04 maggio 2010

"Per capire il mondo servono ancora i giornali di carta"

Parla Derrick De Kerckhove, l’erede di McLuhan: "Rispetto alla Rete sono un’àncora di sicurezza. Indispensabili, saranno finanziati come le arti"
di Francesca Amé
«Siamo come pesci nell’acqua. Nessun animale riconosce l’acqua meno dei pesci, che si accorgono della sua esistenza solo quando manca. Noi ci comportiamo allo stesso modo con le nuove tecnologie: ci sguazziamo dentro, ma non le capiamo granché».
Non rinuncia alla battuta, fatta in fluente italiano, il belga Derrick de Kerckhove, considerato unanimemente l’erede di Marshall McLuhan, professore con alle spalle torrenziali pubblicazioni sulla cultura digitale (l’ultimo pubblicato in Italia si intitola Dall'alfabeto a internet. L’homme «littéré»: alfabetizzazione, cultura, tecnologia, Mimesis 2009) e due cattedre sull’argomento, una all’Università di Toronto e una alla Federico II di Napoli. A Udine tra i principali ospiti del festival «Vicino/Lontano» (parlerà sabato 8 maggio, alle ore 15, nella chiesa di San Francesco), il teorico della web society riflette anche sul futuro del giornalismo. E lancia una previsione originale.

Professor de Kerckhove, viviamo nel paradosso di un’informazione pervasiva e della difficoltà a interpretare il presente. Il giornalismo stesso continua a interrogarsi, spesso con preoccupazione, sul suo futuro prossimo. Lei che cosa ne pensa?
«I giornali sono in pericolo: è vero. È una novità? Non mi pare. Il calo delle vendite è da tempo permanente e, in parte, irrecuperabile. La rete ha accelerato un processo iniziato già con la diffusione della televisione».
Il Wall Street Journal, per fare concorrenza al New York Times, in questi giorni ha deciso di puntare sulle edizioni locali: il futuro dei giornali è local?
«L’iper-localismo è indubbiamente una delle tendenze, ma non la sola. Credo tuttavia che i giornali potranno salvarsi quando davvero capiranno di doversi trasformare in any media, ovvero in un medium unico e versatile con contributi allargati su carta, tv, radio e web. Un ruolo importante per mantenere in buona salute i giornali potrebbe essere svolto dalle università».
In che senso?
«Le università sono ovunque istituzioni che continuano a formare l’homo alfabeticus in un mondo sempre più elettronico. Ebbene, il giornalismo su carta potrebbe essere finanziato dalle università come oggi si fa con le arti, come se fosse un servizio pubblico, nato in un’epoca diversa da questa, ma di cui c’è ancora bisogno. Del resto, bisogna risolvere il problema dei finanziamenti: la raccolta pubblicitaria su carta è in calo, così come il settore dei piccoli annunci che in molti casi copriva il 40% delle casse dei quotidiani e che ora si è dirottato tutto su Internet. Infine, il giornale su carta, a differenza della tv e della radio, ha un’arma in meno rispetto al web: non si aggiorna velocemente».
Quindi chi preannuncia la morte dei giornali ha ragione?
«Nient’affatto. Domandiamoci a che cosa serve un giornale. È rimasto oggi l’unico posto nel quale il giornalismo resta parola scritta, non persa nell’etere o ascoltata di sfuggita: rimane il testimone, almeno negli intenti, della potenza oggettiva della parola. La parola rallentata, in una web society che si muove sempre più veloce, è importante. Per questo credo fermamente nel futuro dei giornali: sono un ancoraggio all’interno del nostro sistema di informazione».
Il citizen-journalism dei blog aperti da cittadini appassionati a un tema e Twitter stanno mutando il giornalismo tradizionale?
«Hanno accelerato il cambiamento, sono un fenomeno utile, ma non scambiamoli per giornalismo. L’importanza di Twitter è emersa durante la recente contestazione in Iran e spesso mi sono domandato quante vite si sarebbe potuto salvare se nello tsunami del 2004 fosse esistito il micro-blogging capace di avvisare in tempo reale, meno di tre minuti, che l’onda da Sumatra sarebbe arrivata in India in quattro ore. Sono convinto che il citizen-journalism non sia una minaccia per il giornalismo vero, ma un catalizzatore, un impulso. Per approfondire una notizia serve altro che 140 caratteri».
Che cosa direbbe McLuhan di Internet? Il mezzo è ancora il messaggio?
«Nel 1962, e in modo quasi casuale, McLuhan fece delle previsioni che a leggerle oggi paiono strabilianti: riteneva che nel prossimo futuro sarebbe esistito un medium quale estensione della nostra coscienza, e questa è la Rete; un medium capace di contenere la televisione e di trasformarla in altro, e questo accade su Youtube; un medium capace di rendere obsolete le solite classificazioni, e queste sono le tag, le indicizzazioni dei motori di ricerca; un medium capace di usare la conoscenza enciclopedica di ciascuno di noi, e questo è Wikipedia, con tutto quel che ne consegue; un medium, infine, capace ci trasferire le informazioni in un prodotto su misura e vendibile, e chissà che non sia questo il futuro delle news. Non credo di dover aggiungere altro: oggi, più che mai, il mezzo influenza, anzi è il messaggio».
«Il Giornale» del 4 maggio 2010

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