11 ottobre 2010

Gli espatriati della scuola

Ragazzi, italiani, insegnanti stranieri
di Ernesto Galli Della Loggia
Nella crisi italiana non c’è solo l’economia. Qua e là affiorano sintomi di altra natura che hanno un significato forse ancora più grave: sintomi di un domani alle porte nel quale ad essere colpiti finiranno per essere la nostra stessa identità collettiva, il senso del nostro stare insieme come Paese. Tra questi uno mi appare più inquietante degli altri: da qualche tempo le élites italiane non mandano più i figli alle scuole italiane. Non sto dicendo che non li mandano più nelle scuole pubbliche, preferendo quelle private. Accade massicciamente anche questo, ma ormai accade che non li mandino più nelle scuole in cui comunque si parla italiano e dove s’impartiscono programmi italiani. Perlomeno nelle grandi città un numero sempre maggiore di persone agiate sceglie per i propri figli scuole francesi, tedesche, o perlopiù anglo-americane. Fino a qualche anno fa il fenomeno riguardava essenzialmente l’università. Chi poteva permetterselo mandava i figli a studiare, o almeno a specializzarsi, fuori d’Italia. Ora invece questa scelta riguarda sempre più spesso anche la scuola superiore e ormai, sembra di capire, la stessa scuola elementare. Cifre non ne conosco, ma ho l’impressione che la cosa coinvolga già migliaia di giovani delle classi superiori. È impossibile non vedere che cosa tutto ciò significhi. È la prova certamente del decadimento del nostro sistema d’istruzione, vittima di un marasma organizzativo e di uno sfilacciamento culturale grazie ai quali hanno avuto sempre più spazio prepotenze corporative di ogni tipo: da quelle dei professori universitari a quelle dei sindacati degli insegnanti. Ma tutto ciò non può impedire di vedere che dietro la diserzione dei giovani figli delle élites dalla scuola del proprio Paese c’è ben altro; e non certo il desiderio di imparare bene una lingua straniera. C’è in generale il progressivo, profondo, sentimento di dissociazione psicologica e spirituale degli italiani dalla dimensione della collettività nazionale. Che si esprime soprattutto nella convinzione che per la propria identità, per il proprio modo di essere e di sentire, per ciò che si è, e dunque per quella dei propri discendenti, la storia, la letteratura, l’arte italiane - per l’appunto ciò che si apprende (o si apprendeva) nella scuola - non hanno più alcun valore particolare. Questa repulsa del nostro passato esprime la convinzione che ormai questo Paese come tale non ha più alcun futuro: intendo un futuro in qualche modo specificamente suo, che porti impressi le caratteristiche, le vocazioni, la storia, il genio, suoi propi, se così posso dire. La convinzione che tutte queste cose, se mai esistono, tuttavia sono ormai fuori gioco, e dunque inutili. Come fuori gioco e inutile appare la nostra lingua; che nel Mondo Nuovo globale, com’è ossessivamente definito, l’Italia in quanto tale non ha più molto da dire. Ecco perché, allora, è meglio cercare di diventare belle o brutte copie degli inglesi o degli americani che restare italiani condannati per sempre alla serie B. In altri tempi si sarebbe detto che proprio, se non soprattutto di queste cose, una classe politica degna del nome dovrebbe preoccuparsi ed occuparsi. Ma erano altri tempi, per l’appunto. Adesso, il solo parlarne suona perfettamente inutile. Certi discorsi e il loro oggetto appaiono destinati irrimediabilmente a finire nel malinconico mare dei ricordi.
«Corriere della Sera» del 9 ottobre 2010

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