05 novembre 2010

Sinistra, perché si può ancora distinguere dalla destra

Ideologie. Politica omologata nel mondo globale
di Michele Salvati
La somiglianza tra i partiti sul piano delle scelte concrete non significa che la materia del contendere sia esaurita
«Destra e sinistra: che noia! Ancora se ne parla? Ancora non si è capito che, se questi concetti una volta avevano un senso, oggi non è più così? Che oggi i politici, al di là della retorica dei programmi, fanno più o meno le stesse cose? E che persino le retoriche si sono avvicinate tanto da essere difficilmente distinguibili? Cameron e Fini sono di destra? Blair e Schröder erano di sinistra?». Così sbotterebbero oggi molti di coloro che, ieri, sull’esistenza e sul contrasto di destra e sinistra hanno giocato la loro esperienza politica.



Traggo spunto da un libro appena pubblicato dal Mulino - Franco Cazzola, Qualcosa di sinistra. Miti e realtà delle sinistre al governo- per esporre tre convinzioni che mi sono formato da tempo.



A) La prima è che, sul piano dei princìpi, destra e sinistra definiscono due posizioni politiche - due visioni della società desiderabile - non solo diverse, ma nettamente contrastanti. Anche oggi, non meno di ieri.



B) La seconda convinzione è che sul piano delle politiche concrete - di quello che i partiti di destra e sinistra fanno quando sono al governo, o addirittura dichiarano di voler fare quando sono all’opposizione - una distinzione altrettanto chiara oggi non è possibile e dunque i cittadini che sono annoiati o irritati quando sentono parlare di destra e sinistra hanno buoni motivi per esserlo.



C) Illustrerò più avanti la terza convinzione. Essa si è formata cercando di rispondere a questa domanda: se la differenza tra destra e sinistra è così netta sul piano dei principi, come mai non la si ritrova sul piano delle pratiche effettive dei partiti? Perché i partiti di sinistra non fanno o almeno non dicono «qualcosa di sinistra»?



Gran parte del saggio di Cazzola riguarda il punto b) e tratta delle politiche attuate dai partiti di sinistra in tredici Paesi europei dal dopoguerra ad oggi: sono state diverse da quelle delle destre? Detto altrimenti: sul piano delle decisioni di governo, un partito di sinistra fa veramente differenza? Dovendo però collegare i programmi ai princìpi, le azioni di governo ai partiti che appartengono alle due diverse famiglie politiche, una trattazione del punto a) risultava inevitabile e infatti l’autore l’affronta nel primo capitolo. Per i propositi che si pone possono bastare i pochi flash che egli trae dalla sterminata letteratura sul problema. Ma per mostrare che i princìpi i quali distinguono destra e sinistra sono mutati poco da quando vennero forgiati nel clima rivoluzionario della fine del XVIII secolo, che tuttora essi sono in forte contrasto, e che l’attuale somiglianza tra i partiti sul piano delle politiche non è dovuta né ad una attenuazione del conflitto tra i principi, né all’esaurimento della materia del contendere... per dimostrare tutto questo bisogna scavare più a fondo.



Bisogna partire da quello che, con Martinelli e Veca, abbiamo chiamato Progetto 89 (Il Saggiatore, 2009) e mostrare che tale progetto - il progetto della sinistra - è ancora difendibile teoricamente e radicale nelle sue proposte di riforma: per convincersene basta leggere il delizioso libretto di Gerald A. Cohen Socialismo, perché no?, appena pubblicato da Ponte alle Grazie. Promuovere comportamenti e creare istituzioni che consentano a tutti di sviluppare liberamente le proprie facoltà; favorire una reale eguaglianza di opportunità e andare oltre, aggredendo tutti i vantaggi/svantaggi di cui non si porta merito/demerito, anche quelli dovuti a cause naturali o alla fortuna; rendere ogni cittadino attivo nelle deliberazioni politiche della propria comunità attraverso un incessante stimolo alla partecipazione democratica: sono tutti obiettivi - altri se ne possono aggiungere - che discendono dai princìpi della grande rivoluzione, da liberté, égalité, fraternité, e che oggi non sono stati approssimati neppure dove i diritti politici e sociali sono difesi al massimo grado, nei mitici piccoli Paesi del Nord Europa. Un libro straordinario da poco tradotto in italiano, la summa delle ricerche di una vita del maggiore economista e filosofo politico contemporaneo (Amartya Sen, L’idea di giustizia, Mondadori), fornisce una giustificazione moderna e robusta del più che bisecolare Progetto 89, una formidabile batteria di strumenti teorici di cui possono avvalersi coloro che intendono porre rimedio a diseguaglianze ingiustificate e vogliono combattere contro l’ingiustizia. Non dovrebbero essere, costoro, i seguaci della sinistra? Perché allora i partiti di sinistra non si oppongono con coraggio a diseguaglianze e ingiustizie, anche evidenti e offensive? Perché sembrano altrettanto esitanti e cauti dei partiti di destra, giustificando l’impressione comune che destra e sinistra non facciano differenza? Quali forze li trattengono?



Prima di affrontare questo problema bisogna controllare che la sorprendente convergenza tra destra e sinistra, non solo nei risultati ottenuti dai governi ma nelle stesse proposte dei partiti, ci sia effettivamente; bisogna misurarla e vederne i diversi aspetti in differenti Paesi e fasi storiche: è quello che Cazzola fa nella parte maggiore del suo saggio. Qui non possiamo seguirlo da vicino perché l’analisi è molto articolata. Il lungo periodo postbellico è distinto in tre sottoperiodi (dal 1946 al 1974; dal 1975 al 1991; dal 1992 al 2007). Per tener conto di influenze culturali, economiche e istituzionali comuni i 13 Paesi sono divisi in quattro sottoinsiemi (le piccole democrazie consociative, Austria, Belgio e Olanda; le democrazie scandinave, Danimarca, Norvegia e Svezia; le grandi democrazie europee, Francia, Regno Unito e Germania; le nuove democrazie, Spagna, Portogallo e Grecia), cui si aggiunge una «sorvegliata speciale», l’Italia. Dopo di che si considerano alcune variabili economiche manipolabili dai governi e che dovrebbero segnalare il loro orientamento di destra o di sinistra (entrate e uscite dei bilanci pubblici in rapporto al Pil, disavanzi e debito, pressione fiscale e imposizione diretta e indiretta, entità e natura delle spese pubbliche). Infine si valutano, come esiti, la crescita, l’inflazione e la disoccupazione tra i dati macroeconomici; gli scioperi come indicatori di consenso/dissenso; la distribuzione della ricchezza e del reddito come indicatore di giustizia sociale.



In che misura, per quali Paesi, in quali periodi, risulta confermata l’ipotesi che... la sinistra si comporta come sinistra? Che amplia i compiti del settore pubblico, soprattutto per spese di welfare? E che ottiene, tra i risultati, una distribuzione del reddito meno diseguale, eventualmente a discapito di una maggiore inflazione e maggiori deficit? La conferma è dubbia e parziale - in alcuni Paesi, in alcuni periodi, per alcuni obiettivi la sinistra si comporta come sinistra e in altri no - ma devo rinviare al libro per una valutazione analitica dei risultati. Qui mi limito a osservare che il procedimento adottato da Cazzola è qualitativo e descrittivo e non consente conclusioni controllabili statisticamente. Una valutazione d’insieme è però robusta e la riassumerei così.



Gli esiti di «sinistra» sul piano delle variabili macroeconomiche e distributive considerate dipendono da tre ordini di cause. Cause strutturali profonde, di natura economica, istituzionale, sociale e culturale. Questo lo si vede bene confrontando i quattro gruppi di Paesi: al netto di tutte le altre influenze, i piccoli Paesi nordici e consociativi hanno esiti migliori degli altri, e soprattutto dei Paesi di nuova democrazia. Cause legate alle grandi fasi del regime economico-politico internazionale: durante i trent’anni dell’età dell’oro, dalla fine della guerra sino alla chiusura degli anni Settanta, era facile ed elettoralmente pagante fare «cose di sinistra», e le facevano anche i governi conservatori, non solo i socialdemocratici. Nei trent’anni successivi, durante il regime neoliberale e globalizzato, la situazione si è rovesciata, e anche i partiti di sinistra sono costretti a fare «cose di destra»: gli esiti d’insieme sono quelli splendidamente descritti da Andrew Glyn (Capitalismo scatenato, Brioschi editore). E infine, forse meno importanti delle altre due ma pur influenti in alcuni momenti e per alcuni Paesi, cause legate all’ideologia dei partiti di governo, al loro essere di destra o di sinistra. Vincolati da eredità storiche di natura sociale, istituzionale, economica e culturale di difficile modificazione, da un lato, e condizionati dal regime economico-politico internazionale prevalente, dall’altro, i governi di sinistra dispongono di margini di manovra ristretti per assecondare i propri orientamenti ideologici, ma «qualcosa di sinistra» qualche volta riesce a passare. Si tratta di conclusioni acquisite da tempo, ma che Cazzola illustra con ricchezza di dettagli.



Concludendo. Gli orientamenti ideologici dei partiti al governo contano, ma non tanto da sconfiggere l’impressione diffusa che se non è zuppa è pan bagnato; che, una volta al governo, e quale che sia il loro orientamento, i politici fanno «più o meno» le stesse cose e dunque la smettano di annoiarci con la destra e la sinistra. È un’impressione comprensibile ma che va combattuta, e per due motivi. Il primo è che nel «più o meno» possono celarsi differenze significative, del tutto sufficienti a giustificare una scelta elettorale per l’una o per l’altra parte: non l’abbiamo messo in rilievo perché Cazzola si limita a indicatori di policy di natura quasi esclusivamente macroeconomica, quelli in cui i margini di autonomia dei singoli governi sono minori. Ma non c’è solo la macroeconomia e nelle altre politiche i grandi princìpi, meno costretti da vincoli esterni, possono esercitare una notevole influenza: bioetica, laicità, immigrazione, politica estera, legislazione del lavoro, istruzione, politiche di genere non sono temi meno significativi degli stanziamenti in tema di welfare o del rapporto tra spesa pubblica e Pil. Insomma, basarsi prevalentemente su dati macro può dare un’impressione ingannevole su quanto è di sinistra/di destra un partito o un governo. Il secondo motivo è ancor più importante: quell’impressione va contrastata perché porta discredito non solo su partiti e governi, ma sugli stessi princìpi. Destra e sinistra sarebbero parole vuote, paraventi ideologici senza spessore, pretesti per celare un puro gioco di potere da parte di politici meschini e auto-interessati. Non è così: anche se i politici sono spesso meschini e auto-interessati, in quelle parole si riassume l’intera storia della politica contemporanea europea e vanno prese sul serio. Ma allora perché il contrasto tra i princìpi non riesce a trasformarsi in una netta opposizione di scelte politiche da parte dei partiti che affermano di condividerli?



La risposta a questa domanda esprime la mia terza convinzione, il punto c) di cui sopra: questo avviene perché, una volta che la sinistra ha abbandonato la grande narrazione socialista, e con essa il disegno di una collettivizzazione dei mezzi di produzione; una volta che ha accettato il mercato e la proprietà privata; una volta che ha deciso di giocare la sua partita riformisticamente, dentro il capitalismo mondiale, essa affronta una situazione difficile, una fatica di Sisifo, come la rappresento in un mio saggio recente (Capitalismo, mercato e democrazia, Mulino). La situazione è difficile perché gli strumenti della sinistra riformista sono quelli della democrazia, e dunque dello Stato nazionale, l’unico nel quale opera qualcosa che alla democrazia assomiglia, mentre le forze che la sinistra dovrebbe controllare sono quelle del capitalismo globale. E per controllarle non basta la volontà di una singola democrazia, di un singolo Stato, per di più - nel caso italiano - scarsamente rilevante negli equilibri geopolitici mondiali: finché non si realizzerà l’utopia di una democrazia cosmopolitica, il controllo può essere ottenuto solo attraverso faticosi accordi internazionali. Certo, parte integrante della politica di un Paese dovrebbe essere la ricerca di questi accordi, di un’architettura di regole internazionali che siano in grado di prevenire crisi disastrose come quella esplosa due anni fa. O di rallentare pressioni competitive che creano profondi disagi per i ceti più deboli, per i lavoratori esposti alla concorrenza internazionale. Ma se questi accordi non si riescono a fare, se gli altri Stati si oppongono per ragioni di interesse nazionale, se un Paese si trova a combattere da solo, nel contesto delle regole che oggi prevalgono, qual è la risposta? C’è una risposta di sinistra e una di destra al caso Pomigliano? È di «sinistra » la risposta della Fiom ed è di «destra» quella di Ichino? Se si risponde nel primo modo, la risposta, pur comprensibile, rischia di essere dannosa. Se si risponde nel secondo, come si fa a evitare l’impressione che destra e sinistra siano indistinguibili?







L’autore



Michele Salvati (1937) insegna Economia all’Università di Milano. È stato parlamentare nel gruppo Ds-Ulivo ed è editorialista del «Corriere della Sera». Tra i suoi libri: «Sinistra o cara» (Il Mulino, 1995); «Occasioni mancate» (Laterza, 2000); «Capitalismo, mercato e democrazia» (Il Mulino, 2009)
«Corriere della Sera» del 25 ottobre 2010

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