09 gennaio 2011

Apocalisse tra poesia e profezia

Una riflessione del grande poeta fiorentino morto sei anni fa sull’ultimo e più misterioso libro del Vangelo. Metafore e paradossi di un testo che ha segnato in maniera indelebile non solo la teologia ma tutta la cultura occidentale: letteratura e poesia in primo luogo
di Mario Luzi
Nell’Apocalisse siamo continuamente posti di fronte a figurazioni. Tutto accade figurativamente al ritmo delle dinamiche maestose sequenze figurali. Lo spettatore assiste muto alle mutazioni mirifiche, intento primamente a coglierne il senso, giacché è stabilito a priori che siano munite di un potere di ammonimento e di svelamento. Alla nostra cultura è innegabile però che quel linguaggio filmato parli anche esteticamente, e questa parola va intesa in senso molto comprensivo. A questo aspetto sensibile del testo contribuiscono sia i numeri che le forme e i colori delle figurazioni. Mi rendo conto che è impossibile per noi riportarci al livello della suscettibilità originaria, voglio dire del tempo e della cultura da cui il testo proviene. I numeri o i colori? Chi prevale nella nostra emozione? La numerologia non è così intrinseca al nostro pensiero come lo era nel mondo veterotestamentario. Le forme e i colori hanno nella cultura a cui apparteniamo preso il sopravvento e agiscono anche sui più distratti di noi. Non ha tempo perché li comprende tutti, non distingue fra passato e presente e vale per il futuro imminente e lontano: questo si dice nella letteratura di chiosa e di commento. Anche questa mens con le sue conseguenti misure è da ricuperare o conquistare da noi dell’Occidente, figli di una civiltà sostanziata di tempo e di storia. Credo che sia il primo passo, anzi un vero balzo, il più difficile da compiere per portarsi al livello. Chi scrive deve cercare di farlo e di farlo fare. Ecco un primo effetto apocalittico generato dall’Apocalisse.
La prospettiva temporale applicata all’Apocalisse non regge, slitta, sfugge da ogni parte. Non è omogenea con il singolare tenore di quel profetare la misura coerente del tempo umano - e altro non ne conosciamo. Tuttavia se c’è un accentrarsi e precipitare delle epoche nella vita di Cristo come in un baricentro cosmico, a me pare si raggiunga un incremento di pathos se la nostra mente si sente presa come in un duro fermaglio tra la prima e la definitiva parusìa del Cristo.
Tutto è detto e fatto in attesa di questa, in questo intervallo. Tutto quell’accumulo di simboli che si organizza in allegorie più o meno trasparenti rischia di sedurre in un gioco superiore la mente se essa perde di vista il rapporto con la situazione reale storica e metastorica a cui il testo si riferisce. È proprio quello che accade a noi.
Tuttavia c’è un clima di grande inquietudine, di timore, di attesa spaventata del giudizio che si comunica al lettore moderno: nonché una minaccia catastrofica che incombe, un ordine punitivo negli avvenimenti. Più difficile è ritenere questo una necessaria affermazione del Dio vittorioso, del pantocrator bizantino. Un Cristo vindice che ritroviamo nella tradizione pre-giottesca e pre-cavalliniana. Cristo è offeso, è al di là della misericordia. È una giustizia assoluta che deve prevalere. Cristo, generosa elargizione del Padre all’umanità, ha avuto tra gli uomini un’accoglienza che esige castigo, punizione. Questo è comprensibile alla logica di fondo del giudaismo divenuto cristiano, ma il Cristianesimo rompe quella logica. Che cosa si vuole disvelato e nello stesso tempo occultato all’uomo mediante questa profezia? L’uomo, abbiamo detto, è chiamato in causa come spettatore di un trionfo e di un potere sovrumano. Eppure questa primaria ostensione di gloria e di forza lo concerne direttamente come oggetto della sua autorità e del suo giudizio.
L’umanità è l’elemento vile su cui si rovesciano le calamità e i castighi e le catastrofi volute dall’ordine e dalla sua parata. Si può presumere che il fine dell’Apocalisse sia l’affermazione di una grande disparità tra il divino e l’umano. E, sì, può essere vero che il simbolismo enfatico nelle sue alternanze e nelle sue sorprese continue porti a concludere ciò che asserisce in conclusione la Bibbia della scuola di Gerusalemme, cioè che l’Apocalisse è la grande epopea «de l’espérance chrétienne, le chant de triomphe de l’Église persécutée». Si può anche arguire che sia in corso un grandioso paragone di cui viene detto e celebrato l’esito finale di trionfo. Satana è presente ma solo come antagonista corruttore di anime. Confesso che il minore e più convenzionale aspetto dell’opera mi pare il preannuncio degli eventi futuri, un aspetto che tuttavia, data la tradizione, non poteva mancare. Probabilmente lo stato perenne di instabilità e di inquietudine, di precarietà e di attesa imminente nell’umanità sono l’epicentro dell’aspirazione. Non c’è niente di durevole sulla scena umana: e il ritualismo simbolico della scena celeste è una contrapposizione. Allerta, ammonimento, memoria confermata, messa a fuoco della lezione di un passato recente? Il Vangelo integrato in una teologia stabilita dalla prescienza? Questo si dibatte tra i commentatori dell’Apocalisse. Ma è sempre eccezionale intimazione e imperioso richiamo a una verità che è stata e sarà. Cataclisma del tempo. Ordine dell’eterna, non umana e trionfale stabilità del divino. Resta per me il mistero della indegnità e colpevolezza pregiudiziale dell’uomo. L’uomo è oggetto di rampogna e di obbrobrio preliminare. Per lui è sempre pronta e imprevedibile la punizione. Punizione per la sua scelleratezza o punizione per essere?
Conflagrazioni immense sono presunte, assestamenti cosmici nei quali confliggono male e bene. L’azione di Satana è fortissima, il Tuo regno deve continuamente venire (advenire). Solo se riusciamo a tenere stretto questo nesso tra il pericolo imminente e le offerte di scampo, il testo dell’Apocalisse può avere presa su di noi. Esso non è commemorativo, non è incitativo, ma trasfigura una situazione permanente della Chiesa, o meglio dei devoti a Cristo, dell’uomo mortale.
Perché l’umanità deve subire tante prove, perché le cornucopie degli angeli versano tutti quei guai sulla specie degli uomini?
Qual è il loro debito, che cosa devono espiare? Questo, torno a ripetere, è il grumo oscuro che è difficile sciogliere. Intanto sulla miseria e le pene degli uomini si snoda la ritualità trionfalistica della Chiesa celeste.
Essa, Gerusalemme sovrannaturale, scenderà sulla terra; fino ad allora la giustizia non ci sarà. Siamo dunque associati al dramma del mondo? Siamo chiamati ad esserne parte? O dobbiamo per meraviglia assistere a una definitiva vittoria? Certo il superiore evento con la sua rivelazione si sviluppa per l’uomo in forme e prodigi che come tali si presentano. L’uomo è dunque un attante, sia pure non proto ma deutero-agonista. A che titolo di dignità, abiezione, a che grado di responsabilità e mistero? Ben poco di 'apocalittico' rimane nella nostra corrente accezione di apocalisse, che intendiamo comunemente come catastrofe, abnormità mostruosa, rottura incommensurabile dell’ordine e dello schema. Tuttavia un senso profondo rimane a legittimare questa correlazione. I termini di una tragedia generale dell’uomo possono essere variati, ma permangono gli effetti di una incalcolabile causalità. L’apocalisse che abbiamo vissuto nel secolo scorso, nelle sue varie fasi, non ci dice gran che in quanto a svelamento ed è anche troppo banale come prefigurazione del futuro. Abbiamo visto soprattutto la distruzione dell’uomo come creatura; la sua cancellazione come entità distinta, la sua nullificazione come individuo in sé compiutbo e dunque la sua riduzione a numero, la sua svalutazione totale come essere vivente. Abbiamo visto questo prima nel processo aggregativo del capitalismo trionfante, sotto l’aspetto di massificazione; l’abbiamo visto sotto l’aspetto di genocidio nazista, nell’universo concentrazionario sovietico; nell’immane scempio perpetrato dai Khmer rossi. Ogni volta la grevità assoluta e irreparabile dell’accaduto schiacciava il nostro pensiero e non lasciava margine per alcun simbolo e per la sua interpretazione. L’uomo nell’occhio del ciclone come noi siamo clamorosamente stati è forse il meno idoneo a ricevere il conforto e l’ammonimento della profezia? Della profezia che lo riguarda?
Di riflesso nasce tuttavia il sospetto che la profezia in realtà non lo riguardi e che la grande ostensione sia nel cielo per i celesti e sia al termine di una contesa capitale in cui il Male sia stato vinto e a Satana rimanga un forte ma angusto potere. L’umanità è vista del resto in grandi ammassamenti ed è oggetto di recriminazione in sé. A questo punto è bene concederci un’ampia e indefinita premessa sulla nostra natura prima di avanzare nel nostro tema: una di quelle premesse philosophiques di cui erano maestri i pensatori illuministi. Ognuno nel proprio campo riprendeva alla base il principio sulle origini del linguaggio, sull’ineguaglianza tra gli uomini, eccetera. In questo caso sui caratteri della religiosità umana sarebbe la materia della riflessione di fondo.
L’eccezionalità dell’Apocalisse infatti è l’effetto dell’enfasi di prodigi e di aspettative impliciti nella religione come tale. Chi riceve senza particolare reattività l’Apocalisse, sia essa o no il testo giovanneo che la tradizione ha lasciato alla sua difficile identità, si investe dell’essenza del sacro come di un primordio necessario. Ci sarà certo da tener conto di una predilezione profetica della mente israelitica, di un filone della poiesis particolarmente caro alla sensibilità e alla fantasia degli Ebrei, tuttavia si entra nel religioso, forse nel religioso al quadrato, quando sprofondiamo nelle pagine dell’uomo di Patmos. Dunque la prima convinzione soggiacente a ogni altra che nel testo si esprime è la certezza di un ordine soprannaturale. La seconda è che l’ordine oltre di noi o meglio l’ordinamento celeste non si limita ad affermare ostensivamente e simbolicamente la sua perfezione ma coinvolge l’umanità.
Purtroppo è un grande debito che l’umanità deve pagare per essere degna. La terza è piuttosto un sentimento: il sentimento dell’antagonismo. Per quanto l’opera sia concepita come trionfo finale dell’assoluta giustizia nel grande conflitto, la presenza del Male, la potenza avversa hanno molta forza di contrapposizione. Il regno di Dio deve avvenire, la figurazione fantastica del monstrum è un’altra richiesta dell’umano al religioso nella specie della minaccia e della consolazione, di ciò che incombe, di ciò che è con noi dalla nostra parte. A parte i riferimenti alle difficili sanguinose vicende della Chiesa nascente che molti esegeti ritrovano, l’Apocalisse è da considerarsi un exemplum ora rituale ora pitico davvero ispirato al sacro ed al santo. Il paradosso che colpisce la nostra mens (la nostra mentalità occidentale) è che lo 'svelamento' inerente alla nozione stessa di apocalisse si sviluppi in una serie di visioni da decifrare.
Eppure questa fusione di manifestato e di occultato entra nella alta poesia dell’Europa a partire da Dante, che non la riesuma, piuttosto ne prolunga la tradizione poco divulgata ma costante nella cultura religiosa.
Perché l’umanità deve subire tante prove, perché le cornucopie degli angeli versano tutti quei guai sulla specie degli uomini? Qual è il loro debito, che cosa devono espiare?
Questo, torno a ripetere, è il grumo oscuro che è difficile sciogliere.
Intanto sulla miseria e le pene degli uomini si snoda la ritualità trionfalistica della Chiesa celeste

«Avvenire» del 9 gennaio 2011

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