18 febbraio 2011

Analisi di G. Pascoli, Il vischio

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di Baldi-Giusso-Razzetti-Zaccaria
Tratto da Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, vol. 3/1. D’Annunzio e Pascoli, pp. 146-149
I Non li ricordi più, dunque, i mattini meravigliosi? Nuvole a’ nostri occhi, rosee di peschi, bianche di susini, parvero: un’aria pendula di fiocchi, o bianchi o rosa, o l’uno e l’altro: meli, floridi peri, gracili albicocchi. Tale quell’orto ci apparì tra i veli del nostro pianto, e tenne in sé riflessa per giorni un’improvvisa alba dei cieli. Era, sai, la speranza e la promessa, quella; ma l’ape da’ suoi bugni uscita pasceva già l’illusïone; ond’essa fa, come io faccio, il miele di sua vita. II Una nube, una pioggia... a poco a poco tornò l’inverno; e noi sentimmo, chiusi per lunghi giorni, brontolare il fuoco. Sparvero i bianchi e rossi alberi, infusi dentro il nebbione; e per il cielo smorto era un assiduo sibilo di fusi; e piovve e piovve. Il sole (onde mai sorto?) brillò di nuovo al suon delle campane: tutto era verde, verde era quell’orto. Dove le branche pari a filigrane? Tutti i petali a terra. E su l’aurora noi calpestammo le memorie vane ognuna con la sua lagrima ancora. III Ricordi? Io dissi: «O anima sorella, vivono! E tu saprai che per la vita si getta qualche cosa anche più bella della vita: la sua lieve fiorita d’ali. La pianta che a’ suoi rami vede i mille pomi sizïenti, addita per terra i fiori che all’oblìo già diede... Non però questa (io m’interruppi), questa che non ha frutti ai rami e fiori al piede». Stava senza timore e senza festa, e senza inverni e senza primavere, quella; cui non avrebbe la tempesta tolto che foglie, nate per cadere. IV Albero ignoto! (io dissi: non ricordi?) albero strano, che nel tuo fogliame mostri due verdi e un gialleggiar discordi; albero tristo, ch’hai diverse rame, foglie diverse, ottuse queste, acute quelle, e non so che rei glomi e che trame; albero infermo della tua salute, albero che non hai gemme fiorite, albero che non vedi ali cadute; albero morto, che non curi il mite soffio che reca il polline, né il fischio del nembo che flagella aspro la vite... ah! sono in te le radiche del vischio! V Qual vento d’odio ti portò, qual forza cieca o nemica t’inserì quel molle piccolo seme nella dura scorza? Tu non sapevi o non credevi: ei volle: ti solcò tutto con sue verdi vene, fimo si fece delle tue midolle! E tu languivi; e la bellezza e il bene t’uscìa di mente, né pulsar più fuori gemme sentivi di tra il tuo lichene. E crebbe e vinse; e tutti i tuoi colori, tutte le tue soavità, col suco de’ tuoi pomi e il profumo de’ tuoi fiori, sono una perla pallida di muco. VI Due anime in te sono, albero. Senti più la lor pugna, quando mai t’affisi nell’ozïoso mormorio dei venti? Quella che aveva lagrime e sorrisi, che ti ridea col labbro de’ bocciuoli, che ti piangea dai palmiti recisi, e che d’amore abbrividiva ai voli d’api villose, già sé stessa ignora. Tu vivi l’altra, e sempre più t’involi da te, fuggendo immobilmente; ed ora l’ombra straniera è già di te più forte, più te. Sei tu, checché gemmasti allora, ch’ora distilli il glutine di morte.
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Analisi del testo Il componimento fu pubblicato su «La Vita Italiana» il 16 marzo 1897, poi nei Poemetti (1897 e successive edizioni). La sorella Maria, nella sua biografia del poeta, ci illustra la genesi della poesia: «Ricordo che, dopo vari giorni di pioggia che ci aveva tenuti in casa, andammo insieme una mattina di sole a fare un giro nella Chiesa, e vedemmo fra i molti alberi in fiore, o prossimi a fiorire, o già fioriti avendo i petali in terra, un pero che non aveva né fiori, né boccioli né petali caduti, ma sui rami dei grandi ciuffi di vischio. Il povero albero evidentemente languiva sotto il carico di quella vegetazione parassitaria! Giovanni ci fece su molte considerazioni e molte allusioni al suo triste stato. E concepì il poemetto che gli uscì fresco fresco dalla penna».
Metro: terzine dantesche a rime incatenare. Schema: ABA, BCB, ecc La costruzione del testo. Il componimento, che ha il taglio narrativo proprio dei Poemetti pascoliani, è nettamente diviso in due parti. La prima, che comprende due sezioni e metà della terza, è impostata su un tono di colloquio intimo e confidenziale con la sorella, ed è immersa in un clima di innocenza, di candore, di dolcezza un po’ languida, estenuata, di disillusione accettata con pacata saggezza. La fioritura precoce degli alberi e poi la caduta dei fiori si caricano di sensi simbolici, diventano le speranze e le illusioni che consolano dal dolore, ma che sono anche effimere e destinate necessariamente a cadere perché si possa proseguire nella vita («per la vita / si getta qualche cosa anche più bella / della vita»). L’impianto simbolico si traduce in un linguaggio insistitamente analogico: «Nuvole a’ nostri occhi, / rosee di peschi, bianche di susini, / parvero», «un’aria pendula di fiocchi», «e tenne in sé riflessa / per giorni un’improvvisa alba dei cieli». All’esatta metà del componimento (al verso centrale della terzina mediana della terza sezione) compare l’elemento nuovo, che determina una svolta netta nel suo tono e nel suo significato: l’albero «ignoto», «strano» e «tristo», nato dall’unione della pianta da frutto con la pianta parassitaria. Il discorso muta destinatario: non più la sorella, ma l’albero mostruoso e inquietante. Muta di conseguenza anche il tono: non più la dolcezza confidenziale del colloquio intimo, che si esprime in un delicato lirismo e in preziose immagini analogiche, ma un discorso vibrante, aspro, risentito, percorso da una forte carica di emotività, che si traduce nella martellante serie di anafore (sette volte viene ripetuto il vocativo «albero» all’inizio di verso) ed in una sintassi fatta prevalentemente di frasi brevi e secche. Da questo momento la poesia insiste minuziosamente, con una fissità ossessiva, sulle particolarità mostruose del connubio fra le due piante (diversi rami, diverse foglie, diversi colori, assenza di fiori e frutti) e sul processo di invasione maligna da parte del vischio parassita, che ha inizio da un molle piccolo seme, apparentemente trascurabile, e finisce per soffocare l’albero rigoglioso, succhiando le sue linfe vitali, impossessandosi come vampirescamente della sua vita, trasformando fiori e frutti in una ripugnante «perla pallida di muco», in un minaccioso «glutine di morte».
I significati simbolici. La pianta da frutto invasa dalla pianta parassita è evidentemente proposta come simbolo di un doloroso destino personale: la sventura e la sofferenza hanno bloccato nel poeta la fioritura della vita, lo hanno isterilito, impedendogli la vita normale, la famiglia e la procreazione, il calore del «nido» domestico, condannandolo ad una desolata solitudine, che ha come unica prospettiva la morte. Ma, al di là delle immediate intenzioni del poeta, l’immagine del vischio suscita echi più vasti e più profondi. Nella poesia si viene a creare, grazie all’insistenza ossessiva della descrizione, un clima allucinato, sinistro, quasi da incubo, che rovescia il clima iniziale di innocenza e candore. È come se la mostruosa creatura nata dal connubio affascinasse il Pascoli, evocando misteriosi, perturbanti significati, che richiamano le atmosfere "nere" e orrorose tanto diffuse nella letteratura romantica e decadente. Anche qui, sotto forme vegetali, si ha un "mostro", una sorta di vampiro, che si insinua in un altro organismo succhiandogli la vita, inoculandogli i germi del male (non bisogna dimenticare che quello del vampiro è un tema caro a tutto l’Ottocento), oppure si può riconoscere il motivo del "doppio", dell’essere mostruoso che a nostra insaputa si annida in noi (si pensi al famoso Dottor Jekyll e mister Hide di Stevenson). Questi motivi vagamente "neri" si fondono poi con un altro grande simbolo decadente, quello della vegetazione deforme, malata e maligna, che Pascoli propone anche in un altro poemetto, Digitale purpurea. I "fiori del male" sono la trascrizione metaforica dell’inconscio, che il Decadentismo si affaccia affascinato ad esplorare, del suo proliferare maligno di impulsi oscuri, perversi, inconfessabili, della popolazione di "mostri" che lo abita, dell’ "altro" inquietante che vive in noi. Nell’immagine della pianta nata dal tristo connubio Pascoli proietta le due anime che sente in sé: quella protesa al bene e alla bellezza, ad una vita serena, equilibrata e felice all’interno del «nido» familiare, confortata dall’esercizio poetico, in concordia fraterna con gli altri uomini stretti in società, e l’anima "malata", tormentata, torbida, inquieta, decadente. L’immagine, come ha proposto Sanguineti, è anche la perfetta definizione della sua ispirazione, del carattere problematico e scisso della sua poesia: da un lato la poesia del «fanciullino», candida, ingenua, amorosamente attenta alle piccole cose, alle realtà gentili e delicate, agli affetti familiari, tutta pervasa di dolcezza e di bontà sino al sentimentalilsmo e alla melensaggine, dall’altro la poesia più torbida e decadentemente "malata", colma di inquietudini e angosce, di perversi veleni, visionaria, onirica, ipnotica.
Postato il 18 febbraio 2011

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