Raccolti in volume gli articoli di Massimo Fini dal 1987 a oggi
di Paolo Rastelli
Il polemista contro l'idea dei diritti umani imposti con le armi: dalla Serbia alla Libia
Come sa bene chi abbia letto la sua biografia di Catilina, se c'è una cosa che Massimo Fini ammira è il coraggio. E, sia detto per inciso, c'è un po' da compatirlo, visto che di questi tempi si tratta di merce rara. Ebbene, di coraggio ne ha avuto lui stesso parecchio a dare il via libera alla pubblicazione de La guerra democratica, raccolta di suoi articoli scritti tra il 1987 e il 2012 su varie testate.
Con questo libro in un colpo solo il giornalista attacca due dei capisaldi del politically correct dei nostri anni: il mito della democrazia occidentale in quanto migliore dei sistemi politici possibili per tutti, quindi in qualche modo da esportare costi quel che costi per il bene dei popoli che non la conoscono e non la praticano e quello della protezione dei diritti umani imposta con le armi e quasi sempre coniugata con la «lotta al terrorismo» e le operazioni di «peacekeeping».
Per spiegare lo spirito dell'opera, conviene forse lasciare la parola all'autore che lo fa da par suo, cioè benissimo: «Dopo il collasso del contraltare sovietico le democrazie, Stati Uniti in testa, hanno inanellato, in vent'anni, otto guerre di aggressione. La "guerra democratica" non si dichiara ma si fa, con cattiva coscienza, chiamandola con altri nomi. Col grimaldello dei "diritti umani" si è scardinato il diritto internazionale sul presupposto che l'Occidente, in quanto cultura superiore (moderna declinazione del razzismo), portatore di valori universali, i suoi, ha il dovere morale di intervenire ovunque ritenga siano violati. Il nemico, allora, non è più, schmittianamente, uno "iustus hostis", ma solo e sempre un criminale. Essenzialmente tecnologica, sistemica, digitale, condotta con macchine e robot, la "guerra democratica" evita accuratamente il combattimento, che della guerra è l'essenza, perdendo così, oltre a ogni epica, ogni dignità, ogni legittimità, ogni etica e perfino ogni estetica».
Si può essere d'accordo oppure no con queste tesi, ma sono comunque parole da meditare in questi giorni in cui ciò che sta succedendo in Siria scuote le coscienze del mondo e si parla sempre più spesso di un intervento contro il regime di Bashar Assad. La lezione della Libia (anche se le elezioni di questi giorni fanno ben sperare) è ancora fresca: un intervento dell'Occidente in difesa dei diritti umani si è trasformato rapidamente in un sostegno a favore di una fazione impegnata in una guerra civile (gli insorti). E quello che si è ottenuto, dopo il rovesciamento di Gheddafi, è una società scossa da scontri tribali in cui i diritti umani, come hanno documentato gli articoli degli inviati del «Corriere», non sembrano molto più rispettati, con l'unica differenza che ora i perseguitati sono gli ex seguaci del dittatore ucciso.
Insomma, che si tratti di grandi temi su cui la riflessione è necessaria, è indubbio. Ciò vale soprattutto nel caso dell'Italia, dove un articolo della Costituzione, il numero 11, impedisce le guerre che non siano difensive e quindi aggiunge un ulteriore fattore di grande peso. Di fatto, se Fini ha ragione e quelle dell'Occidente sono guerre di aggressione mascherate, allora molto semplicemente noi italiani non possiamo dirci la verità senza mettere in discussione uno dei cardini del nostro diritto e siamo costretti, ancora più degli altri Paesi occidentali, a raccontarci che andiamo in armi in altri Paesi per il loro bene, anche se non è vero e almeno una parte delle loro popolazioni non ci vuole. Ma non dirsi la verità quando di mezzo ci sono questioni di vita e morte, è rischioso: morire senza sapere bene perché lo rende insopportabile soprattutto nelle democrazie, che con la possibilità di cadere in battaglia (in questo Fini ha ragione) vogliono sempre meno avere a che fare.
Il giudizio di Fini sulle guerre democratiche (Serbia, Kosovo, Kuwait, Afghanistan, Iraq) è sferzante e lui è un grande polemista: i suoi articoli sono quindi sempre godibili. Raccolti in un libro, però, rischiano la ripetitività, grande nemico delle antologie monotematiche.
Con questo libro in un colpo solo il giornalista attacca due dei capisaldi del politically correct dei nostri anni: il mito della democrazia occidentale in quanto migliore dei sistemi politici possibili per tutti, quindi in qualche modo da esportare costi quel che costi per il bene dei popoli che non la conoscono e non la praticano e quello della protezione dei diritti umani imposta con le armi e quasi sempre coniugata con la «lotta al terrorismo» e le operazioni di «peacekeeping».
Per spiegare lo spirito dell'opera, conviene forse lasciare la parola all'autore che lo fa da par suo, cioè benissimo: «Dopo il collasso del contraltare sovietico le democrazie, Stati Uniti in testa, hanno inanellato, in vent'anni, otto guerre di aggressione. La "guerra democratica" non si dichiara ma si fa, con cattiva coscienza, chiamandola con altri nomi. Col grimaldello dei "diritti umani" si è scardinato il diritto internazionale sul presupposto che l'Occidente, in quanto cultura superiore (moderna declinazione del razzismo), portatore di valori universali, i suoi, ha il dovere morale di intervenire ovunque ritenga siano violati. Il nemico, allora, non è più, schmittianamente, uno "iustus hostis", ma solo e sempre un criminale. Essenzialmente tecnologica, sistemica, digitale, condotta con macchine e robot, la "guerra democratica" evita accuratamente il combattimento, che della guerra è l'essenza, perdendo così, oltre a ogni epica, ogni dignità, ogni legittimità, ogni etica e perfino ogni estetica».
Si può essere d'accordo oppure no con queste tesi, ma sono comunque parole da meditare in questi giorni in cui ciò che sta succedendo in Siria scuote le coscienze del mondo e si parla sempre più spesso di un intervento contro il regime di Bashar Assad. La lezione della Libia (anche se le elezioni di questi giorni fanno ben sperare) è ancora fresca: un intervento dell'Occidente in difesa dei diritti umani si è trasformato rapidamente in un sostegno a favore di una fazione impegnata in una guerra civile (gli insorti). E quello che si è ottenuto, dopo il rovesciamento di Gheddafi, è una società scossa da scontri tribali in cui i diritti umani, come hanno documentato gli articoli degli inviati del «Corriere», non sembrano molto più rispettati, con l'unica differenza che ora i perseguitati sono gli ex seguaci del dittatore ucciso.
Insomma, che si tratti di grandi temi su cui la riflessione è necessaria, è indubbio. Ciò vale soprattutto nel caso dell'Italia, dove un articolo della Costituzione, il numero 11, impedisce le guerre che non siano difensive e quindi aggiunge un ulteriore fattore di grande peso. Di fatto, se Fini ha ragione e quelle dell'Occidente sono guerre di aggressione mascherate, allora molto semplicemente noi italiani non possiamo dirci la verità senza mettere in discussione uno dei cardini del nostro diritto e siamo costretti, ancora più degli altri Paesi occidentali, a raccontarci che andiamo in armi in altri Paesi per il loro bene, anche se non è vero e almeno una parte delle loro popolazioni non ci vuole. Ma non dirsi la verità quando di mezzo ci sono questioni di vita e morte, è rischioso: morire senza sapere bene perché lo rende insopportabile soprattutto nelle democrazie, che con la possibilità di cadere in battaglia (in questo Fini ha ragione) vogliono sempre meno avere a che fare.
Il giudizio di Fini sulle guerre democratiche (Serbia, Kosovo, Kuwait, Afghanistan, Iraq) è sferzante e lui è un grande polemista: i suoi articoli sono quindi sempre godibili. Raccolti in un libro, però, rischiano la ripetitività, grande nemico delle antologie monotematiche.
«Corriere della sera» del 9 luglio 2012
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