04 luglio 2010

Un liceale su tre non sa scrivere in italiano

Bravi a parlare, i ragazzi dopo 13 anni di studi stentano a usare la parola scritta
Dal rapporto Invalsi sugli allievi degli istituti superiori il quadro di una scuola che non riesce a insegnare una scrittura accettabile
di Mario Baudino
Sanno parlare, e bisogna ammettere che quando vanno in tv lo dimostrano non senza petulanza; in compenso, non sanno scrivere. Più della metà degli studenti che l’anno scorso hanno affrontato la maturità sono stati giudicati insufficienti per quanto riguarda le loro competenze linguistiche dagli esperti dell’Invalsi, l’ente che certifica il livello di preparazione dei nostri ragazzi.
Viene pubblicato oggi il rapporto sugli esami di Stato per il secondo ciclo, una ricerca condotta insieme con l’Accademia della Crusca su un campione di 545 studenti elaborato dall’Istat. Il risultato è sconfortante: i temi di italiano risultano «bocciati» per il 36,1 per cento nei licei, per il 69,4 negli istituti tecnici, e per l’87 nei professionali. Se aggiungiamo gli «appena sufficienti», le percentuali nei licei sfiorano l’80 per cento, e nei tecnici e professionali sfondano quota 90.
Ciò non significa che ci sia stata un’ecatombe di bocciati, al contrario. Significa però, come sottolinea con amarezza la professoressa Elena Ugolini, del consiglio di indirizzo dell’Invalsi, che «dopo 13 anni di scuola ci troviamo davanti a ragazzi di un’estrema povertà dal punto di vista linguistico. La mia rabbia è constatare che non siamo riusciti a insegnare loro a scrivere». Quattro erano le aree sulla cui base sono stati giudicati i temi: testuale (cioè la capacità di organizzare e riconoscere un testo), grammaticale, lessicale e ideativa. E quattro restano le aree di competenza su cui si è abbattuta la bocciatura, anche se con qualche differenza fra un corso di studi e l’altro.
Il professor Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, fa notare che nei licei c’è maggiore correttezza ortografica, ma per fattori sociali e culturali, visto che la lingua parlata si impara in casa propria, o nel proprio ambiente, in modo naturale. Dove è più importante l’insegnamento «esplicito» - un caso potrebbe essere l’uso della punteggiatura - «anche nei licei la padronanza è debole». Tutti questi studenti, però, hanno superato l’esame. Com’è possibile? «Le commissioni di maturità hanno valutato il curriculum scolastico» spiega la professoressa Ugolini, e non è questione di gettare su di esse la croce.
L’indagine Invalsi (da non confondere con la prova che è inserita nell’esame di terza media: si tratta di una ricerca d’altro tipo, che infatti riguarda anche la matematica) ha una logica diversa: verificare la competenza per quanto riguarda l’italiano scritto, e si avvale di contributi specialistici importanti, come quello di Sabatini o del linguista Luca Serianni. Ognuno dei 545 elaborati d’esame, cancellate le correzioni e i giudizi, è stato riesaminato da due diversi insegnanti sulla base di una nuova griglia di valutazione, quella appunto che tiene conto di quattro campi fondamentali. Alla fine tutti i compiti avevano così tre voti: e, come da un mostro con tre teste, è emersa la «spaventosa fotografia».
Ci aiuta a riassumerla la professoressa Daniela Notarbartolo, che ha lavorati su molti di questi temi. Sul piano testuale, un tipico errore è il non andare mai a capo (è vero che gli antichi non se ne preoccupavano granché, ma insomma adesso bisogna farci attenzione); in più i maturandi non sembravano preoccupati dei nessi logici tra un blocco di testo e quello successivo, né dei rimandi interni, con conseguenze deleterie sulla coerenza e la coesione dell'insieme. Trattandosi di una generazione cresciuta col web, con Mac e Windows, espertissima nella grafica, colpisce la scarsa coscienza del fatto che la pagina scritta ha caratteristiche grafiche.
C’è poi l’aspetto grammaticale: a parte gli errori veri e propri (salti di soggetto, concordanze, ambiguità, uso improprio di tempi e modi del verbo o di congiunzioni e avverbi anche banali, come fortunatamente o infatti), la pecca maggiore è nella incapacità di usare il linguaggio in modo flessibile. Un’identica struttura di frase finisce col ripetersi all’infinito, sempre la stessa. Ma non basta. Seri guai si annunciano anche sul piano del lessico: è povero, tanto che molti ragazzi non distinguono fra apportare e asportare, installare e instaurare, transizione e transazione. Al di là delle parole più abituali, c’è un ricorso continuo alle virgolette perché non si trova il termine adatto. Infine, la competenza ideativa: a monte dell’errore più diffuso c’è sostanzialmente la carenza di idee o tesi da esporre e argomentare. Ragion per cui si accumulano periodi a catena senza dare una gerarchia agli argomenti, si divaga, non si conclude.
L’obiezione sorge spontanea: ma perché prendersela tanto con gli studenti visto che di questi errori non hanno certo l’esclusiva, anzi li condividono con una moltitudine di parlanti, italofoni immaginari spesso dotati di grandi e piccoli pulpiti? La riposta è ovvia: proprio per spezzare questo circolo vizioso bisogna riuscire a insegnare finalmente l’italiano. Come scriveva il maestro D’Orta titolando un suo ormai lontano best seller, io speriamo che me la cavo. Al momento non è affatto detto.
«La Stampa» del 30 giugno 2010

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