05 luglio 2010

Consigli alla sinistra europea dopo la nomina di D'Alema

Deputato del Pd esorta a sgombrare il campo da luoghi comuni, pregiudizi e approcci strumentali
di Franco Monaco *
Ha ragione chi, in coincidenza con la nomina di D’Alema alla guida della Fondazione culturale della sinistra europea, ha rimarcato il nesso tra la proiezione europea del Pd e il suo profilo identitario. Una questione cruciale per la quale, allo stato, nessuno ancora dispone di una ricetta risolutiva, tantomeno io. Forse è giusto e bene che sia così. Tale umile consapevolezza è la precondizione per dare corso appunto a quella ricerca aperta e comune. Qui, il mio solo, modesto proposito è quello suggerire qualche spunto su come impostare il problema. O ancor meno: di sgombrare il campo da luoghi comuni, pregiudizi, approcci strumentali a fini di posizionamento interno al Pd. Non più di questo.
Le due bussole sicure della sensibilità e dell’iniziativa politica del Pd in Europa sono l’europeismo e il riformismo (cifra da precisare e svolgere) e il corollario è una chiara scelta di campo tra le forze di centrosinistra in Europa. Al proposito, si richiedono innanzitutto realismo, rinuncia a velleità e provincialismi. Noi abbiamo una situazione ed esigenze specifiche, connesse alle peculiarità della nostra storia politica e culturale (in sintesi: questione romana a Pci), ma il mondo non ruota intorno a noi. Mi spiego: osservando il concreto panorama politico europeo, non si può non concludere nel senso di un rapporto privilegiato con i socialisti europei. Un posizionamento alternativo alle formazioni conservatrici e segnatamente al Ppe e una chiara distinzione dalle forze liberali centriste. Del resto domando: quando si tengono elezioni nazionali in giro per l’Europa, per chi “tifiamo” noi tutti del Pd se non per le formazioni progressiste gran parte delle quali di ispirazione socialista? Aggiungo e preciso: non alleandoci con i soli socialisti, ma con tutte le forze progressiste di varia estrazione. Dunque, con i socialisti ma “oltre il paradigma socialista”. Formula generica, va riconosciuto, ma che disegna un vasto campo di ricerca e di elaborazione politica cui non possiamo rinunciare.
Di sicuro si deve assimilare il portato buono della rivoluzione liberale: autonomia personale, stato di diritto, separazione dei poteri, economia di mercato, nuovo welfare, uguaglianza delle opportunità… Tuttavia si deve pure riconoscere, da parte dei detrattori del socialismo europeo (che lo liquidano sbrigativamente come esaurito), che una tale operazione, un tale innesto già è stato fatto dentro la vasta famiglia socialista e con risultati non disprezzabili. Penso al new labour inglese o al “nuovo centro” tedesco. Giustamente oggi si segnala l’insufficienza del paradigma socialista. Ma noto che, per ragioni connesse alla dinamica interna del Pd, oggi i più critici sono coloro che, nel recente passato, altrettanto giustamente, ci ammonivano a non fare del socialismo europeo una caricatura datata. Ci facevano osservare, per esempio, come i laburisti e i socialisti europei più illuminati erano già immuni da logori schemi statalisti e da pregiudizi laicisti; che quei partiti non erano impermeabili a istanze cristiane; che erano per l’appunto cristiani taluni leader socialisti europei di prima fila come Delors, Blair, Gutierres, Socrates.
Oggi, semmai, anche alla luce della crisi sistemica e di modello del capitalismo denunciata anche dalla recente enciclica sociale “Caritas in veritate”, è da chiedersi se non si sia esagerato nella subalternità culturale e politica al mercatismo, se non si sia trascurato un beninteso egualitarismo e il compito regolativo e distributivo dei pubblici poteri. E’ tempo di correggere una distorsione del senso assegnato alla stessa sigla “riformista”, un significato che ne misconosce la tensione al cambiamento dei rapporti sociali nel senso di un di più di uguaglianza e di giustizia, per ridurlo a moderazione o, al più, a generica apertura all’innovazione (parola magica e passepartout, sottratta a un giudizio di valore etico-politico). Piuttosto – ha ragione Mauro Ceruti – è da esplorare di più (ma da elaborare e non solo da declamare) il contributo che può venire dalla prospettiva personalistica cristiana e segnatamente dall’istanza comunitaria e dal principio di sussidiarietà che affondano lì le loro radici.
Ma quest’ultima è questione troppo seria per essere brandita strumentalmente a fini di posizionamento e di negoziazione interna al PD sugli organigrammi. La questione posta da Franco Marini e altri (del rischio di egemonia e di “reductio ad unum” di un partito nativamente plurale) è questione seria e che esiste, ma essa va posta con franchezza nei suoi reali e crudi termini: è problema di potere che va affrontato come tale, da non spacciare come questione di idee e di cultura, cioè di base ideologica del PD. Essa attiene alla governance del partito, alla sua forma organizzativa e alle sue pratiche. E’ doveroso distinguere i problemi, chiamando le cose con il loro nome, anche per non regredire rispetto a un Congresso che certo non ha sciolto tutti i nodi, ma almeno ha rappresentato un indubbio passo in avanti nel rimescolamento. Nel PD ci si deve stare “uti singuli”. L’opposto di un modello surrettiziamente (e regressivamente) federativo del PD, nel quale gli ex Popolari si ricostituiscano come soggetto unitario con una loro quota di minoranza. Un balzo indietro anche rispetto a un positivo passaggio generazionale di cui va dato merito soprattutto a Franceschini, che ambisce a interpretare una posizione politica, non a ereditare la corrente degli ex mariniani.
Giustamente, vi sono cattolici democratici di vario rito e posizionamento politico dentro un partito che ambisce ad essere unitario, nuovo e plurale. Essi figurano in tutte le componenti del partito e non solo in esso. Se hanno idee politiche, essi le facciano valere. Non ci si può limitare a un rivendicazionismo (identitario o “concretista”) ovvero a un un’azione di tipo meramente ostruzionistico e frenante. Di chi lamenta l’egemonia altrui e si rassegna a istituzionalizzare la propria minorità, senza conquistarsi un protagonismo in campo aperto. Con le idee, se ci sono, e con l’iniziativa politica aperta a tutti.
Sarebbe già un buon inizio un risoluto impegno a distinguere la religione (il cattolicesimo) dalle culture politiche (il popolarismo). Registro con disagio che spesso, ancor oggi, taluni ex Popolari si autodefiniscono “i cattolici” del PD. Confondendo così i piani, intestandosi una rappresentanza tropo impegnativa, nuocendo a una ben intesa laicizzazione del PD, ove, ripeto, ci si sta da Democratici. Nella consapevolezza che “cattolico” è categoria religiosa e non politica, da maneggiare con rispetto e parsimonia.
In un paese speciale e difficile come il nostro per i rapporti tra religione e politica, sotto questo profilo, dai cattolici impegnati nel PD ci si attende innanzitutto una cura gelosa della laicità. Uno dei lasciti migliori della più vera e genuina tradizione sturziana. Lasciamo alla destra l’uso e l’abuso politico della religione.
* coordinamento nazionale Pd
«Il Foglio» del luglio 2010

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