Il nuovo manuale ridefinisce la malattia mentale. Protestano i medici: raccolte oltre 14 mila firme
di Francesca Ronchin
A maggio del 2013 arriverà l’ultima edizione del «Dsm», la «Bibbia» americana della psichiatria, già finita al centro delle polemiche. Mobilitazione in tutto il mondo: «Così il disagio diventa un’epidemia»
Mettiamo un vago senso di ansia che qualcosa di negativo stia per accadere. Oppure quel bisogno irresistibile di fare shopping o un’ora di corsa dopo il lavoro perché senza si sta peggio. Prendiamo continui sbalzi d’umore in uno stato di diffusa irritabilità. Tra pochi mesi potrebbero diventare delle vere malattie mentali. Non più semplici debolezze o inclinazioni caratteriali ma «disturbo generalizzato di ansia», «dipendenze comportamentali» e «disturbo dirompente di disregolazione dell’umore».
Un’ondata di etichette in arrivo dagli Stati Uniti a mano a mano che si avvicina maggio 2013, data prevista dell’uscita del Dsm-V, la quinta edizione del manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali, la bibbia della psichiatria redatta dall’Apa, American Psychiatric Association, e utilizzata in tutto il mondo. È il manuale che viene consultato per fare le diagnosi, prescrivere farmaci e, specie in America, fornire quel codice tassonomico che tanto serve alle assicurazioni. Non è l’unico sistema di classificazione delle malattie, in virtù di accordi con l’Organizzazione mondiale della sanità, il sistema sanitario italiano segue l’Icd (International classification of diseases), ma il Dsm è più influente a causa del ruolo di prestigio degli Stati Uniti nella ricerca scientifica. Non solo, è anche il testo sul quale i tribunali basano le loro sentenze e che orienta le ricerche delle case farmaceutiche. Pubblicato per la prima volta nel 1952, 150 pagine e 128 disturbi, negli anni si è arrivati alle 900 pagine e alle 365 malattie del Dsm-IV-Tr («text revised»), tuttora in uso.
Ad ogni nuova edizione il Dsm fa parlare di sé ma è la prima volta che suscita tanto clamore, al punto che l’uscita è stata rimandata dopo che il sito con la bozza (www.dsm5.org) è stato raggiunto da 50 milioni di contatti e 25mila critiche. La paura di scienziati e filosofi è che il nuovo Dsm-V provochi un’esplosione di malati e terapie farmacologiche in un momento in cui, secondo dati del National Institute of Mental Health, solo negli Usa, un adulto su 4 si vede diagnosticare un qualche disordine mentale e uno su 5 assume psicofarmaci. In prima linea l’American Psychological Association che ha indetto una petizione appoggiata da altre 50 associazioni e 14 mila firmatari. A preoccupare non sarebbero solo i «nuovi disordini» ma il generale abbassamento della soglia diagnostica per patologie già esistenti. Sintomi più lievi e di minor durata perché basta cambiare un numero, portare da 7 a 12 l’età di insorgenza di un episodio di iperattività per far scattare la diagnosi di Adhd (Attention deficit and hiperactivity disorder) e quindi trasformare milioni di bambini vivaci in pazienti da curare con stimolanti.
«Si rischia un’epidemia di falsi positivi — spiega Allen Frances, professore emerito della Duke University — soggetti che soddisfano i criteri diagnostici senza in realtà essere malati». Un fenomeno già verificatosi con il Dsm-IV, redatto proprio dallo stesso Frances che da allora ha fatto della difesa della normalità la sua battaglia. Complice il tam tam sui media di mezzo mondo, i risultati ci sono stati. Il lutto ad esempio. Il nuovo Dsm-V voleva introdurlo come forma di depressione maggiore, la cui diagnosi può scattare dopo un periodo di sole due settimane. Di fronte all’orrore generale, l’Apa ha pensato bene di fare marcia indietro in nome di «una più attenta revisione delle evidenze scientifiche». Dietrofront anche sulla «sindrome da psicosi attenuata» che avrebbe potuto stigmatizzare milioni di persone eccentriche ma non scollegate dalla realtà. Così come per la «dipendenza comportamentale» circoscritta, per ora, al solo gioco d’azzardo. Resta fuori la dipendenza da Internet anche se il prematuro battesimo ha già dato il via a un’infinità di pubblicazioni e proposte terapeutiche, complice il cambio di terminologia. Non più «dependence» ma «addiction» così da equiparare Internet e simili a vere e proprie droghe.
«Stiamo procedendo con lamassima attenzione — spiega David Kupfer, responsabile della Task Force Dsm-V dell’Apa — non solo per evitare che le diagnosi siano troppe, ma anche troppo poche». E anche se «alcuni segnali positivi ci sono — ammette Allen Frances — i rischi restano. In particolare la patologizzazione degli scatti d’ira dei bambini, l’introduzione del lieve disturbo neuro-cognitivo negli anziani e del “binge eating”, come se dimenticare le cose o qualche incursione notturna in cucina siano condizione sufficiente per ritenersi malati. Se devo dirla tutta, con il Dsm-III saremmo più che a posto». Una provocazione forse, ma neanche tanto. «Il Dsm-V era nato dall’idea di identificare un marker biologico che permettesse di costruire anche in psichiatria diagnosi specifiche così come accade nelle altre branche della medicina — spiega Giovanni Muscettola, ordinario di Psichiatria presso l’Università Federico II di Napoli —, purtroppo non siamo ancora a questo punto».
In sostanza, i passi in avanti di psichiatria e neuroscienze non sarebbero tali da determinare una rivoluzione nella diagnosi delle malattie mentali, anzi, proprio in assenza di indicatori oggettivi che segnino il confine tra normale e patologico sarebbe possibile estendere i confini diagnostici in un modo che in altre branche della medicina sarebbe improponibile. «Criticare il Dsm è diventato una moda — spiega Muscettola— ma di certo l’eccessiva psichiatrizzazione di ogni disagio ha alimentato l’antipsichiatria e ci ha reso meno credibili. Una cosa è la malattia mentale, un’altra il disagio». Proprio l’inquadramento biologico della sofferenza psichica, sarebbe uno dei punti criticati dalla Petizione degli Psicologi dove si rivendica l’importanza della componente socioculturale.
Lou Marinoff, filosofo e autore del bestseller mondiale Platone è meglio del Prozac, ne sa qualcosa. «Molte malattie mentali sono disagi di derivazione culturale che una volta non c’erano: dalle disfunzioni sessuali ai disturbi alimentari. I bambini di oggi fanno fatica a concentrarsi non perché sono tutti malati di Adhd bensì perché le modalità di apprendimento sono per lo più visive e uditive, il che riduce drasticamente la durata dell’attenzione. Altra grande “epidemia” è quella di obesità, ma ci si dimentica che non è una malattia bensì un sintomo e se lamedicina confonde le cause con la loro manifestazione, come si può pensare che le cure proposte siano efficaci?». Specialmente se è vero che gli psicofarmaci sarebbero poco più di un placebo, come sostenuto dallo scienziato Irving Kirsch, e se si guarda all’attuale ricerca farmacologica in ambito psichiatrico che, dopo l’entusiasmo degli anni 80, starebbe vivendo una battuta di arresto. Se lemalattie mentali aumentano, i farmaci per curarle sarebbero sempre gli stessi, antipsicotici in testa, mentre il mercato si riempie di me too drugs, farmaci fotocopia di quelli esistenti. La colpa della frenata di investimenti da parte di Big Pharma, ha spiegato l’ex direttore del Nimh Steven Hyman, sarebbe del cervello che, neanche a dirlo, continua a essere troppo complesso.
E proprio per meglio rappresentare «l’evasività» della malattia mentale, il nuovo Dsm-V rivoluziona l’attuale approccio categoriale aggiungendone uno dimensionale. Normalità e patologia come parti di uno stesso spettro favorendo, in questo modo, l’identificazione delle forme attenuate, sottosoglia e quindi la prevenzione. Un passo in avanti anche se il rischio, secondo i critici, è quello di esasperare la medicalizzazione intercettando condizioni che in realtà potrebbero essere transitorie. «Per fare una diagnosi come si deve — spiega Alessandro Rossi, ordinario di Psichiatra presso l’Università dell’Aquila — bisognerebbe effettuare un’intervista strutturata di un’ora. Cosa che nella pratica avverrà nel 20-30% dei casi. In 20 minuti un medico deve fare troppe cose e il Dsm non ha neanche il tempo di aprirlo. Se venisse usato come si deve, probabilmente vi sarebbero meno malati e meno farmaci». Insomma, il punto sarebbe che il Dsm non lo si usa troppo, ma troppo poco. Specialmente in America dove visite di 15 minuti con tanto di ricetta sono pagate tre volte tanto rispetto a quelle da 45 a orientamento psicoterapeutico, servizio che ormai offrirebbe poco meno del 10% degli psichiatri. Non solo, perché i farmaci possano essere scaricabili, le assicurazioni richiedono il codice diagnostico del Dsm delineando un sistema costruito su misura loro e delle case farmaceutiche.
Non stupisce allora — come rilevato da Lisa Cosgrove, dell’Edmond J. Safra Center for Ethics della Harvard University — che il 69% degli psichiatri alle prese con il Dsm-V avrebbe legami con l’industria. Non è d’accordo però Allen Frances secondo cui il vero conflitto sarebbe di ordine intellettuale, quello di una disciplina troppo compiaciuta nelle sue categorie. «Da tempo sollecito, invano, l’ingresso di un’agenzia esterna e indipendente che supervisioni la redazione del Dsm — conclude —, spero che la pubblicazione del manuale venga rimandata». Una prospettiva che l’Apa al momento esclude. «Le varie proposte sono state viste e riviste molte volte — spiega David Kupfer — sulla base della letteratura, dei risultati delle sperimentazioni sul campo e dei commenti ricevuti dal pubblico. L’obiettivo è quello di trasformare il Dsm in un “documento vivente” dove ogni aggiornamento periodico sarà identificato come Dsm-V.1, V.2 ecc.». Insomma, si pensa già al sequel, perché il Dsm vende milioni di copie e per l’Apa, che ne detiene il copyright, è una grossa fonte di guadagno.
Ma oltre ad essere un’operazione che non prescinde da aspetti commerciali, c’è chi la definisce addirittura «pseudoscientifica». «Il Dsm è l’unico caso in cui una pubblicazione scientifica è decisa per votazione democratica — sostiene Lou Marinoff —. È un testo politico. Basti pensare al fatto che l’omosessualità è stata considerata una malattia mentale fino al 1973, anno in cui è stata rimossa in seguito all’aumentata influenza della lobby gay, non certo in seguito a “evidenze scientifiche”. Del resto, l’impatto che l’opinione pubblica ha avuto in questi ultimi mesi non è che una ulteriore conferma. Se il malumore continua, arriveranno altre modifiche».
Ad ogni nuova edizione il Dsm fa parlare di sé ma è la prima volta che suscita tanto clamore, al punto che l’uscita è stata rimandata dopo che il sito con la bozza (www.dsm5.org) è stato raggiunto da 50 milioni di contatti e 25mila critiche. La paura di scienziati e filosofi è che il nuovo Dsm-V provochi un’esplosione di malati e terapie farmacologiche in un momento in cui, secondo dati del National Institute of Mental Health, solo negli Usa, un adulto su 4 si vede diagnosticare un qualche disordine mentale e uno su 5 assume psicofarmaci. In prima linea l’American Psychological Association che ha indetto una petizione appoggiata da altre 50 associazioni e 14 mila firmatari. A preoccupare non sarebbero solo i «nuovi disordini» ma il generale abbassamento della soglia diagnostica per patologie già esistenti. Sintomi più lievi e di minor durata perché basta cambiare un numero, portare da 7 a 12 l’età di insorgenza di un episodio di iperattività per far scattare la diagnosi di Adhd (Attention deficit and hiperactivity disorder) e quindi trasformare milioni di bambini vivaci in pazienti da curare con stimolanti.
«Si rischia un’epidemia di falsi positivi — spiega Allen Frances, professore emerito della Duke University — soggetti che soddisfano i criteri diagnostici senza in realtà essere malati». Un fenomeno già verificatosi con il Dsm-IV, redatto proprio dallo stesso Frances che da allora ha fatto della difesa della normalità la sua battaglia. Complice il tam tam sui media di mezzo mondo, i risultati ci sono stati. Il lutto ad esempio. Il nuovo Dsm-V voleva introdurlo come forma di depressione maggiore, la cui diagnosi può scattare dopo un periodo di sole due settimane. Di fronte all’orrore generale, l’Apa ha pensato bene di fare marcia indietro in nome di «una più attenta revisione delle evidenze scientifiche». Dietrofront anche sulla «sindrome da psicosi attenuata» che avrebbe potuto stigmatizzare milioni di persone eccentriche ma non scollegate dalla realtà. Così come per la «dipendenza comportamentale» circoscritta, per ora, al solo gioco d’azzardo. Resta fuori la dipendenza da Internet anche se il prematuro battesimo ha già dato il via a un’infinità di pubblicazioni e proposte terapeutiche, complice il cambio di terminologia. Non più «dependence» ma «addiction» così da equiparare Internet e simili a vere e proprie droghe.
«Stiamo procedendo con lamassima attenzione — spiega David Kupfer, responsabile della Task Force Dsm-V dell’Apa — non solo per evitare che le diagnosi siano troppe, ma anche troppo poche». E anche se «alcuni segnali positivi ci sono — ammette Allen Frances — i rischi restano. In particolare la patologizzazione degli scatti d’ira dei bambini, l’introduzione del lieve disturbo neuro-cognitivo negli anziani e del “binge eating”, come se dimenticare le cose o qualche incursione notturna in cucina siano condizione sufficiente per ritenersi malati. Se devo dirla tutta, con il Dsm-III saremmo più che a posto». Una provocazione forse, ma neanche tanto. «Il Dsm-V era nato dall’idea di identificare un marker biologico che permettesse di costruire anche in psichiatria diagnosi specifiche così come accade nelle altre branche della medicina — spiega Giovanni Muscettola, ordinario di Psichiatria presso l’Università Federico II di Napoli —, purtroppo non siamo ancora a questo punto».
In sostanza, i passi in avanti di psichiatria e neuroscienze non sarebbero tali da determinare una rivoluzione nella diagnosi delle malattie mentali, anzi, proprio in assenza di indicatori oggettivi che segnino il confine tra normale e patologico sarebbe possibile estendere i confini diagnostici in un modo che in altre branche della medicina sarebbe improponibile. «Criticare il Dsm è diventato una moda — spiega Muscettola— ma di certo l’eccessiva psichiatrizzazione di ogni disagio ha alimentato l’antipsichiatria e ci ha reso meno credibili. Una cosa è la malattia mentale, un’altra il disagio». Proprio l’inquadramento biologico della sofferenza psichica, sarebbe uno dei punti criticati dalla Petizione degli Psicologi dove si rivendica l’importanza della componente socioculturale.
Lou Marinoff, filosofo e autore del bestseller mondiale Platone è meglio del Prozac, ne sa qualcosa. «Molte malattie mentali sono disagi di derivazione culturale che una volta non c’erano: dalle disfunzioni sessuali ai disturbi alimentari. I bambini di oggi fanno fatica a concentrarsi non perché sono tutti malati di Adhd bensì perché le modalità di apprendimento sono per lo più visive e uditive, il che riduce drasticamente la durata dell’attenzione. Altra grande “epidemia” è quella di obesità, ma ci si dimentica che non è una malattia bensì un sintomo e se lamedicina confonde le cause con la loro manifestazione, come si può pensare che le cure proposte siano efficaci?». Specialmente se è vero che gli psicofarmaci sarebbero poco più di un placebo, come sostenuto dallo scienziato Irving Kirsch, e se si guarda all’attuale ricerca farmacologica in ambito psichiatrico che, dopo l’entusiasmo degli anni 80, starebbe vivendo una battuta di arresto. Se lemalattie mentali aumentano, i farmaci per curarle sarebbero sempre gli stessi, antipsicotici in testa, mentre il mercato si riempie di me too drugs, farmaci fotocopia di quelli esistenti. La colpa della frenata di investimenti da parte di Big Pharma, ha spiegato l’ex direttore del Nimh Steven Hyman, sarebbe del cervello che, neanche a dirlo, continua a essere troppo complesso.
E proprio per meglio rappresentare «l’evasività» della malattia mentale, il nuovo Dsm-V rivoluziona l’attuale approccio categoriale aggiungendone uno dimensionale. Normalità e patologia come parti di uno stesso spettro favorendo, in questo modo, l’identificazione delle forme attenuate, sottosoglia e quindi la prevenzione. Un passo in avanti anche se il rischio, secondo i critici, è quello di esasperare la medicalizzazione intercettando condizioni che in realtà potrebbero essere transitorie. «Per fare una diagnosi come si deve — spiega Alessandro Rossi, ordinario di Psichiatra presso l’Università dell’Aquila — bisognerebbe effettuare un’intervista strutturata di un’ora. Cosa che nella pratica avverrà nel 20-30% dei casi. In 20 minuti un medico deve fare troppe cose e il Dsm non ha neanche il tempo di aprirlo. Se venisse usato come si deve, probabilmente vi sarebbero meno malati e meno farmaci». Insomma, il punto sarebbe che il Dsm non lo si usa troppo, ma troppo poco. Specialmente in America dove visite di 15 minuti con tanto di ricetta sono pagate tre volte tanto rispetto a quelle da 45 a orientamento psicoterapeutico, servizio che ormai offrirebbe poco meno del 10% degli psichiatri. Non solo, perché i farmaci possano essere scaricabili, le assicurazioni richiedono il codice diagnostico del Dsm delineando un sistema costruito su misura loro e delle case farmaceutiche.
Non stupisce allora — come rilevato da Lisa Cosgrove, dell’Edmond J. Safra Center for Ethics della Harvard University — che il 69% degli psichiatri alle prese con il Dsm-V avrebbe legami con l’industria. Non è d’accordo però Allen Frances secondo cui il vero conflitto sarebbe di ordine intellettuale, quello di una disciplina troppo compiaciuta nelle sue categorie. «Da tempo sollecito, invano, l’ingresso di un’agenzia esterna e indipendente che supervisioni la redazione del Dsm — conclude —, spero che la pubblicazione del manuale venga rimandata». Una prospettiva che l’Apa al momento esclude. «Le varie proposte sono state viste e riviste molte volte — spiega David Kupfer — sulla base della letteratura, dei risultati delle sperimentazioni sul campo e dei commenti ricevuti dal pubblico. L’obiettivo è quello di trasformare il Dsm in un “documento vivente” dove ogni aggiornamento periodico sarà identificato come Dsm-V.1, V.2 ecc.». Insomma, si pensa già al sequel, perché il Dsm vende milioni di copie e per l’Apa, che ne detiene il copyright, è una grossa fonte di guadagno.
Ma oltre ad essere un’operazione che non prescinde da aspetti commerciali, c’è chi la definisce addirittura «pseudoscientifica». «Il Dsm è l’unico caso in cui una pubblicazione scientifica è decisa per votazione democratica — sostiene Lou Marinoff —. È un testo politico. Basti pensare al fatto che l’omosessualità è stata considerata una malattia mentale fino al 1973, anno in cui è stata rimossa in seguito all’aumentata influenza della lobby gay, non certo in seguito a “evidenze scientifiche”. Del resto, l’impatto che l’opinione pubblica ha avuto in questi ultimi mesi non è che una ulteriore conferma. Se il malumore continua, arriveranno altre modifiche».
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» del 7 ottobresettembre 2012
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