Matrimonio, omosessualità e verità umana
di Francesco D'Agostino
Luigi Urru, antropologo culturale dell’Università di Milano Bicocca, mi scrive per criticare la perentorietà con la quale ho affermato, su queste colonne lo scorso 18 luglio, che «il matrimonio è uno e uno soltanto in tutte le culture e in tutti i tempi». Le cose non starebbero affatto così: basterebbe la succinta rassegna etnografica delle diverse tipologie familiari fatta da Francesco Remotti nel volume “Contro natura” per convincere tutti (me compreso) dell’esatto contrario.
Accetto di buon grado l’augurio di buona lettura che mi rivolge Urru, con un pizzico di garbata ironia, ma non per quel che riguarda il libro di Remotti, al quale a suo tempo (per l’esattezza il 7 marzo 2008) ho dedicato la dovuta attenzione, con un articolo, pubblicato da “Avvenire” dal titolo (ovviamente redazionale) «L’antropologo scava la fossa alla famiglia». Mi sono appassionato alle diverse (e per noi terribilmente esotiche) pratiche familiari dei Na, dei Nayar, dei Nyimba, dei Lele, dei Senufo, dei Wahehe, ecc., che Remotti cita per dare consistenza a questa sua tesi: la famiglia, non solo come istituto di diritto naturale, ma addirittura come concetto unitario, non esisterebe; al più si potrebbero individuare nelle varie culture «gruppi domestici», cioè diverse tipologie di aggregazioni sociali, che avrebbero una qualche somiglianza tra di loro.
Rimando Urru, augurandogli a mia volta “buona lettura”, a quel mio articolo, che peraltro ho successivamente ripreso in un libro che ho dedicato alla filosofia della famiglia e che Urru, se vorrà, non avrà difficoltà a procurarsi. Vorrei semplicemente sfruttare questa occasione per riconoscere che sul piano etnografico Urru, Remotti e tanti altri etnologi che hanno scritto prima di loro hanno ragione da vendere. Tutte le pratiche (se vogliamo chiamarle così) elaborate nella storia dalle diverse culture, dal linguaggio alla religione, dall’arte alla politica, dal diritto al lavoro, fino all’articolazione stessa dei valori e dei sentimenti, sono caratterizzate da infinite gradazioni e variabilità. Gli etnografi fanno bene a ricordarcelo, per impedirci di cedere alle suggestioni di un giusnaturalismo “ingenuo”, pronto a qualificare le “nostre” pratiche come “naturali” e quelle altrui come “contro natura”.
Ciò detto, resta come un punto fermo di carattere antropologico (e qui l’antropologia filosofica aggiunge la sua voce a quella dell’antropologia culturale) che tutte le pratiche culturali sono espressione di poche, essenziali, “vere” esigenze umane fondamentali: la comunicazione per il linguaggio, la coesistenza per il diritto, la salvezza per la religione, la bellezza per l’arte, l’identità trans–generazionale per la famiglia. Se si arriva a riconoscere tutto questo, è necessario fare poi un ulteriore passo avanti, molto impegnativo, ma ineludibile: non tutte le pratiche culturali riescono nella storia a tutelare e a promuovere con la stessa efficacia le comuni esigenze umane fondamentali cui si è accennato. L’ antropologia ha pienamente ragione quando sottolinea la pari dignità di tutte le culture, ma ha torto – trasformandosi in un indebito relativismo antropologico – quando cerca di dimostrare che tutte le culture hanno la stessa capacità espressiva: è la stessa “storia” a fare giustizia delle forme di cultura più deboli, facendo emergere, consolidare e diffondere le forme di cultura che più si avvicinano alla “verità” dell’uomo (senza mai peraltro poterla esaurire).
E’ in tal senso che va letta l’espressione, indubbiamente imprecisa, che ho utilizzato e che Urru mi rimprovera. Se in prospettiva etnografica è scorretto affermare, come ho fatto io, che il matrimonio «è uno e uno soltanto» in tutte le culture, non lo è in una prospettiva di antropologia filosofica, perché la verità dell’uomo non consiste solo nelle relazioni affettive e amicali (che possono essere anche omofile), ma nella sua vocazione generazionale (che invece è preclusa alle coppie omosessuali, se non al prezzo di palesi manipolazioni del vivente). Tutte le culture dimostrano, per il solo fatto di sopravvivere, di avere a cuore la loro sopravvivenza e tutte le culture creano istituzioni sociali finalizzate a questo scopo, all’interno delle quali l’omosessualità non ha riconoscimento pubblico.
Che oggi sia dilagante la propensione a chiamare “matrimonio” un rapporto omosessuale (per quanto profondo esso possa essere) dimostra soltanto come, in questa fase della sua storia, l’Occidente, minimizzando la vocazione generativa del matrimonio, stia perdendo il senso del futuro. E’ su questo, più che sulle pur affascinanti pratiche culturali dei Na, dei Nayar, dei Nyimba, dei Lele, dei Senufo, dei Wahehe, ecc. ecc., che dovremmo tutti seriamente misurarci.
Accetto di buon grado l’augurio di buona lettura che mi rivolge Urru, con un pizzico di garbata ironia, ma non per quel che riguarda il libro di Remotti, al quale a suo tempo (per l’esattezza il 7 marzo 2008) ho dedicato la dovuta attenzione, con un articolo, pubblicato da “Avvenire” dal titolo (ovviamente redazionale) «L’antropologo scava la fossa alla famiglia». Mi sono appassionato alle diverse (e per noi terribilmente esotiche) pratiche familiari dei Na, dei Nayar, dei Nyimba, dei Lele, dei Senufo, dei Wahehe, ecc., che Remotti cita per dare consistenza a questa sua tesi: la famiglia, non solo come istituto di diritto naturale, ma addirittura come concetto unitario, non esisterebe; al più si potrebbero individuare nelle varie culture «gruppi domestici», cioè diverse tipologie di aggregazioni sociali, che avrebbero una qualche somiglianza tra di loro.
Rimando Urru, augurandogli a mia volta “buona lettura”, a quel mio articolo, che peraltro ho successivamente ripreso in un libro che ho dedicato alla filosofia della famiglia e che Urru, se vorrà, non avrà difficoltà a procurarsi. Vorrei semplicemente sfruttare questa occasione per riconoscere che sul piano etnografico Urru, Remotti e tanti altri etnologi che hanno scritto prima di loro hanno ragione da vendere. Tutte le pratiche (se vogliamo chiamarle così) elaborate nella storia dalle diverse culture, dal linguaggio alla religione, dall’arte alla politica, dal diritto al lavoro, fino all’articolazione stessa dei valori e dei sentimenti, sono caratterizzate da infinite gradazioni e variabilità. Gli etnografi fanno bene a ricordarcelo, per impedirci di cedere alle suggestioni di un giusnaturalismo “ingenuo”, pronto a qualificare le “nostre” pratiche come “naturali” e quelle altrui come “contro natura”.
Ciò detto, resta come un punto fermo di carattere antropologico (e qui l’antropologia filosofica aggiunge la sua voce a quella dell’antropologia culturale) che tutte le pratiche culturali sono espressione di poche, essenziali, “vere” esigenze umane fondamentali: la comunicazione per il linguaggio, la coesistenza per il diritto, la salvezza per la religione, la bellezza per l’arte, l’identità trans–generazionale per la famiglia. Se si arriva a riconoscere tutto questo, è necessario fare poi un ulteriore passo avanti, molto impegnativo, ma ineludibile: non tutte le pratiche culturali riescono nella storia a tutelare e a promuovere con la stessa efficacia le comuni esigenze umane fondamentali cui si è accennato. L’ antropologia ha pienamente ragione quando sottolinea la pari dignità di tutte le culture, ma ha torto – trasformandosi in un indebito relativismo antropologico – quando cerca di dimostrare che tutte le culture hanno la stessa capacità espressiva: è la stessa “storia” a fare giustizia delle forme di cultura più deboli, facendo emergere, consolidare e diffondere le forme di cultura che più si avvicinano alla “verità” dell’uomo (senza mai peraltro poterla esaurire).
E’ in tal senso che va letta l’espressione, indubbiamente imprecisa, che ho utilizzato e che Urru mi rimprovera. Se in prospettiva etnografica è scorretto affermare, come ho fatto io, che il matrimonio «è uno e uno soltanto» in tutte le culture, non lo è in una prospettiva di antropologia filosofica, perché la verità dell’uomo non consiste solo nelle relazioni affettive e amicali (che possono essere anche omofile), ma nella sua vocazione generazionale (che invece è preclusa alle coppie omosessuali, se non al prezzo di palesi manipolazioni del vivente). Tutte le culture dimostrano, per il solo fatto di sopravvivere, di avere a cuore la loro sopravvivenza e tutte le culture creano istituzioni sociali finalizzate a questo scopo, all’interno delle quali l’omosessualità non ha riconoscimento pubblico.
Che oggi sia dilagante la propensione a chiamare “matrimonio” un rapporto omosessuale (per quanto profondo esso possa essere) dimostra soltanto come, in questa fase della sua storia, l’Occidente, minimizzando la vocazione generativa del matrimonio, stia perdendo il senso del futuro. E’ su questo, più che sulle pur affascinanti pratiche culturali dei Na, dei Nayar, dei Nyimba, dei Lele, dei Senufo, dei Wahehe, ecc. ecc., che dovremmo tutti seriamente misurarci.
«Avvenire» del 27 luglio 2012
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