12 agosto 2013

C’è vita in questi tweet

Le battute di Scott Simon, la paura della cofondatrice di Boing Boing. «La solidarietà degli sconosciuti in situazioni di dolore ci fa bene»
di Serena Danna
Una malattia, il parto, la morte della madre La Rete favorisce la condivisione degli affetti
Quando lunedì scorso la popolare blogger Xeni Jardin ha dato su Twitter il risultato dell’ultimo esame clinico, i suoi settantasette mila follower hanno tirato un sospiro di sollievo. È dal primo dicembre del 2011 che seguono online la sua battaglia contro il cancro al seno. Quel giorno, la cofondatrice del sito Boing Boing, 43 anni, nominata da «Fortune» tra i 10 blogger che tutti gli uomini d’affari dovrebbero seguire, ha scelto di condividere con i suoi lettori la prima mammografia: le motivazioni, la scelta dell’ospedale, il momento prima di entrare, l’attesa del responso. Tumore maligno alla mammella. Lo spirito da reporter ha fin dall’inizio prevalso sulla privacy e sulla paura, e Jardin — nata Xeniflóres Hamm a Richmond, Virginia — ha avviato una cronaca quotidiana della malattia via Twitter. «È come occuparsi di un servizio che non ti piace commissionato da un editor con cui non puoi litigare», ha detto al «Los Angeles Times».
Non c’è solo desiderio di conforto in quel «flusso incondizionato di amore e supporto che arriva quotidianamente dagli sconosciuti»,ma un’attitudine professionale alla narrazione. La stessa che si ritrova nel giornalista della National Public Radio, Scott Simon, che ha raccontato in 140 caratteri a getto continuo gli ultimi giorni della madre, Patricia Lyons, ex showgirl morta il 29 luglio, a 84 anni, dopo una settimana di cure ospedaliere. «Non so come affronteremo questi giorni — ha scritto il conduttore americano al suo milione di follower all’arrivo in ospedale — ma so che non voglio che finiscano». Alcuni, la rivista online «Slate» per esempio, hanno criticato Simon, accusandolo di «spettacolarizzazione del dolore».
Eppure, attraverso quei tweet, così poetici e umani, dove le freddure della mamma morente si univano a considerazioni sull’amore eterno, si è creata, giorno dopo giorno, una comunità di persone unite solo dal sentire comune. «Non credo che mia madre sapesse molto di Twitter e social media — ha raccontato Simon —, ma quando le leggevo messaggi indirizzati a lei che arrivavano dall’Australia, dalla Gran Bretagna o da Singapore, si emozionava molto».
Secondo Pamela Rutledge, direttrice del Media Psychology Research Center di Boston, autenticità e relazioni sono i due elementi che caratterizzano il buon utilizzo dei social media: «Il pubblico — interessato alle vicende e al punto di vista di Simon — viene nutrito da una miscela perfetta di grazia, umiltà ed emozioni reali, che testimoniano sia il rapporto speciale e universale che unisce una madre a un figlio, sia il potere della comunicazione». Nel caos delle conversazioni online, dove si mescolano verità, bugie, poesie ed hate speech, è possibile creare varchi di intimità. Ancora una volta: il messaggio non è il mezzo, ma ciò che il singolo decide. «L’utilizzo di Twitter fatto da Simon— continua Rutledge — sfida lo stereotipo che vede nei social network mezzi superficiali, lontani dalle emozioni vere e incapaci di creare una narrativa. Se i suoi tweet non ti provocano lacrime, non sei umano».
Perfino i redditor (i frequentatori della piattaforma di social news Reddit) più duri e arrabbiati si sono commossi quando, quattro mesi fa, un utente ha condiviso le foto del progetto The Battle We Didn’t Choose (la battaglia che non abbiamo scelto) del fotografo Angelo Merendino, che ha documentato, immagine dopo immagine, giorno dopo giorno, la vita della giovane moglie malata di cancro.
Internet e piattaforme digitali — che pure si fondano sul principio della condivisione — non c’entrano: la condivisione delle emozioni proviene da una visione del lutto e del dolore che ha accompagnato per secoli la società.
In The Long Goodbye Meghan O’Rourke sostiene che, a causa delle più lunghe aspettative di vita, dell’ospedalizzazione della malattia e dei ritmi frenetici della vita quotidiana, nel ventesimo secolo le persone hanno disimparato ad affrontare il lutto, che è diventato qualcosa di «proibito e di cui vergognarsi». «Il dolore è un’esperienza troppo solitaria oggi — ha scritto l’autrice sul “New Yorker” — ma Facebook e Twitter sono luoghi dove i familiari possono trovare una comunità, moltitudini di sconosciuti disposti a pregare per loro». È d’accordo Michele Nealon-Woods, presidente della Chicago School of Professional Psychology: «L’essere umano è portato a condividere le emozioni, particolarmente quelle negative, con gli altri. È molto positivo fare esperienza del nostro dolore, comunicarlo e condividerlo. Grazie ai social media, “gli altri” non sono più solo familiari e amici ma anche gli sconosciuti». Attraverso il racconto di una storia «vera», i follower su Twitter, Instagram o Pinterest, gli «amici» su Facebook, diventano partecipi di un’emozione che, pur restando personale, si fa collettiva. Insieme ai confini tra pubblico e privato, si ridisegnano quelli tra conosciuto e sconosciuto. Nel progetto Touching Strangers, il fotografo americano Richard Renaldi ha ritratto in atteggiamenti affettuosi coppie di sconosciuti scelti per le strade d’America: abbracciati, mano nella mano, occhi negli occhi. All’inizio i protagonisti sembrano spaventati, poi, guidati dal fotografo, si sono abbandonati l’uno all’altro. Il risultato sono immagini che sembrano ritrarre persone che si conoscono da sempre.
Se le narrazioni di dolore e lutto hanno dunque un innegabile potere catartico e collante tra le persone, le storie di gioia e successo personale stentano a diventare virali. Ci sono esperienze che hanno avuto un discreto successo online — dalla coppia che sta raccontando il giro del mondo con l’account @traveling9to5 ai musicisti Mary Wycherley e Martin Carr che hanno descritto via Twitter la nascita del primo figlio — ma nessuno riesce a creare lo stesso engagement tra i lettori: «Le gioie personali non creano empatia — spiega la psicologa — al contrario delle storie felici che riguardano altre persone e restituiscono fiducia nell’umanità: sono i simboli della speranza nel futuro e nell’uomo che diventano virali e contagiosi». Il resto è narcisismo.
«Corriere della Sera - suppl. La lettura» dell'11 agosto 2013

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