23 ottobre 2012

L’abuso politico del cancro

La pigrizia delle metafore, l’altalena fra allarmismo e sottostima dei rischi
di Pierluigi Battista
Proclami demagogici e semplificazioni dei media provocano disagio nelle persone che soffrono 
Molte persone, per evidenti ragioni autobiografiche, perché sono malate o vivono con persone malate oppure hanno perduto qualcuno a causa di una malattia grave e non curabile, non amano veder ostentato il «tumore» come arma di lotta politica.
Si capisce, e lo ha scritto mirabilmente Susan Sontag, che il cancro funziona perfettamente «come metafora» e che si attinge spesso in modo spensierato e come consuetudine lessicale automatica alla «mitologia del cancro». Ma un uso così strumentale del cancro, una smodatezza lessicale così ostentata, come ha scritto anche Stefania Ulivi nella «27esima ora» del Corriere.it, appare offensiva e stridente. E non perché si rimpianga il tempo antico dell’ipocrisia in cui la parola «cancro» era addirittura innominabile e ci si premurava di cancellare il vocabolo sussurrando allusivi eufemismi, ma perché l’uso politico del tumore banalizza tutto, azzera la realtà della sofferenza, fa sentire chi sta male o chi è vicino a chi sta male un ostaggio nelle mani di contendenti davvero poco rispettosi.
Renata Polverini merita rispetto per i tumori che le sono stati asportati, ma quando ha impostato la sua requisitoria alla Regione Lazio contro gli indecenti predatori dei contributi pubblici ai partiti, ha voluto deliberatamente, per dare ancora più enfasi al suo discorso, calcare la mano sui «tumori da estirpare» anche in sede politica. Ha esagerato e molti malati di tumore, ascoltando le sue parole, hanno provato un profondo ed inesprimibile disagio. Un disagio difficile da razionalizzare, ma autentico e intenso. Attorno al cancro - è sempre Susan Sontag ad aver analizzato gli usi della lingua corrente sul cancro nel suo Malattia come metafora - si addensano con grande facilità espressioni e locuzioni ricavate dal gergo militare. E forse nella Polverini, che spronava a «sradicare» i tumori, parlava un luogo comune molto frequentato nel nostro vocabolario emotivo: le cellule cancerose che «invadono», che «colonizzano » il corpo. E le «difese» che si apprestano per combattere «l’invasione tumorale» e i pazienti che vengono «bombardati» con la chemio o con i raggi, e gli agenti patogeni che «si infiltrano», e la terapia che «annienta» le cellule, l’intervento chirurgico che «sradica» o «estirpa» il cancro, eccetera eccetera. Una banale ripetizione di un luogo comune. Però, a lungo andare, e usato in un conteso discutibile, quel luogo comune può suonare irritante, impertinente, inopportuno. Persino offensivo.
Ma non è solo di parole «malate» che si ciba l’uso politico del tumore, o la «malattia come metafora». Per esempio nella leggerezza con cui vengono rilasciati dati allarmistici sulla presunta potenzialità cancerogena di sostanze, o nell’analoga leggerezza con cui vengono contestati quegli stessi dati dal fronte opposto, si ha l’impressione che si stia giocando una partita senza nessun rispetto per i malati, per chi è morto o per chi potrebbe morire a seconda della veridicità o della falsità di quei dati. Lo si è visto a Taranto, a proposito della tossicità dello stabilimento siderurgico dell’Ilva. Qui i dati ballano, vengono afferrati, manipolati, dilatati, ristretti, minimizzati, enfatizzati con una disinvoltura che fa spavento. Circolano dati in cui appare macroscopica la maggior incidenza dei tumori a Taranto. Ma circolano dati dal significato opposto, che raccontano invece di un’incidenza dei tumori a Taranto minore che in altre parti d’Italia. Non è solo il dilemma che dovrebbe interrogare chiunque non abbia una posizione preconcetta: a chi dare credito? È lo sconcerto per la facilità con cui, da ambo le parti, vengono scagliati dati contrabbandati come certi e incontrovertibili. E insieme è la sensazione che anche lì si assista sgomenti a un uso politico dei numeri e delle statistiche, con dati di un certo tipo se sono agitati da chi vorrebbe la chiusura immediata dell’Ilva e dati di tipo opposto messi sul tappeto da chi non vorrebbe spegnere gli altiforni di Taranto. E i malati? E le loro famiglie? E i vedovi e le vedove e chi ha addirittura perso un figlio? Sono fuori da questa competizione, giocati come dadi in una partita in cui non esiste più l’umanità concreta di chi soffre o di chi ha sofferto e ha finito di soffrire dentro una tomba.
E la leggerezza con cui sono stati diffusi altri dati, stavolta sulla nocività cancerogena degli Ogm? E la leggerezza con cui quelli che da sempre sono contro gli Ogm hanno accolto queste ricerche come fossero la verità, o il sussiego di chi da sempre difende gli Ogm e dunque non può che contestare a priori quei dati? Non è la scienza che parla. È il pregiudizio, l’ideologia. Ma chi si è ammalato di un tumore ha bisogno di scienza, non di pregiudizi, di ideologia, di dati forniti e pubblicati con leggerezza, commentati con distrazione, accolti come uno dei tanti «allarmi» ed «emergenze» che costellano l’informazione dei media contemporanei.
Per questo bisognerebbe essere più cauti, più rispettosi. Capire che numeri dati a casaccio o metafore usate con faciloneria nel linguaggio politico possono far male, possono aggiungere angoscia e incertezza. Bandire l’uso politico del tumore sarebbe una svolta di civiltà. Non una riedizione delle buone maniere, ma la convinzione che il rispetto per chi soffre dovrebbe essere ovvio per tutti. Per tutti, nessuno escluso. E non occorre nemmeno tanta fatica per capirlo.

Corriere della sera - Suppl. La lettura» del 7 ottobre 2012

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