Intervista
di Lorenzo Fazzini
«Le racconto un episodio accadutomi di recente: uno studente proveniente dalla Bulgaria è venuto da noi in Facoltà per alcune sue ricerche. Mi ha fatto cercare per avere delle informazioni: non potendo comunicare in nessuna lingua moderna – inglese, francese, tanto meno il russo o il bulgaro – ci siamo rivolti al latino. E ha funzionato a meraviglia!». Del resto è notizia di questi giorni che la lingua di Cicerone trova proseliti in Cina. La Beijing Foreign Studies University ha inaugurato a metà giugno l’istituto Latinitas Sinica dedicato allo studio, all’insegnamento e alla promozione del latino in Cina. Curiosamente gli universitari del Dragone vogliono imparare l’idioma degli antichi romani perchè lo considerano una strada prioritaria per conoscere meglio la civiltà occidentale. E anche perché facilita l’apprendimento delle lingue d’Occidente, inglese in testa.
La cosa non stupisce padre Roberto Spataro, salesiano, da poche settimane segretario della Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche dell’Università Pontificia Salesiana, pardon, del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis (preconizzato da Giovanni XXIII e istituito da Paolo VI), dopo essere stato rettore dell’Istituto Ratisbonne, il centro teologico dei salesiani di Gerusalemme.
Qual è la situazione dello studio del latino oggi? È così “grave” come qualcuno denuncia?
«Fino a 40 anni fa una persona di media cultura, soprattutto in Europa, aveva studiato latino e disponeva di una formazione umanistica di base. Per varie cause oggi non avviene più così. Ci sono, però, dei segnali di speranza: tra essi, indico la diffusione di un nuovo metodo di insegnamento del latino, il cosiddetto “metodo-natura” che consente un apprendimento serio, graduale, piacevole e, soprattutto, più efficace. Questo metodo si rifà alla tradizione più antica, praticata dagli umanisti, ad esempio dai gesuiti nei grandi collegi d’Europa, di esercizio attivo nell’insegnamento delle lingue. Poi l’introduzione della metodologia “positivistica” ha considerato le lingue come un materiale “freddo”, da laboratorio. E i risultati si sono visti, purtroppo, in negativo».
Ma dunque perché oggi, nell’era di Facebook, della tecnologia e del “globish” (l’inglese globale), ha ancora senso e urgenza studiare e imparare il latino?
«Lo sviluppo tecnologico senza la crescita etica è un mostro che divora gli uomini. L’accesso alla cultura umanistica consente di raccogliere un’eredità di pensiero che non può non accompagnare lo sviluppo tecnologico. La tradizione umanistica ha meditato ed elaborato concetti fondamentali quali la dignità dell’uomo, il rispetto e la concordia tra i popoli, il ruolo dello Stato, la definizione di virtù. Lei accenna al mondo “globish”: e infatti il latino serve a parlare meglio anche l’inglese, visto che il 70% del suo lessico è costituito da radici latine. Inoltre il latino ha un pregio: essendo una lingua sovranazionale, è neutrale, non veicola ed impone alcuna cultura specifica, compresa quella anglosassone».
Dal suo osservatorio – ha raccontato altrove di avere studenti dal Nordamerica, dall’Europa Orientale, dall’Africa e dalla Cina – quali sono gli ambienti intellettuali o le zone del mondo in cui il latino riveste maggior interesse e trova un’accoglienza più feconda?
«Ho parlato con professori e studenti che vengono da tutto il mondo: si sente il bisogno di studiare il latino per accedere ad una “res publica litterarum” di elevato livello spirituale. I giovani che in tante parti del mondo studiano le opere scritte in latino, ad esempio di Cicerone, Cipriano, Erasmo, delusi dai “cattivi maestri” dell’epoca contemporanea, vogliono riappropriarsi di un pensiero puro, vero. Lo studio del latino consente di riacquistare una certa innocenza spirituale. Tra le zone del mondo ove si registra interessa per il latino vorrei citare la Cina. Un nostro professore è recentemente rientrato da Pechino ove ha tenuto dei corsi seguiti da molti giovani universitari, tutti interessatissimi. L’Italia però non deve abdicare alla sua vocazione “storica” di presidio della cultura umanistica».
La situazione della Chiesa. Di recente monsignor Waldemar Turek, responsabile del latino per la Segreteria di Stato vaticana, notava come anche nell’ambiente ecclesiastico, e in particolare in quello teologico, il latino sia caduto in oblio. Condivide tale osservazione?
«Sì, sebbene rintracciare le cause sia un discorso complesso. Però ho anche segnali in controtendenza. Due esempi: ho ascoltato dei sacerdoti fare delle splendide catechesi illustrando un’epigrafe scritta in latino; ci sono professori di teologia che spiegano i documenti del Vaticano II a partire dai testi in latino affascinando gli studenti. Perché il clero torni a possedere questo strumento di cultura e di fede, abbiamo un’opportunità straordinaria: gli anni del seminario. Se verrà preparata una nuova generazione di professori motivata, competente, capace di adottare metodi efficaci, i futuri sacerdoti saranno entusiasti del latino e in pochi anni la situazione si trasformerà. Monsignor Turek del resto è un nostro ex allievo!».
La cosa non stupisce padre Roberto Spataro, salesiano, da poche settimane segretario della Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche dell’Università Pontificia Salesiana, pardon, del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis (preconizzato da Giovanni XXIII e istituito da Paolo VI), dopo essere stato rettore dell’Istituto Ratisbonne, il centro teologico dei salesiani di Gerusalemme.
Qual è la situazione dello studio del latino oggi? È così “grave” come qualcuno denuncia?
«Fino a 40 anni fa una persona di media cultura, soprattutto in Europa, aveva studiato latino e disponeva di una formazione umanistica di base. Per varie cause oggi non avviene più così. Ci sono, però, dei segnali di speranza: tra essi, indico la diffusione di un nuovo metodo di insegnamento del latino, il cosiddetto “metodo-natura” che consente un apprendimento serio, graduale, piacevole e, soprattutto, più efficace. Questo metodo si rifà alla tradizione più antica, praticata dagli umanisti, ad esempio dai gesuiti nei grandi collegi d’Europa, di esercizio attivo nell’insegnamento delle lingue. Poi l’introduzione della metodologia “positivistica” ha considerato le lingue come un materiale “freddo”, da laboratorio. E i risultati si sono visti, purtroppo, in negativo».
Ma dunque perché oggi, nell’era di Facebook, della tecnologia e del “globish” (l’inglese globale), ha ancora senso e urgenza studiare e imparare il latino?
«Lo sviluppo tecnologico senza la crescita etica è un mostro che divora gli uomini. L’accesso alla cultura umanistica consente di raccogliere un’eredità di pensiero che non può non accompagnare lo sviluppo tecnologico. La tradizione umanistica ha meditato ed elaborato concetti fondamentali quali la dignità dell’uomo, il rispetto e la concordia tra i popoli, il ruolo dello Stato, la definizione di virtù. Lei accenna al mondo “globish”: e infatti il latino serve a parlare meglio anche l’inglese, visto che il 70% del suo lessico è costituito da radici latine. Inoltre il latino ha un pregio: essendo una lingua sovranazionale, è neutrale, non veicola ed impone alcuna cultura specifica, compresa quella anglosassone».
Dal suo osservatorio – ha raccontato altrove di avere studenti dal Nordamerica, dall’Europa Orientale, dall’Africa e dalla Cina – quali sono gli ambienti intellettuali o le zone del mondo in cui il latino riveste maggior interesse e trova un’accoglienza più feconda?
«Ho parlato con professori e studenti che vengono da tutto il mondo: si sente il bisogno di studiare il latino per accedere ad una “res publica litterarum” di elevato livello spirituale. I giovani che in tante parti del mondo studiano le opere scritte in latino, ad esempio di Cicerone, Cipriano, Erasmo, delusi dai “cattivi maestri” dell’epoca contemporanea, vogliono riappropriarsi di un pensiero puro, vero. Lo studio del latino consente di riacquistare una certa innocenza spirituale. Tra le zone del mondo ove si registra interessa per il latino vorrei citare la Cina. Un nostro professore è recentemente rientrato da Pechino ove ha tenuto dei corsi seguiti da molti giovani universitari, tutti interessatissimi. L’Italia però non deve abdicare alla sua vocazione “storica” di presidio della cultura umanistica».
La situazione della Chiesa. Di recente monsignor Waldemar Turek, responsabile del latino per la Segreteria di Stato vaticana, notava come anche nell’ambiente ecclesiastico, e in particolare in quello teologico, il latino sia caduto in oblio. Condivide tale osservazione?
«Sì, sebbene rintracciare le cause sia un discorso complesso. Però ho anche segnali in controtendenza. Due esempi: ho ascoltato dei sacerdoti fare delle splendide catechesi illustrando un’epigrafe scritta in latino; ci sono professori di teologia che spiegano i documenti del Vaticano II a partire dai testi in latino affascinando gli studenti. Perché il clero torni a possedere questo strumento di cultura e di fede, abbiamo un’opportunità straordinaria: gli anni del seminario. Se verrà preparata una nuova generazione di professori motivata, competente, capace di adottare metodi efficaci, i futuri sacerdoti saranno entusiasti del latino e in pochi anni la situazione si trasformerà. Monsignor Turek del resto è un nostro ex allievo!».
«Avvenire» del 14 luglio 2012
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