01 gennaio 2011

Francesco D'Agostino, Diritto naturale

di Francesco D’Agostino, Diritto naturale, in Filosofia del diritto, Giappichelli – Torino 1996

(capitolo IV – Il Diritto naturale)


Sommario: 1. Il diritto naturale: definizione e funzione. -2. La dottrina del diritto naturale nella tradizione filosofica. - 3. Prospettive del giusnaturalismo. - 4. Appendice: la storicità del diritto naturale.

1. IL DIRITTO NATURALE: DEFINIZIONE E FUNZIONE
Non è possibile ricondurre ad una rigorosa e positiva unità di significato l'espressione diritto naturale: nella storia plurisecolare del pensiero giuridico e politico occidentale essa è stata usata secondo prospettive talmente diversificate, da rendere obiettiva-mente disperante ogni tentativo di reductio ad unum del concetto. L'unico modo, forse, per fornire alla nostra espressione una qualche unitarietà è quello di conferirle una valenza polemica e negativa: postulare l'esistenza di un diritto naturale significherebbe, in questa chiave, affermare che la dimensione della, giuridici à non coincide nel suo principio con quella del diritto posto dal legislatore all'interno della comunità politica alla quale egli è preposto. Più analiticamente il riferimento al diritto naturale implicherebbe pertanto tre assunti fondamentali e non separabili: a) l'esistenza di un diritto meta-positivo; b) da ritenere valido intrinsecamente, anche cioè se privo di riconoscimento da parte del legislatore; c) assiologicamente superiore al diritto positivo e da considerare quindi quale suo modello ideale; d) (e quindi dotato di una superiore obbligatorietà, nel caso in cui sorga un qualsiasi irriducibile contrasto tra le sue prescrizioni e quelle poste dal legislatore).
È evidente che una simile definizione in negativo del diritto naturale, anche se di certo non scorretta, può lasciare insoddisfatti, sia sul piano strettamente storico che sul piano teoretico. Sul piano storico, perché per definire il diritto naturale si ricorre (e si generalizza indebitamente) ad una nozione, quale quella di diritto positivo, che è anch'essa tutt'altro che priva di ambiguità storiche e semantiche e che comunque solo a partire dalla metà del secolo scorso (dall'epoca in cui ha cominciato ad affermarsi il positivismo giuridico) è decisamente emersa come metodologicamente antagonistica rispetto a quella di diritto naturale. Ma è una definizione insoddisfacente anche teoreticamente, perché quando si definisce in negativo il diritto naturale si evita accuratamente ogni confronto col punto cruciale della questione giusnaturalistica, quello della definizione della natura e della sua (pretesa) forza creatrice di diritto. Ma per quanto insoddisfacente, questa definizione ha comunque, ad avviso di molti studiosi, uri doppio merito: quello di evidenziare la funzione storica prevalente del giusnaturalismo (cioè l'assidua critica del volontarismo giuridico), e quello di mettere tra parentesi la questione del suo fondamento, ritenuta da larghissima parte della cultura contemporanea deformata da pregiudizi metafisici e di conseguenza mal-posta e irresolubile. L'autentico rilievo della dottrina del diritto naturale, insomma, andrebbe ritenuto non teoretico, ma pratico; essa non ci fornirebbe nessuna reale e obiettiva indicazione antropologica, nulla ci direbbe sulla natura hominis, o sui supremi principi di giustizia, ma ci indicherebbe un principio essenziale per l'azione sociale, e quindi per la dinamica della politica: il principio secondo cui va sottratta al diritto (positivo) vigente, e quindi all'operato del legislatore, ogni aura di indebita e pregiudiziale sacralità. Il diritto naturale rappresenterebbe cioè l'autentica misura critica del diritto positivo, tale al limite da poterlo far assurgere ad autentico principio rivoluzionario (come nel caso delle due grandi rivoluzioni della seconda metà del Settecento, quella americana e quella francese); in ogni caso avrebbe la valenza di ricordare agli uomini che il riconoscimento della loro dignità e dei loro diritti fondamentali non è una benevola concessione fatta nei loro confronti da parte di chi detiene il potere, ma il presupposto per ogni legittimo agire politico del potere stesso. Acquista così piena spiegazione il fenomeno che Heinrich Rommen, in un libro meritatamente famoso, ha chiamato l'eterno ritorno del diritto naturale (Die ewige Wiederkehr des Naturrechts, München 1936, tr. it. di G. Ambrosetti, Roma 1965): l'idea del diritto naturale ha avuto una storia complessa e frastagliata, ha conosciuto periodi in cui è potuta sembrare pressoché estinta, ma ha sempre manifestato una irriducibile vitalità, si è sempre riproposta prepotentemente alle coscienze, in particolare nelle epoche in cui maggiormente si è manifestato il disprezzo nei confronti del valore umano e la violazione
delle sue spettanze [non sempre gli avversari del giusnaturalismo sembrano cogliere bene questo punto, per quella che è la sua valenza specifica. Ad esempio, M. Libertini, dopo aver (non scorrettamente) identificato il giusnaturalismo con «la ricorrente esigenza di postulare un'idea di giustizia sovraordinata a qualsiasi diritto storico», conclude col qualificarla riduttivamente «come una vera e propria esigenza logica», cioè come un mero postulato della ragione giuridica, che impone la necessità di presupporre «un principio ordinante che leghi e giustifichi i singoli atti giuridici». E conclude che - postulato per postulato - «non c'è alcuna ragione logica od ontologica che impedisca di sostituire ad un ordine naturale (o "razionale-oggettivo") un ordine convenzionale (e quindi frutto di scelte, storicamente mutevoli) delle cose» (Il vincolo del diritto positivo per il giurista, in AA.VV., Diritto positivo e positività del diritto, a cura di G. ZACCARIA, Torino 1991, pp. 68-69). Questa conclusione è molto discutibile: che esistano ragioni "ontologiche" che rendano più plausibile tematizzare l'esistenza di quello che Libertini chiama un "ordine razionale-oggettivo" piuttosto che "un ordine convenzionale delle cose" è infatti mostrato dalla stessa articolatissima tradizione filosofica giusnaturalista (che poi queste ragioni non siano irresistibili - cioè non costringano alcuno all'assenso - è del tutto evidente, ma questa non è una pecca del giusnaturalismo, bensì attiene allo statuto stesso della filosofia, i cui argomenti sono sempre controvertibili). Il positivista può sempre - e dal suo punto di vista a buon diritto - ritenere non convincenti gli argomenti giusnaturalisti. Il problema piuttosto è un altro: se il giusnaturalismo altro essenzialmente non è che un mero postulato logico (come lo definisce Libertini) come si spiega il fatto - fattualmente indiscutibile - che esso è in grado di attivare in coloro che ne condividono i principi un impegno morale, che per alcuni può giungere fino alla messa in gioco di tutto se stessi?).
Gli avversari più tenaci del giusnaturalista amano però sottolineare come non sempre storicamente il riferimento al diritto naturale abbia posseduto una simile valenza progressista, di limite alle indebite pretese del potere: a volte esso è stato invocato per fornire una ulteriore legittimazione alla realtà del potere costituito. Celebre, ad esempio la prospettiva di Hobbes, nella quale il richiamo alla legge di natura serve a fondare filosoficamente la necessarietà della subordinazione più rigorosa dei consociati alla volontà del Leviatano. Altre volte, si osserva, l'appello al diritto naturale è apparso invece funzionale alla mera lotta ideologico-politica, più che alla difesa dei valori umani: ad esempio è indubbio che in certe correnti del pensiero politico cattolico dell'Ottocento il richiamo giusnaturalistico è stato spesso utilizzato in chiave reazionaria come strumento di contestazione della nuova struttura liberale e costituzionale dello Stato e a favore della sua tradizionale legittimazione paternalistica. Non è difficile però obiettare a queste osservazioni (in se stesse pienamente fondate) che la sua vera forza storica la dottrina del diritto naturale l'ha manifestata ogni qual volta è stata utilizzata come supremo appello contro e non a fondamento del potere: l'immagine, nell'omonima tragedia di Sofocle, di Antigone, definita con molta enfasi ma non scorrettamente "l'eroina del diritto naturale", resta sotto questo profilo assolutamente emblematica. Antigone infatti non agisce "contro il potere" perché lo ritenga delegittimato, cioè perché auspichi che al posto di Creonte salga al trono un altro sovrano, né perché ritenga il potere malvagio in se stesso; essa rifiuta l'ubbidienza - pur avendo la certezza che la morte sarà il prezzo del suo rifiuto - perché non ritiene altrimenti superabile la scissione - che ella avverte con una tragica lucidità - tra la volontà degli uomini e quella degli dèi, o, per usare un'espressione più moderna, tra due mondi, quello che si manifesta nell'intimo della coscienza e quello che si manifesta nell'ordine estrinseco del sociale. E perché avverte che in questa scissione - eminentemente tragica, perché di essa, ripetiamo, Antigone non sa ipotizzare alcuna tecnica di superamento - è posta in gioco il senso ultimo della sua stessa esistenza: negarla, eluderla o banalizzarla equivarebbe alla perdita della propria identità. Il rifiuto che essa oppone a Creonte e alle sue leggi possiede quindi una valenza archetipica: negare, eludere o banalizzare il problema del diritto naturale e della sua forza obbligante significa svuotare di senso la realtà - terribilmente complessa e non poche volte terribilmente tragica - della stessa coesistenza umana.

2. LA DOTTRINA DEL DIRITTO NATURALE NELLA TRADIZIONE FILOSOFICA
Leggendo, come abbiamo suggerito di fare, la dottrina del diritto naturale nella sua valenza pratica più che teoretica, è facile rilevare come qualsiasi accezione di "natura" può ben essere funzionale allo scopo indicato. Quale infatti che sia il significato che voglia darsi all'idea di "natura", resta fermo che essa fa riferimento ad una dimensione sulla quale non abbiamo la possibilità di operare, ma che al contrario ci domina o almeno ci condiziona e che costituisce per noi l'orizzonte di pensabilità della giustizià. Riferirsi alla natura implica perciò riferirsi ad una dimensione che - qualsiasi sia il modo in cui venga intesa - costituisce un limite obiettivo alla volontà dell'uomo, e m particolare alla volontà di chi detiene il potere. Le tre varianti fondamentali di giusnaturalismo, elaborate dalla tradizione filosofica occidentale, quella biologico-naturalistica, quella teologica e quella razionalistica, condividono tutte questo presupposto.
La prima prospettiva, resa celebre in un frammento di Ulpiano, che definisce appunto il diritto naturale come l'insieme dei precetti prescritti dalla natura a tutti gli animali (cfr. D.1.1.1.3: «Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit; nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. Hinc descendit maris et feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio; videmus eterim cetera quoque animalia, feras etiam, istius iuris peritia censeri». Ma il concetto si ritrova già in Pitagora e in Empedocle), sta alla radice di prospettive insieme antichissime e nuovissime: basti pensare al fondamento "naturalistico" della dottrina del dissenso civile di Thoreau, o a quanto siano oggi sentite le tematiche ecologiche. La natura in questa prospettiva è vista come una madre saggia e provvidente, che non fa distinzione tra nessuno dei suoi figli (e di conseguenzà rivolge gli stessi precetti a tutti gli animali) e che ha a cuore solo ciò che possiede valore autentico e cioè che è essenziale alla difesa e alla promozione della vita. Ad una siffatta visione della natura e della "vita semplice" che ne è il portato viene contrapposta l'artificiosità della vita sociale degli uomini, fonte di innumerevoli arbitrarie distorsioni. Il diritto naturale acquista in questa prospettiva la valenza di criterio ultimo non solo di giustizia, ma soprattutto di felicità. Per quanto teoreticamente ingenuo (se non altro perché la pretesa "semplicità" della natura e del suo diritto può essere intesa in forme drammaticamente antitetiche e inconciliabili: esiste tutta una tradizione, che va dai sofisti e arriva fino al marchese de Sade ed oltre, che individua come primo precetto "naturale" quello che riconosce al più forte ogni diritto sul più debole) il giusnaturalismo "naturalistico" possiede un fascino profondo e costituisce uno dei pochi punti di contatto tra la tradizione occidentale e quella orientale, che ha sempre riconosciuto alla natura come madre un rilievo primario.
Nella prospettiva del giusnaturalismo teologico la natura non possiede alcuna rilevanza intrinseca, se non per il fatto che in essa e da essa traluce la volontà normativa divina. Nelle tradizioni che pongono a loro fondamento una rivelazione, la dottrina del diritto naturale ha potuto trovare un suo spazio solo identificando i precetti del diritto naturale con «quod in lege et in Evangelio continetur», secondo la celebre formula di Graziano (Decretum, p. I, d. I, c. I, dict.), che di fatto è quella tutt'ora accolta dalla teologia evangelica del diritto. È evidente che il giusnaturalismo cristiano possiede però una sua specifica duttilità, per il fatto che all'interno del cristianesimo la rivelazione non ha nulla di quella rigidità che contraddistingue la prospettiva ebraica o quella islamica. Se i precetti biblici (per gli ebrei) o quelli coranici (per i musulmani) valgono esclusivamente perché voluti come tali da Dio, nella prospettiva cristiana il diritto naturale coincide di fatto con il diritto originale, col diritto cioè che avrebbe vigenza tra gli uomini se essi non si fossero allontanati da Dio: il diritto di natura è essenzialmente - per usare una felice formula agostiniana - uno jus caritatis, la cui finalità non è tanto quella di consentire all'uomo di acquistar meriti agli occhi di Dio, attraverso una puntuale ubbidienza ai suoi precetti, quanto quella di aiutare gli uomini a ricostituire una comunanza di vita fraterna (cfr. K. DEMMER, Ius caritatis. Zur christologischen Grundlegung der augustinischen Naturrechtslehre, Roma 1961). È chiaro che in tal modo gli uomini, ubbidendo al diritto naturale, ubbidiscono immediatamente alla volontà di Dio, perché la legge divina è legge di amore e Dio null'altro vuole dagli uomini che vivano in questa legge; ma è altresì chiaro che in questa prospettiva il diritto naturale acquista la valenza di una legge di libertà, ubbidendo alla quale gli uomini possono giungere alla riconquista di se stessi (un'efficace sintesi storica e teoretica di questo indirizzo ci è offerta da G. AMBROSETTI, Diritto naturale cristiano. Profili di metodo, di storia e di teoria, Milano 19852).
Secondo la terza prospettiva, quella del c.d. giusnaturalismo razionale o moderno, che comunemente si considera inaugurata dalla grande personalità di Ugo Grozio (la critica storica più recente ha messo accuratamente in luce le fonti tardo-medievali del pensiero di Grozio: cfr. in particolare F. TODESCAN, Le radici teologiche del giusnaturalismo laico, vol. I, Il problema della secolarizzazione nel pensiero giuridico di Ugo Grozio, Milano 1983), a fondamento del diritto naturale non può essere considerata né la natura nel senso generale, "fisico", del termine, né la volontà divina (sulla stretta identità della quale, dopo la Riforma protestante, cioè dopo la crisi dell'universalismo cristiano medievale, non esiste più la possibilità di pronunciarsi con sicurezza), ma la natura specifica dell'essere dell'uomo, e che è propria di tutti gli esseri umani: la ragione, intesa non come facoltà di attingere ai principi (cioè, classicamente, come logos), ma come facoltà calcolante, cioè di stabilire relazioni (cfr. W. ROED, Geometrischer Geist und Naturrecht, München 1970). La ragione unisce, laddove la religione, la nazionalità, i costumi dividono: essa parla lo stesso linguaggio a tutti gli uomini e a tutti rivolge i medesimi precetti. Il giusnaturalismo si trasforma propriamente in un gius-razionalismo, che riscuote un immenso successo nell'epoca moderna, fino all'avvento dello storicismo, e che costituisce il presupposto concettuale della codificazione ottocentesca del diritto positivo.
Il fascino del giusrazionalismo è indubbio: «si tratta ... di uno fra i più importanti, forse per molti versi del più importante, certo del più radicale modello di ragione giuridica escogitato nella storia della cultura giuridica» (U. SCARPELLI, Un modello di ragione giuridica: il diritto naturale razionale, in Reason in Law. Proceedings of the Conference held in Bologna, 12-15 December 1984, vol. I, Milano 1987, p. 262): e ciò spiega l'accanimento nei suoi confronti e il carattere particolarmente penetrante delle critiche che gli sono state mosse e che sembravano fino ad alcuni decenni fa averlo definitivamente colpito al cuore. Eppure oggi sempre più ci convinciamo che si tratta di critiche che di fatto colgono aspetti solo secondari della dottrina più che il suo nocciolo. È vero infatti che dal postulato giusrazionalistico è ingenuo pretendere di dedurre compiuti ordinamenti normativi - come han fatto intere generazioni di giuristi redigendo trattati di diritto naturale sempre più ampi e dettagliati -; ed è altresì vero che nello scontro tra le pretese della astratta ragione umana e le ragioni con-crete della storia sono sempre queste ultime che alla fine hanno la meglio. Ma il portato specifico del giusrazionalismo, il pretendere cioè che il diritto positivo venga sempre e comunque portato di fronte al tribunale della ragione umana, e che nessuna dina-mica storica — per quanto fondata nelle tradizioni di un popolo — possa mai giustificare l'umiliazione della ragione, è senza alcun dubbio un'acquisizione essenziale e definitiva della coscienza occidentale. L'esperienza dello storicismo, più che sradicarlo, ha piuttosto fecondato (ovviamente a suo modo) il pensiero giusnaturalista, fornendogli una maggiore duttilità concettuale e imponendogli una più vigile attenzione alla giustificazione delle proprie buone ragioni. È così che dopo la grande stagione dello storicismo, nella quale sembrava definitivamente espulso dalla scena culturale, il pensiero giusnaturalistico è risorto, arricchito da una duplice consapevolezza: che la storicità non è in contraddizione con i propri postulati — e si è parlato di conseguenza di un diritto naturale dinamico o a contenuto variabile [cfr. in particolare H. STAUDINGER, Naturrecht, Menschenrechte, Offenbarung, in AA.VV., Naturrecht, Menschenrechte, Offenbarung, a cura di F. J. WEHNES, Frankfurt a.M. 1968, pp. 4-27 e A. VERDROSS, Statisches und dynamisches Naturrecht, Freiburg 1971; per una valutazione duramente critica di questa prospettiva, v. A. LEINWEBER, Gibt es ein Naturrecht? Beitrage zur Grundlagenforschung der Rechtsphilosophie, Berlin-New York 19723, pp. 284 ss. Ricchi materiali sul tema in W. OELMUELLER, Normen und Geschichte, Paderborn/München/Wien 1979 (Materialien zur Normendiskussion, vol. III)] - e che la ragione, di cui il giusnaturalismo continua a farsi strenuo difensore, non è estrinseca, ma intrinseca al diritto positivo stesso (che in tale prospettiva è stato efficacemente denominato diritto naturale vigente). Come le regole del linguaggio non possono essere rinvenute in un super-linguaggio, che costituisca la misura di tutte le singole lingue, ma sono immanenti al linguaggio stesso e ne costituiscono a tal punto l'indice di espressività, da non poter essere violate, pena l'incomprensibilità parziale e al limite totale di ciò che viene espresso linguisticamente, così il diritto naturale non è contenuto in un super-codice, ma nelle stesse norme del diritto positivo e ne costituisce la ragion d'essere fondamentale, tolta la quale il diritto positivo stesso decade nel non-senso, con la conseguenza che la sua obbligatorietà tende con estrema rapidità a perdersi. L'antica intuizione agostiniana, secondo la quale una legge che non sia giusta non merita propriamente il nome di legge, mantiene ancora oggi quindi una sua stretta pregnanza: il diritto positivo, quando non è percepito come giusto (quando cioè non è sorretto internamente dalla ragione), viene rapidamente disatteso e continua a vivere un'esistenza puramente formale, come norma scritta sì nei codici, ma non applicata e forse nemmeno più conosciuta dai destinatari, perché nemmeno il continuo puntello del potere sanzionatorio dell'ordinamento può donare una ragion d'essere a ciò che è costitutivamente privo di ragione (se non nel breve periodo o in ordinamenti totalitari, nei quali la violenza prende il posto del diritto).

3. PROSPETTIVE DEL GIUSNATURALISMO
Tra le numerose contraddizioni della cultura contemporanea va indubbiamente posta anche quella giusnaturalistica. Da un punto di vista materiale, il pensiero giusnaturalistico celebra infatti nel nostro tempo i suoi trionfi; eppure, il riferimento al diritto naturale è pressoché scomparso dal lessico giuridico e politico contemporaneo. Il giusnaturalismo ha sconfitto lo statualismo (e la sua indebita pretesa di fare del diritto una mera tecnica al servizio dell'organizzazione politica dello Stato) e ha messo alle corde il giuspositivismo, smascherandone soprattutto le ingenuità metodologiche (cfr., da ultimo, A. OLLERO, Le crisi del positivismo giuridico. I paradossi teorici di una "routine" pratica, in "Iustitia", n. 44, 1991, pp. 333-375). Ma non ha saputo trar profitto dalle sue vittorie. L'idea che ogni riferimento al diritto naturale comporti un'adesione cieca ad antiquate ed antistoriche prospettive metafisiche è sufficiente a trattenere molti giuristi dal definirsi giusnaturalisti; e ben poco rilievo ha il fatto che propriamente antiquata non è da considerare la metafisica in quanto tale, ma quella sua contraffazione che è spacciata per metafisica da tanta parte della filosofia contemporanea. Da questo dato di fatto risulta la caratteristica fragilità della cultura giuridica contemporanea, che ha saputo liberarsi dal formalismo, che ha saputo denunciare i limiti dello statualismo giuridico, che è largamente permeata dal discorso assiologico, ma che ciò non di meno resta sul piano metodologico in un'aura di ambiguità, legata come è tutt'ora a un non meglio precisato primato della "legge", che, se non viene più intesa positivisticamente come la mera volontà del legislatore, non è nemmeno identificata con quelle istanze fondamentali di giustizia che sono l'hard core del giusnaturalismo.
Eppure, bisogna tornare a ribadire che mai come nel nostro tempo il giusnaturalismo celebra i suoi trionfi. Se infatti, a livello strettamente metodologico, la scienza giuridica contemporanea esita ancora a riconoscersi giusnaturalista, giusnaturalista lo è comunque nei fatti, come dimostra il rilievo planetario che ha assunto negli ultimi decenni la tematica dei diritti umani, cometematica strettamente giuridica (cfr. F. VIOLA, Diritti dell'uomo, diritto naturale, etica contemporanea, Torino 1989; F. D'AGOSTINO, La filosofia del diritto, i diritti dell'uomo e il carattere paradigmatico del diritto, in F. D'AGOSTINO, Il diritto come problema teologico, Torino 1992, pp. 57 ss). I diritti umani, infatti, altro non sono che il modo in cui si ripresentano nel nostro tempo - e in una forma particolarmente agguerrita - le istanze più profonde del giusnaturalismo. Chi definisce, promuove, difende, diffonde o comunque ha a cuore i diritti dell'uomo - cioè in primo luogo il giurista - altro non fa, in definitiva, che porsi nell'alveo della tradizione giusnaturalistica, rinnovandola — magari inconsapevolmente - con sensibilità linguistica, e spesse volte anche con acume metodologico, del tutto moderni. Il diritto degli anni a venire sarà – e lo sarà, perché in grandissima parte già lo è - un diritto cosmopolitico; cioè un diritto — per usare le celebri parole di Kant - la cui violazione avvenuta in un punto della terra viene avvertita come intollerabile in tutti i punti. Se il prezzo che la dottrina del diritto naturale deve pagare ai gusti lessicali del presente, per mantenere la propria identità al di là del variare delle etichette, è quello di rigenerarsi come dottrina dei diritti dell'uomo, non si tratta certamente di un prezzo troppo alto, come dimostra il fatto che è stato praticamente già pagato e nella sua interezza dai migliori giuristi del nostro tempo.

4. APPENDICE: LA STORICITÀ DEL DIRITTO NATURALE
Qualche considerazione ulteriore merita la discussione sulla storicità del diritto naturale. E ben noto che la concezione giusnaturalista tradizionale ha sempre insistito sull'immutabilità del diritto naturale: le parole che Sofocle pone sulla bocca di Antigone di fronte a Creonte: «Non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un tartale potesse trasgredire le leggi non scritte e incancellabili degli dèi. Infatti, queste non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono e nessuno sa da quando apparvero» (SOFOCLE, Antigone, w. 450-457. Per una storia della presenza dell'Antigone sofoclea nella cultura occidentale, cfr. E. MOLINARI, Storia di Antigone, Bari 1977) sono davvero uno dei punti più alti raggiunti dalla coscienza dell'uomo occidentale e non tollerano frettolose e banali ermeneutiche riduttivistiche. È altrettanto vero, però, che accanto a questa, che abbiamo detto essere la concezione tradizionale e più veneranda del diritto naturale, si colloca un'altra concezione, che merita anche essa, a suo modo, di essere ritenuta ormai tradizionale: parlo della teoria del c.d. diritto naturale dinamico, storicamente variabile, quello che fa perno sul fatto che l'uomo stesso è sottoposto a uno sviluppo e nella sua stessa coscienza è storico.
Ora, da una parte va detto che questo insistere sulla storicità dell'uomo è sì corretto all'interno di un discorso storico, sociologico, psicologico, antropologico (all'interno, insomma, delle scienze umane), quanto vano in prospettiva rigorosamente filosofica. Insistere - come fa ad esempio Böckle (Morale fondamentale, tr. it., Brescia 1979, p. 207) - sul fatto che «il soggetto può essere riconosciuto soltanto in un atto di decisione storica» non ci dà assolutamente alcun criterio su come possiamo individuare all'interno della dinamica della storia quelli che ne sono i soggetti reali (storicamente, chi è soggetto? È l'individuo e lui soltanto? O vanno considerati soggetti anche i popoli, le corporazioni, i movimenti collettivi?), anzi rischia seriamente di farci cadere in un circolo vizioso (da una parte si afferma che solo l'uomo - e non ad esempio il mondo fisico - è contrassegnato dalla storicità, anzi che l'uomo è definibile solo attraverso la sua storicità; dall'altra, quando si vuoi definire la storicità, la si definisce non in rapporto per l'appunto al mondo fisico, ma solo in rapporto all'uomo). A meno che non si voglia concludere, come fanno alcuni (ad esempio C. VIGNA, La natura umana nella tradizione speculativa, in AA.VV., Sull'amore umano. Saggi di teologia e filosofia, a cura di V. MELCHIORRE, Milano 1983, p. 97), che «l'uomo, in quanto essere storico, è indefinibile», si dovrà ammettere o che il concetto di uomo è polisemico e solo in tal senso storico (che esso rinvia cioè a più significati diversi e non correlati tra loro, che si sono succeduti nella storia) o che esiste un aliquid - ciò che chiamiamo appunto uomo - che ha tra le sue caratteristiche quella di sperimentare se stesso nella temporalità e conseguentemente di arricchire (o di impoverire) se stesso secondo queste sue scansioni temporali (cfr. G. KALINOWSKI, Notions de nature, in Das Naturrechtsdenken heute und morgen. Gedachtnisschrift far Rèné Marcic, a cura di D. MAYER-MALY e P.M. SIMONS, Berlin 1983, pp. 45-46). Ciò, in altre parole, che è storico è la "cultura", non la "natura". Ma dicendo questo non diciamo ancora nulla di particolarmente risolutivo, sia perché i rapporti natura/cultura sono ardui da definire (e questo è il compito della filosofia della cultura), sia perché la stessa natura non può essere intesa meccanicisticamente, come fredda e inerte datità: alla natura è inerente un logos e questo logos è soggetto alla legge della temporalità [in tal senso R. Marcic (Rechtsphilosophie. Eine Einführung, Freiburg 1969, p. 267) richiama l'affermazione tomistica: natura hominis est mutabilis (Sum. Theol., IIa-IIae, q. 57, art. 2, ad 1)].
Per una corretta impostazione (non si pretende qui più di tanto) del problema della storicità del diritto naturale bisogna tornare su di un punto fondamentale: l'istanza giusnaturalistica specifica non è affatto quella dell'eternità e dell'immutabilità dei precetti del diritto naturale, quanto quella della loro non-arbitrarietà (È questo il nocciolo buono del discorso fatto da G. FASSÒ, in La legge della ragione, Bologna 1964): a questo vuol alludere, in fondo, Antigone quando contrappone i decreti di Creonte - arbitrari, perché umani, perché fondati solo sulla volontà del tiranno - alle leggi degli dèi, assolute appunto perché frutto di volontà non contingenti come quelle dei mortali, bensì sovraumane. Questa istanza della non-arbitrarietà la si ritrova altresì nella pretesa tipicamente giusnaturalista di dedurre il "dover essere" dall"`essere". «Questo assioma - scrive Schüller (Wie weit kann die Moraltheologie das Naturrecht entbehren, in "Lebendiges Zeugnis", 1-1, 1965, p. 55. Di Schüller, cfr. anche La fondazione dei giudizi morali, tr. it. (parziale), Assisi 1975, pp. 94 ss.) - non afferma nulla sulla stabilità o mutabilità dell'essere umano, ma sulla rigorosa correlazione tra essere e dovere. Solo di questa correlazione l'assioma afferma l'assoluta validità. In che misura l'uomo, in ogni variabilità storica del suo essere, rimanga pur sempre lo stesso, è, a questo proposito, un problema del tutto diverso; rispondere ad esso non è primariamente compito dell'etica, ma di un'antropologia metafisica».
In altre parole, una volta ribadito il carattere ontologico dei principi giusnaturalistici, resta come problema rilevante sì, ma secondario quello della determinazione della dinamicità dell'essere su cui quei principi vengono ad essere fondati. Ma quali che siano i connotati di questa dinamicità, essa non è a sua volta priva di misura; per le stesse considerazioni fatte sopra, si dovrà ritenere che la dinamicità della natura (o, se si vuole, la storicità dell'essere dell'uomo) avvenga all'interno della sua struttura propria. È questo il significato della distinzione tomista (apparentemente ingenua) in ordine alla mutabilità della legge naturale, che è ammessa sì per additionem, ma non per modum substractionis [S. TOMMASO, Sum. Theol., Ia-Ilae, q. 94, art. 5, c (su cui cfr. da ultimo R. BAGNULO, Il concetto di diritto naturale in San Tommaso d'Aquino, Milano 1983 e G. KALINOWSKI e M. VILLEY, La mobilité du droit naturel chez Aristote et Thomas d'Aquin, in "Archives de Philosophie du Droit", n. 29, 1984, pp. 187-199). Il valore del discorso tomista sta anche in ciò, che implicitamente esso supera ogni prospettiva "negativa" del giusnaturalismo, quale la prospettiva che ammette che si possa dire con sicurezza solo ciò che è ingiusto e lasciare la determinazione del giusto in positivo alla mera dialettica politica (v. ad es. J. MESSNER, Naturrecht. Handbuch der Gesellschaftsethik, Staatsethik und Wirtschaftslehre, Innsbruck/WienlMiinchen 1950, p. 345). Questa posizione, lodevole nella sua cautela di non cadere nelle spire del dogmatismo, è però pericolosa, perché - come osserva giustamente F. BÖCKLE, Dibattito sul diritto naturale, tr. it., Brescia 1970, p. 161 - abbandona il «gran campo del non assolutamente dimostrabile ai rappresentanti del relativismo e del positivismo». La teoria tomista, che vede invece la storicità del diritto naturale nella sua capacità di crescere nella consapevolezza storica dell'umanità, indica bene come i suoi precetti valgono in positivo a segnare dei punti di non ritorno, in piena conformità con la visione cristiana e di conseguenza moderna della storia, che viene da essa letta non come ciclicità, "eterno ritorno dall'eguale", ma come cammino progressivo verso la meta ultima della riconciliazione. La celebre frase agostiniana Dies septimus nos ipsi erimus tollera senza contraddizione di essere assunta da un ateo come Ernst Bloch («nel giorno settimo, che non è ancora venuto, noi saremo noi stessi nella nostra continuità come nella nostra natura») nel segno di una fiduciosa speranza escatologica (cfr. E. BLOCH, Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell'esodo e del regno, tr. it., Milano 1971, p. 33; cfr. anche P. PIOVANI, voce Etica, in "Enciclopedia del Novecento", vol. II, Roma 1977, p. 76)].
Se la storicità è data agli enti perché conseguano il loro essere, non si potrà ritenere che eventuali loro cadute o deviazioni si debbano far rientrare nella loro natura "propria". Ancora una volta di fronte alla mera fatticità - di marca non materialistica ma storicistica -, che ci mostra come l'uomo, nella sua storia reale, abbia infinite volte percorso le vie senza sbocco dell'odio e della violenza, si impone per il logos filosofico l'onere di assumersi la responsabilità della discriminazione (che può suonare, a volte, come dura condanna della storia). Lo storicismo banale sfocia nel relativismo e nel giustificazionismo storico; uno storicismo avveduto sa che non è vero che il reale, solo in quanto reale, sia razionale, ma che è razionale solo quel che può essere detto effettuale, che cioè produce effetti secondo ciò che detta il suo logos. La celebre formula hegeliana della Vorrede ai Lineamenti di Filosofia del Diritto (was vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich ist, das ist vernünftig) - infaustamente tradotta da Messineo «ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale [Cfr. G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, tr. it., Bari 1954, p. 15. Nemmeno la nuova ed eccellente traduzione italiana dell'opera (Bari 1987), affidata a Giuliano Marini, muta alcunché al riguardo (cfr. p. 14)]» - riacquista con la sostituzione di effettuale a reale la sua giusta valenza, che serve oltre tutto a distinguere uno storicismo profondo come quello hegeliano dalle sue scialbe controfigure e imitazioni (sull'opportunità di tradurre wirklich con effettuale o effettivo, cfr. le giuste osservazioni di V. Verra, nell'introduzione alla nuova tr. it. di G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, parte I, La scienza della logica, Torino 1981, pp. 76-77. Si consideri, comunque, che la gestazione della celebre formula è stata tutt'altro che lineare; ora che sono a nostra disposizione le edizioni degli appunti dei corsi tenuti da Hegel sulla filosofia del diritto negli anni precedenti la pubblicazione delle Grundlinien (risalenti, come è noto, al 1821) possiamo riscontrare come essa sia venuta mutando, acquistando sì icasticità, ma anche una certa ambiguità. La formula del corso 1819/20 «ciò che è razionale diventa reale e il reale diventa razionale» (was vernünftig ist, wird wirklich und das Wirkliche wird vernünftig: cfr. G.W.F. HEGEL, Philosophie des Rechts. Die Vorlesung von 1819/20 in einer Nachschrift, a cura di D. HENRICH, Frankfurt a.M. 1983, p. 51) non offre alcuno spazio a quell'interpretazione di Hegel come ideologo dell'esistente, che è stata ed è tuttora molto diffusa. Sulla celebre formula e sulle sue diverse varianti, cfr. ora P. BECCHI, Contributo ad uno studio delle filosofie del diritto di Hegel, Genova 1984, in part. pp. 47 ss.]. Ciò che nella storia si manifesta come effettuale non è mai il prodotto del mero caso, né di una selezione meccanica di eventi; è l'emergere inventivo di una intenzione, senza di cui il mondo stesso sarebbe assolutamente privo di intelligibilità [estremamente suggestive le considerazioni con cui V. Mathieu riporta questo tema al neoplatonismo, come alla filosofia che meglio lo ha concettualizzato: «Noi vediamo che nell'interpretazione plotiniana del platonismo si dice esplicitamente che vi sono modelli o idee, non solo delle specie, ma anche degli individui; non solo dell'uomo, ma anche di Socrate. Questo muta, evidentemente, il senso in cui l"archetipo' è esemplare: gli toglie il carattere di 'stampo' fisso, a cui le produzioni singole debbono conformarsi, facendone piuttosto qualcosa di simile a una intenzione. Nella prospettiva plotiniana, questa intenzione è la totalità stessa dell'intelletto, che restando unico e sempre identico a sé, si prospetta tuttavia in infinite prospezioni particolari, le quali, attraverso la mediazione dell'anima, determinano la natura. Le "innovazioni della natura", quindi, piccole o grandi che siano, non sarebbero altro che il presentarsi nel mondo dell'esperienza, di quelle prospezioni e “intenzioni', in cui l’intelletto si specifica. Interpretando l'archetipo essenziale, per esempio l’uomo, come un'invenzione e l’oggetto empirico che gli corrisponde, per esempio Socrate, come un'interpretazione di tale invenzione, si evita di fare dell'essenza una norma fissa e meccanica senza abolire, tuttavia, il concetto di norma e di possibile inadeguatezza alla norma, o devianza ... Le interpretazioni non sono date una volta per tutte, ma vanno sempre, in qualche misura, reinventate: così come è un'invenzione, non solo il brano musicale fissato dal compositore sul pentagramma, ma anche il modo di eseguirlo, che un'esecutore deve di volta in volta trovare. Il brano scritto sul pentagramma funge, allora, da “norma” per l'esecuzione e permette di valutare le sue possibili devianze; ma la norma non può essere applicata meccanicamente, come accadrebbe se l'esecuzione fosse fatta a macchina ... La valutazione della fedeltà di una singola interpretazione va fatta globalmente, comparando l'insieme dell'interpretazione medesima con il tutto dell'intenzione originaria, che chiede di essere interpretata. Intenzione che, nel caso del pentagramma, fino ad un certo punto esiste anche per conto suo, ma che, in realtà, non coincide, puramente e semplicemente, con la traccia che il compositore ha lasciato sul pentagramma: tanto che anche un critico che non abbia mai letto la traccia, ma sempre solo ascoltato singole interpretazioni, può giudicare se e in che misura ('misura' complessiva, non analizzabile in singoli parametri) questa o quella interpretazione sia fedele o deviante rispetto a un'intenzione che, pure, non gli si è mai presentata per conto suo» (Essenza, natura, devianza, in V. MATHIEU, Luci ed ombre del giusnaturalismo ed altri studi di filosofia giuridica e politica, Torino 1989, pp. 136-138)].
Postato il 1 gennaio 2011

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