Come i dialetti hanno "cospirato" a comporre una lingua nazionale
di Gian Luigi Beccaria
Scriveva Foscolo nelle sue pagine Sul testo del “Decamerone” che «i dialetti diversi hanno perpetuamente cospirato a comporre una lingua letteraria e nazionale in Italia» (una lingua - proseguiva - «non mai parlata da veruno, intesa sempre da tutti, e scritta più o meno bene secondo l’ingegno, e l’arte, e il cuore più che altro degli scrittori»).
La lingua italiana si è immersa in un bagno generale di dialettalità, traendo man mano a sé uno stuolo di nuovi parlanti. È stato soprattutto l’italiano colloquiale e gergale ad arricchirsi di parole prese di peso dal dialetto. Per venire a tempi più vicini, penso soltanto alle romanesche del dopoguerra come abbozzare «subire, tacere», bambacione «persona tranquilla, pacioccone», tamarro «ignorante, burino», e un fracco di invece di «un sacco di», sfangare «cavarsela», una sleppa «un colpo», toppare «sbagliare» e tantissime altre.
Ogni regione ha contribuito di suo. Dal piemontese probabilmente arriva la locuzione, prima dialettale poi italiana, a bocce ferme, legata a un gioco diffusissimo nella nostra regione, dove a boce ferme vuole dire che bisogna aspettare che la boccia sia ferma prima di decidere di chi è il punto, che occorre cioè una situazione definita prima di pronunciarsi su chi ha il vantaggio. Dal milanese invece giunge l’espressione prendere una scuffia, cioè un’ubriacatura (a meno che non derivi dalla «scuffia» della barca che si capovolge). Ancora dai dialetti settentrionali viene tolla «latta», in faccia di tolla, presente da lunga data nei gerghi.
Nella nostra regione tanti modi di dire dialettali sono quasi scomparsi. Io avevo poca predisposizione per i lavori manuali (in casa se la cavava meglio mio fratello), e ricordo che di un qualche lavoretto domestico mal riuscito mio padre diceva che era un travai del pentu, «del pettine». Lessico familiare… Ho appreso in seguito che l’espressione risaliva al napoleonico regno d’Italia, quand’era in circolazione una moneta di scarso valore che portava sul recto la testa imperiale e sul verso una corona che a prima vista sembrava un pettine!
Oggi dei dialetti stiamo quasi perdendo le tracce, e chi li ama teme il giorno, anche se lontano, in cui saranno pochi a parlarlo. Le nuove generazioni, salvo eccezioni, lo conoscono ogni giorno sempre di meno. Eppure si dice che il dialetto sia più espressivo. Non è vero. Ma è comunque di largo uso familiare e affettivo. Fa un piacevole effetto sentir chiamare (cito il Varesotto, tanto per fare un esempio) scigulín «cipollino» un bambino tondo e grazioso. Con tutto ciò sappiamo bene che il dialetto accanto ai vantaggi procede con tanti freni. In dialetto non si può dire «amore mio», o «tesoro» (anche se in siciliano puoi dire a un piccolo «fiato del mio cuore»). Nessuno direbbe mai in dialetto, né si potrebbe, «sono innamorato» (tantomeno «follemente») «di te» e simili.
La lingua italiana si è immersa in un bagno generale di dialettalità, traendo man mano a sé uno stuolo di nuovi parlanti. È stato soprattutto l’italiano colloquiale e gergale ad arricchirsi di parole prese di peso dal dialetto. Per venire a tempi più vicini, penso soltanto alle romanesche del dopoguerra come abbozzare «subire, tacere», bambacione «persona tranquilla, pacioccone», tamarro «ignorante, burino», e un fracco di invece di «un sacco di», sfangare «cavarsela», una sleppa «un colpo», toppare «sbagliare» e tantissime altre.
Ogni regione ha contribuito di suo. Dal piemontese probabilmente arriva la locuzione, prima dialettale poi italiana, a bocce ferme, legata a un gioco diffusissimo nella nostra regione, dove a boce ferme vuole dire che bisogna aspettare che la boccia sia ferma prima di decidere di chi è il punto, che occorre cioè una situazione definita prima di pronunciarsi su chi ha il vantaggio. Dal milanese invece giunge l’espressione prendere una scuffia, cioè un’ubriacatura (a meno che non derivi dalla «scuffia» della barca che si capovolge). Ancora dai dialetti settentrionali viene tolla «latta», in faccia di tolla, presente da lunga data nei gerghi.
Nella nostra regione tanti modi di dire dialettali sono quasi scomparsi. Io avevo poca predisposizione per i lavori manuali (in casa se la cavava meglio mio fratello), e ricordo che di un qualche lavoretto domestico mal riuscito mio padre diceva che era un travai del pentu, «del pettine». Lessico familiare… Ho appreso in seguito che l’espressione risaliva al napoleonico regno d’Italia, quand’era in circolazione una moneta di scarso valore che portava sul recto la testa imperiale e sul verso una corona che a prima vista sembrava un pettine!
Oggi dei dialetti stiamo quasi perdendo le tracce, e chi li ama teme il giorno, anche se lontano, in cui saranno pochi a parlarlo. Le nuove generazioni, salvo eccezioni, lo conoscono ogni giorno sempre di meno. Eppure si dice che il dialetto sia più espressivo. Non è vero. Ma è comunque di largo uso familiare e affettivo. Fa un piacevole effetto sentir chiamare (cito il Varesotto, tanto per fare un esempio) scigulín «cipollino» un bambino tondo e grazioso. Con tutto ciò sappiamo bene che il dialetto accanto ai vantaggi procede con tanti freni. In dialetto non si può dire «amore mio», o «tesoro» (anche se in siciliano puoi dire a un piccolo «fiato del mio cuore»). Nessuno direbbe mai in dialetto, né si potrebbe, «sono innamorato» (tantomeno «follemente») «di te» e simili.
«La stampa - Tuttolibri» del 9 giugno 2012
Nessun commento:
Posta un commento