai esserle sottratta, nemmeno dalla sterilità biologica o vocazionale (come mostra il dolcissimo appellativo di madre col quale ci rivolgiamo alle religiose).
La possibilità (sacrosanta) da parte delle donne di poter accedere oggi a qualsiasi funzione sociale in piena parità con gli uomini viene interpretata dai teorici del "gender" come la possibilità inesausta, da parte di uomini e donne, di poter ricreare a piacimento la loro identità sessuale, banalizzandone la radice biologica, come se tale radice non esprimesse una valenza identitaria fondamentale. Di qui la duplice violenza che il teorico del "gender" fa, anche se inconsapevolmente, a se stesso e all’ordine delle relazioni interpersonali, che ne viene stravolto e deformato.
Erede arrogante e irritante, ma profondo, della tradizione ebraico-cristiana, Goethe ha visto benissimo: il "femminile" non è scelta, ma dono, che ha il suo senso eterno nel farsi a sua volta dono gratuito, continuo e inesauribile. Quando nelle nostre preghiere ringraziamo Cristo, lo ringraziamo per il dono che ci ha fatto della sua persona, non per il dono della sua virilità. Ma quando rendiamo grazie a Maria, la ringraziamo come Madre, per il dono che ci ha fatto della sua eterna femminilità. È da qui, credo, che potrebbero riprendere con maggiore profitto le discussioni, ormai così stereotipate, sul "gender", per aprirsi a un’intelligenza più profonda della nostra natura umana.
Proprio per questo, però, criticarle è molto faticoso, perché non si sa mai, volta per volta, quale sia lo specifico paradigma oggetto della discussione. Il teorico del" gender" che ci ha sfidato, ad esempio, a confutare il paradigma A è in genere abilissimo, di fronte a una confutazione efficace, a provocarci nuovamente, sostituendo come un giocoliere il paradigma A, non più utilizzabile, con il paradigma B, C o Z, e riattivando una discussione defatigante tanto quanto infruttuosa.
Ecco perché da un po’ di tempo, quando sono coinvolto in un dibattito sulla teoria del "gender", uso un argomento trasversale rispetto a quelli usati comunemente e, almeno all’apparenza, stravagante: quello dell’eterno femminino, citando l’ultimo verso del Faust di Goethe: «das Ewig-Weibliche zieht uns hinan», e cioè «l’eterno femminino ci spinge verso l’alto». Naturalmente nessuno capisce sulle prime il senso della citazione, ma almeno il dibattito sul "gender" può essere fruttuosamente rimesso sul binario giusto.
Il verso di Goethe non solo è bello, ma incredibilmente preciso.
Afferma qualcosa di molto forte sull’identità sessuale umana. Ci spiega che è proprio dell’essere umano (del Mensch, maschio o femmina che esso sia, giovane o vecchio, forte o fragile) il desiderio di tendere sempre verso «l’alto», assumendo la statura eretta, amando la luce piuttosto che le tenebre, sentendo il fascino della novità e la noia della ripetizione, adorando la vita e aborrendo la morte. Ma l’essere umano non ha e non trova in se stesso la forza necessaria a dare a questa sua aspirazione profonda un orientamento stabile e garantito.
Ha bisogno di un aiuto. E questo aiuto lo troviamo nei recessi più profondi della nostra psiche, del nostro animo, del nostro io, quando da essi emerge la parola donna nel suo significato archetipico, cioè per l’appunto eterno. È il femminile che ci orienta verso l’alto, perché è la donna (e non l’uomo) colei che custodendo la vita nel suo grembo esprime la forma di amore più analogabile, per noi, a quello che Dio nutre per le sue creature. È in questo senso che ogni donna, nessuna esclusa, opera sempre per spingere in avanti e verso l’alto l’uomo: ciò che la Madonna ha fatto per Gesù, Beatrice per Dante, ciò che ogni madre fa per il suo bambino, ogni amata per il suo innamorato, la vedova di Zarepta per Elia, ciò che ogni donna fa quando risponde a un qualsiasi umanissimo bisogno di soccorso le venga rivolto, è ciò che qualifica il femminile e lo eternizza, perché non dipende da contingenze storiche o culturali, da scelte di vita o da assunzioni di identità, da obblighi religiosi o da precetti morali, ma dal fatto che è la donna e la donna soltanto (e non ad esempio la creatura angelica che non ha identità sessuale) ad avere avuto in dono (da Dio per il credente, dalla natura per il non credente) questa straordinaria "potenza" generativa, che non potrà mai esserle sottratta, nemmeno dalla sterilità biologica o vocazionale (come mostra il dolcissimo appellativo di madre col quale ci rivolgiamo alle religiose).
La possibilità (sacrosanta) da parte delle donne di poter accedere oggi a qualsiasi funzione sociale in piena parità con gli uomini viene interpretata dai teorici del "gender" come la possibilità inesausta, da parte di uomini e donne, di poter ricreare a piacimento la loro identità sessuale, banalizzandone la radice biologica, come se tale radice non esprimesse una valenza identitaria fondamentale. Di qui la duplice violenza che il teorico del "gender" fa, anche se inconsapevolmente, a se stesso e all’ordine delle relazioni interpersonali, che ne viene stravolto e deformato.
Erede arrogante e irritante, ma profondo, della tradizione ebraico-cristiana, Goethe ha visto benissimo: il "femminile" non è scelta, ma dono, che ha il suo senso eterno nel farsi a sua volta dono gratuito, continuo e inesauribile. Quando nelle nostre preghiere ringraziamo Cristo, lo ringraziamo per il dono che ci ha fatto della sua persona, non per il dono della sua virilità. Ma quando rendiamo grazie a Maria, la ringraziamo come Madre, per il dono che ci ha fatto della sua eterna femminilità. È da qui, credo, che potrebbero riprendere con maggiore profitto le discussioni, ormai così stereotipate, sul "gender", per aprirsi a un’intelligenza più profonda della nostra natura umana.
«Avvenire» del 31 marzo 2014
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