26 luglio 2010

Ma il mio '68 non fu quello di De Felice

di Paolo Sorbi
Tutti i miei interventi testimoniano che se c’è un «sessantottino» fortemente critico del proprio passato e della propria generazione impegnata, questo è il sottoscritto. Perciò sono rimasto colpito, abbastanza negativamente, dall’analisi di Renzo De Felice, storico di alto valore, riportate nel saggio di Giuseppe Parlato su «De Felice, il Sessantotto e la difesa dello stato di diritto» della rivista «Ventunesimo secolo» e di cui ha parlato ieri su «Avvenire» Paolo Simoncelli. Stranamente De Felice «fa di tutt’erbe un fascio». Mi si permetta la battuta, dati i poderosi studi del grande storico. Egli poi confonde e riduce i «tanti ’68» a quello del movimento romano e anche in questo caso non problematizza le diverse anime e le tante tematiche ricche di spunti: basta leggersi i documenti delle facoltà di Fisica e Architettura. Ma quali «nazisti di sinistra»? Certamente non aver compreso che il neofascismo degli anni ’70 (e oltre) fosse uno strumento di irrazionalità sociale fu «nostra» debolezza che ci indusse a una certa sottovalutazione delle dinamiche democratiche, ma da questo a negarne la nuova consistenza antidemocratica e concreta, anche su scala internazionale, è a mio parere un limite nelle analisi dello storico di Rieti. Delle differenti sedi del movimento di allora, ne indico alcune che mi stanno a cuore: Trento, Torino, Pisa, l’Università Cattolica di Milano che, in modo complesso, furono percorse dal meglio della cultura sociologica e politologica del Novecento europeo. Dai «francofortesi» Adorno, Marcuse e Habermas, ai grandi della sociologia come Weber e Schumpeter, ovviamente al giovane Marx teorico del «capitalismo delle grandi macchine», a Freud, per non dimenticare un articolato filone cristiano che andava misurandosi con i temi della modernità, che preparava il Concilio Vaticano II come le teologie di De Lubac, Congar, Barth e, perché no, gli innovativi studi del teologo Joseph Ratzinger. Allora: tutto razionalismo antistatalistico? Mai scordare il collegarsi anticorporativo e generoso con la classe operaia e gli impiegati, dello studio delle tante innovazioni e culture d’impresa. Perché dimenticare le ricerche sociali che misero in luce, da allora, le migliaia di «partite Iva» che emersero in tante aree di tutta Italia? Fu il limite di quella di cultura idealistica-storicista, da Croce a Gentile a un «certo» Amendola passando per De Felice, nell’essere giunta irrigidita ed estenuata al tornante di svolta sociale che fu il decennio ’68-’78. Non è retorica. È il mix di quell’antico filone di storia culturale nazionale e di ceto politico «giolittiano» intrecciatosi con cascami sessantottini, che ha bloccato la circolazione delle élites nel nostro Paese nei decenni successivi. Arrivando sino ad oggi, brutalmente escludendo le indebolite giovani generazioni. Certamente l’immaginazione sociologica emerse da quegli anni con maggiori capacità di ricerca sui territori, sui nuovi consumi, sui nuovi soggetti sociali e movimenti collettivi anche dentro le chiese e gli spazi religiosi. Tutto nichilismo? Non direi proprio.
«Avvenire» del 23 luglio 2010

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