14 giugno 2010

Donne che uccidono i figli: il senso (perduto) della maternità

L'evoluzione dei costumi ha trasformato l'universo femminile nel clone di quello maschile
di Susanna Tamaro
Sempre più spesso, negli ultimi vent’anni, la cronaca testimonia casi di madri che uccidono i propri figli. Non uccidono solo neonati - cosa che rientra nelle patologie comprensibili della depressione post partum - ma uccidono bambini di sei, otto, dieci anni, bambini per i quali hanno preparato le torte di compleanno, a cui hanno insegnato a camminare e con cui hanno condiviso le fantasie e i sogni sul futuro. A Faenza, una donna italiana, impiegata e regolarmente sposata, all’insaputa del marito - che ignorava la sua gravidanza! - ha partorito di notte nel bagno, nascondendo il bambino in un sacchetto di plastica con l’idea di sbarazzarsene. Pochi giorni fa a Rieti una madre ha lanciato la propria figlia di sei mesi dal balcone, mentre a Vicenza un’altra donna ha aggredito con le forbici la figlia di nove anni che stava andando a scuola, prima di gettarsi dal terrazzo. A Venezia, un marito è tornato a casa e ha trovato il figlio di sei anni soffocato e la moglie impiccata a una spalliera. Le madri uccidono, si uccidono e spesso vengono anche uccise dai loro compagni e mariti. Non c’è giorno in cui la cronaca non ci segnali il caso di qualche omicidio compiuto da uomini incapaci di accettare una separazione. La persecuzione degli ex, o comunque le molestie ossessive, sono diventate un fenomeno così dilagante e pericoloso da richiedere ormai una legge ad hoc.

Infanticidio e benessere
Naturalmente l’infanticidio è sempre esistito, l’ecatombe di figlie femmine che ancor oggi si perpetua in molti paesi orientali non fa che confermarcelo. In tempi passati, però, apparteneva soprattutto a realtà di degrado e di povertà, ma questi omicidi che popolano le cronache con sempre maggior frequenza sono omicidi compiuti in situazioni di benessere materiale. Non c’è una carestia che incombe e un’ennesima bocca che urla implorando cibo, non c’è la disperazione della donna sola, lontana dal suo paese, culturalmente incapace di informarsi sulla possibilità di lasciare anonimamente il proprio figlio in ospedale. Ci sono invece case Ikea sullo sfondo, villini con giardino, appartamenti dignitosi, mariti che lavorano. E allora? Da dove viene questa onda nera che offusca, travolge, distrugge quello che dovrebbe essere l’istinto più forte di una donna? Perché le madri uccidono? Cosa si nasconde in questo che le cronache definiscono «insano gesto?». Negli ultimi trent’anni ci sono stati così tanti e rapidi mutamenti sociali e culturali che è difficile mettere a fuoco un solo elemento scatenante: a partire dagli anni ’70 è avvenuta un’evoluzione dei costumi che ha stravolto i rapporti tradizionali tra uomo e donna, cancellando quello che, fino ad allora, era stata la struttura classica della famiglia. Da questa rivoluzione, eravamo certi, sarebbe nato un mondo più giusto, un mondo in cui le donne avrebbero smesso il loro ruolo di vittime per diventare protagoniste piene della realtà e compagne consapevoli dei loro partner. Anche gli uomini, infatti, erano mutati, avevano abbandonato i lati più retrivi del loro carattere ed erano pronti, senza più pregiudizi, senza più gelosie, ad affrontare i tempi nuovi che si affacciavano. A distanza di quarant’anni da allora, al di là delle indiscusse e indiscutibili conquiste delle donne, una cosa è evidente ed è che il modello femminile si è inesorabilmente conformato a quello maschile. Siamo conformi perché, come ho già detto, l’immagine che i media propongono di noi - a cui una buona parte delle donne consapevoli cercano strenuamente di resistere - è quello di una femmina puro oggetto di piacere e di seduzione. Siamo conformi perché l’aver liberato la sessualità dalla procreazione ci ha reso altrettanto libere dei maschi. Possiamo realizzarci, avere diverse storie secondo l’estro e l’umore, senza che questo coinvolga l’affettività, così come avviene nei maschi per i quali avere un’avventura non è che uno sfogo della loro esuberanza. Abbiamo imparato a gestire la nostra fertilità, facendo scivolare la maternità in coda alle priorità della nostra vita, salvo poi farla diventare un’imperiosa necessità quando ci rendiamo conto che l’orologio del tempo ha accelerato i suoi battiti. In qualche modo è avvenuta una sorta di pornografizzazione della società. Tutto sembra girare intorno al sesso - ad un sesso esibito, parlato, vissuto, consumato, condiviso. I giornali per adolescenti parlano di orgasmi come fossero scampagnate in bicicletta. Non c’è divo o diva che non racconti ai quattro venti le sue abitudini sessuali, il come, il quando, con quante, con quanti. Come non c’è - quasi - giornalista, lo dico per esperienza personale, che non ti faccia domande sulle tue preferenze sessuali. Sembra che il sesso sia l’unico grande pensiero dei nostri giorni e il piacere il pifferaio magico a cui tutti corriamo dietro estasiati. Anche in questo, i giornali e le riviste ci aiutano. Quanto hai goduto? Come hai goduto? Hai trovato il punto G, punto F, punto K? Sei nella norma, lui è nella norma? E la norma, cos’è? Uno, due, tre orgasmi per notte?

Anna Karenina, Giulietta dove siete?
Nella letteratura - che in questo si dimostra specchio della società - non va certo meglio. Non c’è romanzo che non contenga tediosissime pagine di descrizione di rapporti, di umori corporei, di dettagli anatomici, inframmezzati magari da penose osservazioni messe lì per cercare di far lievitare la pornografia in arte. Anna Karenina, Catherine Earnshaw, Jane Eyre, Giulietta, dove siete? I grandi amori contrastati, i grandi amori vissuti nell’ombra, nella difficoltà, hanno creato una letteratura indimenticabile, gli amori avviliti dal cronometro e dai dettagli anatomici provocano soltanto una noia profonda. Il piacere è il democratico tiranno dei nostri giorni. Sembra che l’uomo debba esistere e realizzarsi unicamente dalla cintura in giù, come se improvvisamente sul mondo si fosse sparsa una polverina magica, capace di trasformare gli esseri umani in un esercito di mandrilli in libertà. Ma, a parte i lati comici di questa ossessione collettiva, in una tale visione dell’attività sessuale è racchiusa una estrema povertà. Il livellamento obbligatorio - per cui o fai sesso o non esisti - mistifica quella che è una delle componenti più importanti dell’uomo, quella erotica. Ognuno di noi ha una diversa propensione all’eros, per alcuni è una forma di energia straordinaria, per altri più moderata, mentre per altri ancora è ininfluente nell’equilibrio della loro vita. L’eros è sempre un elemento della complessità della persona, e non solo cambia da individuo a individuo, ma può cambiare, nello stesso individuo, nel corso della sua vita. Tanto il piacere è una banderuola a cui affannosamente corriamo dietro, altrettanto l’eros è una realtà che ci precede, ci compenetra e dà un orizzonte ai nostri giorni. Noi siamo qui grazie all’eros dei nostri genitori, e grazie alla nostra forza erotica siamo capaci di progettare un futuro. L’eros, come ci ricordano tutte le culture dell’uomo, non è una forza indistinta, un magma senza volto, bensì il differenziarsi dell’energia primordiale in due forme contrapposte e pur tuttavia complementari: il femminile e il maschile. Tutto il vivente - a parte le forme ermafrodite appartenenti ai livelli più semplici della vita animale e quelle simpatiche patelle capaci di cambiare sesso in virtù del loro compagno - si manifesta ed evolve secondo questa polarità. Come nel simbolo dello yin e dello yang, ogni femminile deve contenere un punto di maschile, così come ogni maschile deve contenere un punto di femminile. Il momento in cui questa polarità si annulla, la forza erotica si inceppa, inciampa, casca, il suo infinito orizzonte si trasforma nella condominiale balaustra del piacere. Gli effetti della promiscuità obbligatoria, unite alla forza plasmante del consumismo, ci hanno subdolamente privato della nostra natura più profonda, trasformandoci in affannati cloni del modello maschile. Ma anche all’uomo non è andata molto meglio: privato di un vero femminile, si è sentimentalizzato, perdendo quelle prerogative positive implicite nella sua natura paterna e virile. Noi stesse per anni abbiamo in fondo voluto ignorare la nostra natura perché ad essa associavamo un’idea culturale di fragilità, di rassegnazione e di sottomissione che mal si conciliava con il nostro desiderio di libertà e di emancipazione. In questo rifiuto, non ci siamo accorte che tranciare così drasticamente le nostre radici non era molto diverso dal tagliare i capelli di Sansone. Senza spirito materno, ogni forza è perduta, perché è vero che le donne hanno una forza straordinaria, ma questa forza discende direttamente dalla capacità di accogliere e far crescere la vita. Tutte queste persone travolte dall’infelicità, dall’incapacità di mettere a fuoco i propri sentimenti, queste madri trasportate come foglie dal vento, senza più stabilità, senza più una vera ragione per vivere, non sono forse donne private del senso profondo del loro essere al mondo? «L’amore richiede forza», scrivevo in Va’ dove ti porta il cuore. Ed è proprio la forza la caratteristica dello spirito materno, la forza di questo amore capace di abbattere ogni ostacolo, di andare sempre avanti, senza scavalcare, senza aver fretta, ma accompagnando. Questo amore - da cui nasce ogni altro amore - è l’amore materno, perché la maternità non è un’ennesima tecnica da applicare al nostro corpo ma qualcosa che ci trascende, che ci lega misteriosamente all’essenza del nostro esistere. Senza questa consapevolezza, l’avere figli non diventa che un atto come un altro, e un figlio non è che un oggetto che può trasformarsi in un gioiello da esibire ma anche in un peso che non siamo più in grado di sopportare perché ci impedisce di realizzare i nostri sogni. Un peso che a volte non sopportiamo più, così come non sopportiamo noi stesse. Ci sentiamo sole. Per questo ammazziamo i nostri figli, per questo ci ammazziamo. Recidendo questa radice profonda, la nostra vita non è molto diversa da quella dei cumuli di foglie che il vento sposta in autunno.

Lo spirito della maternità
Non si tratta di tornare all’angelo del focolare, ma semplicemente di capire che la centralità della nostra vita di donne è lo spirito della maternità. Ripartire da lì. La maternità. Questa maternità, però, va intesa in senso nuovo, ben al di là della mera capacità fisica di procreare. Si può infatti non aver generato ed essere colme di maternità, come si può essere madri biologiche ed esserne totalmente prive. Questa società così fredda, così necrofila, così impaurita, così cinica - e allo stesso tempo così travolta dalle sbornie del sentimentalismo - ha paura dello spirito femminile perché questo spirito, che è concreto, attivo, la spingerebbe in una direzione opposta. Tornare alla nostra vera natura vuol dire rimettere al centro dei nostri giorni una forza armata di dolcezza. Vuol dire collaborare, invece di competere, saper accogliere e accudire tutto ciò che è piccolo e bisognoso di protezione, tutto ciò che è fragile. Sapere che il grande sforzo - quello che giustamente assorbe ogni nostra energia - è quello della crescita, perché costantemente cambiare, costantemente crescere è il senso di ogni essere umano e di ogni nuova vita che viene al mondo.
«Corriere della Sera» del 14 giugno 2010

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