05 luglio 2010

Apocalisse alla napoletana

di Serena Danna
Troppo facile prendersela con gli intellettuali di sinistra. A cominciare da Pier Paolo Pasolini che, nel trattato Gennariello (uscito a puntate nel '75), a proposito di Napoli ebbe a definire il furto addirittura uno «scambio di saperi». Pasolini, che era certo di larghe vedute quanto a società e miserie umane, scriveva: «Un giorno mi sono accorto che un napoletano durante un'effusione di affetto mi stava sfilando il portafoglio, glielo ho fatto notare e il nostro affetto è cresciuto». Ma già sei secoli prima delle tentazioni pauperiste di una certa intellighenzia di sinistra, Boccaccio descriveva l'arrivo a Napoli del mercante di cavalli Andreuccio da Perugia come una discesa agli inferi condita di prostitute, preti profanatori di tombe e ladri di tutti i tipi.
Dal tenero Andreuccio fino alla "narrativa della munnezza" dei giorni nostri, non si riesce a parlare di Napoli senza staccarsi da un immaginario di unicità e di emergenza. Anche quando il racconto partenopeo si preannuncia «di speranza», o «di rinascita», o ancora «oltre la retorica della denuncia» (altra formula di moda tra i geni del marketing editoriale), non si scappa. A cambiare sarà solo il lessico del romanzo che – come le sue recensioni – diventerà vittima di un trionfo avverbiale al suono di nonostante, malgrado, tuttavia. Perché Napoli anche se «felicissima» è comunque «disperatissima» (Antonio Ghirelli); non c'è «leggerezza» senza «tragedia» (Diego De Silva) e «l'ottimo e l'atroce si mischiano sempre» (Erri De Luca).
Così nel nuovo libro di Ruggero Cappuccio Fuoco su Napoli (Feltrinelli), che si apre con un annuncio: «Al massimo tra cinque mesi Napoli finirà di esistere. Al massimo tra cinque mesi Napoli non ci sarà più. I Campi Flegrei ci stanno preparando il benservito. La città sarà distrutta».
Eccola qua l'Apocalisse alla napoletana, raccontata attraverso la storia di amore e malaffari dell'avvocato Diego Ventre, che costruisce a tavolino un piano per approfittare dell'imminente catastrofe, e la bellissima Luce, che «rimaneva per i napoletani – scrive Cappuccio – l'ultima inquadratura possibile sulla bellezza, l'ultimo primo piano di armonia». Il romanzo, dice l'autore, nasce «da un profondo sentimento di indignazione».
Per lo scrittore, nato a Torre del Greco 46 anni fa, i napoletani hanno smesso di avere orizzonti: «Lo sguardo si è accorciato sempre di più, oggi camminano a testa bassa, toccando continuamente il portafoglio per vedere se c'è ancora». È il tradimento di una promessa. «Napoli era la città della natura e dell'abbraccio ma la deriva e l'oltraggio hanno preso il sopravvento: il risultato è che la grande madre Napoli non riesce più a mantenere le sue promesse e così il cittadino la prende a calci». «È una città che cannibalizza se stessa», o come Cappuccio fa dire alla signora Mimisa nel libro, «"Naples in the mirror forever". Napoli si è messa allo specchio e si è pisciata in faccia». Lo scrittore parla di Fuoco su Napoli come di «romanzo di risurrezione», dove la rinascita però è solo possibile, «anche se molto lontana». Minacciata da frasi che suonano come condanne divine – «Cazzo. Bordello. Caffè (...) Voi mi dovete dire come deve funzionare una città dove le parole d'ordine sono queste da secoli e secoli» – e «zaffate di sugo e fruttura nell'aria quasi spoglia di rumori». Sulle briciole di quotidianità e tiepida voglia di riscatto dei protagonisti aleggia inesorabile l'Apocalisse alla napoletana. «Gli scrittori che hanno messo la città in codice rosso lo hanno fatto per amore e preoccupazione, è un atteggiamento costruttivo», spiega Cappuccio.
Antonio Pascale, nato a Napoli ma cresciuto a Caserta, parla di una idea della città che si è «consolidata negli anni tanto da diventare un luogo comune». Per lo scrittore di Questo è il paese che non amo (Minimum Fax 2010), «tutto ciò che accade a Napoli, bello o brutto che sia, è sempre eccezionale e, da un punto di vista narrativo, si privilegiano volentieri personaggi e azioni estreme, più semplici da raccontare». L'eccezionalità di Napoli ha «un buon impatto sui lettori: più amplifichi il carattere simbolico della città – i quartieri spagnoli, la camorra, o'mare, o'Vesuvio – e più vieni percepito facilmente». Se è vero che Gomorra di Roberto Saviano ha risvegliato gli editor del settore (negli ultimi anni si sprecano i titoli che fanno riferimento esplicito al simbolismo apocalittico napoletano: da Scuorno di Francesco Durante fino all'ultimissimo Scampia Trip, 18 storie di ragazzi «senza coscienza»), non c'è autore, napoletano di nascita o di passaggio, che non abbia scelto l'eccezionalità per raccontarla. Alla fine del '700, nella parte dedicata alla città partenopea del suo Viaggio in Italia, Johann Wolfgang von Goethe scrive: «Tutti ci vivono in una specie di inebriata dimenticanza di sé, ed è una strana esperienza trovarsi con gente che non pensa ad altro che a godere». Benedetto Croce, esperto di storie e leggende partenopee, più o meno un secolo dopo descriveva l'atteggiamento «assai napoletano» di chi anche «dinanzi a dolorosi e sublimi avvenimenti si preoccupa soprattutto di non lasciarsi "fare scemo"». Sono gli anni in cui la 28enne reporter Matilde Serao, all'indomani del colera dell'estate 1884, condannava nel Ventre di Napoli «tutta questa retorichetta a base di golfo e di colline fiorite (...) che serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata con racconti di miserie».
«Bisogna faticare molto per decostruire questo immaginario», incalza Antonio Pascale, che se la prende con poeti, artisti e filosofi che hanno cercato di giustificare culturalmente la napoletanità: Pasolini con i moderni Tuareg (che invece che nel deserto vivono nel «ventre di una grande città di mare» e rifiutano la modernità) e i filosofi che vedevano nella «città porosa», priva di angoli retti, il motivo per cui a Napoli si passa con il rosso.
Diego De Silva, autore di Non avevo capito niente (Einaudi), ha una soluzione: non nominarla. Nei suoi racconti e romanzi la parola «Napoli» non compare mai. «Il solo nome, talmente carico di significati e simboli, non riesce a evitare che la zavorra della città sospesa tra apocalisse e risorgimento si impossessi della storia».
Proprio alla forza brutale della città pensava la scrittrice Anna Maria Ortese quando scelse (assieme a Elio Vittorini che dirigeva i gettoni Einaudi) il titolo La città involontaria per il suo racconto sui Granili, l'antica caserma borbonica occupata dai disperati della città, contenuto nell'opera Il Mare non bagna Napoli.
Se è vero, come diceva Italo Calvino, che è un «duro destino avere un destino», pare proprio che quello apocalittico di Napoli sia più forte della volontà dei singoli e delle storia.
«Napoli è una città leggendaria», spiega Erri De Luca che ha raccontato la sua città in tanti libri e articoli. «Il prurito catastrofista o celebrativo ci sarà sempre perché è difficile liberarsi dalla tendenza a "caricare" le storie». «Gli unici veramente capaci di distruggerla sono i suoi abitanti». Altro grande classico dell'apocalisse alla napoletana: il problema di Napoli sono i napoletani. Per dirla con Eduardo «O' presepo è bello, songo 'e pasturi che so' sbagliati». Il rimedio di De Luca si chiama "globalizzazione": «È passata dall'essere una città del Sud del mondo come Saigon o Manila a una sfumatura del Nord. I problemi sono gli stessi, quando parlano della "munnezza" io faccio solo notare che il business della spazzatura si fa nell'Italia settentrionale». Mentre Valeria Parrella autrice di Ma quale amore (Einaudi 2010) prova a trattare la città come fosse una persona: «Mi arrabbio con lei, la amo, le parlo. Il segreto sta nel capire che è una città vasta: tante dimensioni, storie, passati». Per questo motivo, aggiunge Diego De Silva: «uno scrittore dovrebbe rifuggire la dimensione ristretta a un ambito simbolico». Ci piacerebbe pensare che si può distruggere il simbolo senza sacrificare il mistero. Quello che Pino Daniele nella canzone che forse più di tutte le altre ha descritto l'apocalisse alla napoletana, racconta così: «Napule è tutto nu suonno e a' sape tutto o' munno ma nun sanno a' verità».
«Il Sole 24 Ore» del 4 luglio 2010

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