Nel 1985 l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede Joseph Ratzinger tenne 6 lezioni alla Fondazione Sankt Georgen in Carinzia, 4 delle quali dedicate al tema della creazione tra Bibbia e scienza. Quei testi finora inediti in italiano vengono oggi raccolti (insieme a un altro scritto del Papa sulla comprensione della fede nella creazione, già pubblicato nel 1969) nel volume Progetto di Dio. La creazione per la Marcianum Press (pp. 208, euro 19). Proponiamo in questa pagina stralci dell’introduzione di Giuseppe Tanzella-Nitti, docente di Teologia fondamentale alla Pontificia università Santa Croce
di Giuseppe Tanzella-Nitti
In merito al confronto fra teologia della creazione e pensiero scientifico, le pagine delle lezioni tenute in Carinzia nel 1986 trasmettono alcune intuizioni, o comunque contengono alcune lineeguida su come Joseph Ratzinger sembra volersi accostare a questa delicata tematica. Esaminiamole brevemente. Un primo elemento è l’intento dell’autore, comune anche ad altri suoi scritti, di proporre una prospettiva unitaria della Sacra Scrittura, proponendo al contempo una visione dinamica della sua storia redazionale, riflesso del progresso dell’esperienza religiosa di Israele. La verità di un testo non va cercata solo ricostruendo il più precisamente possibile le sue origini storico-filologiche, muovendosi all’indietro, ma bisogna anche guardare avanti: la verità del testo è nel suo compimento, in Cristo, in accordo con quanto l’esegesi patristica aveva suggerito. Un secondo elemento che caratterizza la teologia biblica di Ratzinger in relazione alla rivelazione delle verità sulla creazione è sottolineare il valore positivo di tutto ciò che accomuna, nelle stesse pagine della Scrittura, l’esperienza religiosa di Israele con l’esperienza autenticamente religiosa vissuta dagli altri popoli. Se le differenze specifiche parlano del modo in cui la Parola di Jahvé si erge sul mito, quando quest’ultimo viene inteso come 'favola', le comunanze, altrettanto importanti, parlano invece della rivelazione e del compimento del mito, quando questo viene inteso come un contenuto veritativo arcaico dalle forti basi antropologiche. Tale impostazione conduce Ratzinger a prendere le distanze da Karl Barth. L a correzione di rotta è, in proposito, esplicita: «Sono cresciuto teologicamente nell’era di Karl Barth – egli afferma ricordando i suoi anni universitari – ed anche i miei insegnanti erano tutti profondamente segnati da lui, in modo tale che la distinzione di ciò che è cristiano, il differire dalle altre culture e religioni era come la prima parola del nostro pensiero teologico. Ora, quanto più vado avanti con la teologia, tanto più mi si fa chiaro, nell’esperienza e nella conoscenza, che egli aveva torto. La cognizione dell’unità delle culture nelle più profonde questioni dell’esistenza umana è una cosa assolutamente decisiva, perché le culture comunicano e dunque restano aperte anche su quel tema [il creato], per l’appunto, decisivo». Un terzo aspetto di estremo interesse è l’insistenza con cui il già arcivescovo di Monaco e Frisinga vuole evitare una separazione netta fra lettura spirituale e lettura scientifica del mondo creato. Egli non ritiene corretta l’idea che la verità della Scrittura si difenda meglio relegando il discorso biblico in un ambito spirituale, vale a dire privandolo della sua capacità di formulare giudizi sulle verità naturali, dimenticando così che la Parola di Dio getta luce anche sul modo di guardare la natura, di conoscerla e di comprenderne l’intima intelligibilità. Chiaro l’intento di Ratzinger di proporre una dottrina della creazione capace di mantenere la duplice prospettiva di una creatio ex nihilo e di una creatio ex amore, tenendo così insieme il versante metafisico e quello esistenziale, il fondamento ontologico e il Dio personale, la Dei Filius e la Gaudium et spes. Ambedue gli approcci sono oggi necessari e dimenticare anche uno solo dei due farebbe perdere un contenuto essenziale. Il fondamento ontologico è indispensabile al dialogo con le scienze naturali ed è in grado di raccordarsi con le aperture dell’analisi empirica verso l’esistenza di un fondamento dell’essere e l’intelligibilità di tutte le cose. All’epoca in cui Ratzinger teneva le sue meditazioni in Carinzia, era ancora viva l’eco suscitata dal libro di Jacques Monod Il caso e la necessità (1970), pubblicato 15 anni prima. Con l’opera del biologo francese egli entra spesso in dialogo ideale, rileggendo l’alternativa monodiana fra caso e necessità in termini di un’alternativa fra gratuità della contingenza e necessità delle leggi di natura, proponendo di collegare la prima all’intenzionalità dell’amore che si erge sui fenomeni empirici o comunque conoscibili solo empiricamente. Ratzinger accoglie e valorizza le differenze esistenti fra un organismo e una macchina elencate da Monod e attribuisce la specificità del primo a un supplemento di informazione che esso contiene e trasmette, di cui non teme di segnalare la risonanza platonica, secondo una forma che l’organismo è in grado di riprodurre. Riveste senza dubbio interesse il modo con cui il teologo tedesco affronta la questione dei meccanismi darwiniani dell’evoluzione biologica, che al sottolineare l’aleatorietà delle mutazioni genetiche sembrerebbero mettere in crisi la visione, in maggior sintonia con la fede, di una vita che ascende in modo ordinato e finalistico da forme inferiori e semplici verso forme superiori e sempre più organizzate, fino all’uomo. Come potrebbero degli errori casuali nella trascrizione del patrimonio genetico essere alla base del meccanismo evolutivo della vita, divenendo così interamente responsabili della specificità dell’essere umano, di quella medesima creatura che la fede cristiana confessa essere a immagine e somiglianza di Dio? Ratzinger è consapevole della sfida che i meccanismi darwiniani sembrano porre alla fede: «Siamo un prodotto di errori casuali accumulati. Anche questa, credo, è una diagnosi molto profonda e un’immagine dell’uomo ». La contro-risposta che egli fornisce è prudente, ed in certo modo interlocutoria. Si lascia alla scienza il compito di fare il suo corso, di esaminare se non esistano altri fattori, altrettanto importanti, nell’evoluzione biologica, fattori (che oggi sappiamo operativi) che favoriscano piuttosto la stabilità delle proprietà della natura, delle regole alle quali la stessa evoluzione debba in definitiva conformarsi, il suo 'platonismo' se ci si consente l’espressione… La fede sembra dirci, osserva Ratzinger, che tali fattori debbano esistere; tuttavia, egli non precisa a quale livello cercarli, ma si limita ad indicare che se gli elementi che privilegerebbero la stabilità dell’informazione o il suo ordinato dispiegarsi venissero negati sul piano empirico, essi emergerebbero prima o poi sul piano delle descrizioni globali e globalizzanti, come dimostra il fatto che nelle descrizioni dei biologi la Natura venga spesso impersonificata, indicando in essa un 'soggetto' astratto capace di unificare in modo fittizio (e dunque surrettiziamente progettuale) l’intero processo evolutivo. È questo genere di 'sostituzioni' che, secondo Ratzinger, non dovrebbero essere accettate, lasciando invece che le categorie spirituali siano riconosciute come tali, e dunque impiegate per esprimere lo spirito, non la materia. Di fronte a questo stato di cose, ed indipendentemente dal modo in cui comporre l’apparente alternativa, egli ribadisce la convinzione ferma, assunta dalla fede nella Rivelazione, che l’essere dell’essere umano (valga la ridondanza) è il risultato di un progetto di Dio e non una somma di errori di trascrizione. Porre la casualità a livello ontologico equivarrebbe ad elevare il darwinismo a rango di filosofia globale, ed è questa prospettiva, non l’aleatorietà degli errori di trascrizione nel Dna, a non essere più compatibile con il messaggio della Rivelazione.
«Avvenire» del 6 giugno 2012
Nessun commento:
Posta un commento