18 maggio 2010

Intellettuali

Vizi e virtù la strana soppiezza della Intellighentsja
di Pierluigi Battista
Storici, romanzieri, filosofi, poeti, drammaturghi, registi: un numero impressionante di uomini «di alto sentire» nasconde un lato oscuro e rischia costantemente di precipitare nel baratro della viltà. Se non addirittura dell' abiezionePerché si conferisce all'artista uno statuto speciale al di sopra delle leggi ordinarie. Grandi pensatori, meschinità private
Certo, fa molta impressione che Orlando Figes, l’eccellente storico della cultura, l’autore di un libro formidabile sulle origini profonde della sensibilità letteraria russa, La danza di Natasha, si sia svelato come un piccolo uomo, meschino e gretto fino ai limiti della ripugnanza morale. Lo hanno scoperto che, dietro lo schermo dell’anonimato, riempiva il sito Amazon di noterelle pettegole e livorose sul conto di qualche rivale accademico. E quando il cerchio ha cominciato a stringersi attorno a lui, non ha trovato migliore via d’uscita che denunciare la moglie, povera donna ignara di tutto, come autrice dei suoi misfatti. Un mascalzone al quadrato, Figes: per la sua propensione ai colpi bassi contro i colleghi capaci di fargli ombra e per la sua incresciosa mancanza di un minimo di rispetto nei confronti della moglie. Ma si può essere contemporaneamente un grandissimo e raffinatissimo storico e un mascalzone al quadrato? Sì, la storia e la biografia dei grandi artisti, dei grandi scrittori, dei grandi intellettuali dimostrano come, molto spesso, le vette eccelse del pensiero e dell’arte convivano con le bassezze di un carattere umano miserabile, piccino, ottuso. Perverso, talvolta. Due anime in un petto, non c’è da stupirsi.
Chi si stupisce è troppo illusoriamente legato a uno stereotipo romantico che idealizza allo stremo il ruolo e la personalità stessa degli artisti e intellettuali in genere. Questo perché, come ha notato Claudio Magris nel 2006, «si considerano a priori, erroneamente, gli scrittori e gli artisti come rappresentanti dello Spirito, quasi sacerdoti laici della verità, dell’umanità e della giustizia, quali maestri di vita». Ma si tratta di una deformazione culturale. John M. Coetzee, in Tempo d’estate, appena tradotto da Einaudi, fa dire a una donna delusa dallo scrittore con cui aveva avuto una avvilente relazione: «Le chiedo com’è possibile che un uomo piccolo e ordinario sia un grande scrittore». È possibile, invece. È statisticamente possibile: basta scorrere le biografie di tanti scrittori. Ma sopravvive la chimera che le grandi opere possano essere il frutto solo di spiriti puri. Se riemerge con ostinazione il mito di un Pasolini «poeta assassinato» dai malvagi, testimone scomodo da annientare per opera degli scherani di un Potere fosco e senza scrupoli, è perché è difficile sopportare che in quella notte all’Idroscalo di Ostia un uomo sensibile e delicato come lui potesse giocare un ruolo ambiguo e spregiudicato, estremo e prepotente, con il ragazzo che diventerà il suo carnefice. E invece non c’è niente di più frequente di uomini di alto sentire, baciati dall’entusiasmo dell’arte e del pensiero, agitati da un febbrile afflato creativo, cui nella vita sia capitato di macchiarsi con turpitudini, debolezze, vigliaccherie, grandi e piccole grettezze. Chi ne reclamasse un repertorio vasto e dettagliato, non avrebbe che da leggersi Gli intellettuali. Processo ai «mostri sacri» della cultura moderna di Paul Johnson. Una requisitoria sulle ipocrisie dei dotti: da Jean-Jacques Rousseau e Karl Marx, che mentre predicavano la religione dell’Umanità e del Proletariato non si sottraevano all’abitudine classista di mettere incinte ragazze dei ceti subalterni, a Jean-Paul Sartre che pretendeva da Simone de Beauvoir, antesignana del moderno femminismo, mansioni da servile segretaria tuttofare. Ma non c’è bisogno di moraleggiare su Henrik Ibsen che da una parte consegnava con Casa di bambola il referto dell’inferno matrimoniale moderno, e dall’altra si negava ai suoi genitori, responsabili di un’infanzia povera e grama, per paura che gli spillassero quattrini mentre era al vertice della sua carriera di drammaturgo. O sulla pusillanimità di Boris Pasternak, che si porterà dietro tutta la vita il rimorso per non aver salvato la vita, pur avendone qualche sia pur sparuta possibilità, di Osip Mandel’stam, l’amico poeta inghiottito dal gulag e il cui destino gli era stato prefigurato da Stalin in persona durante una terrorizzante telefonata notturna con il futuro autore del Dottor Zivago.
La politica, oltre al sesso e al denaro, è del resto uno dei terreni su cui gli intellettuali moderni hanno meglio esercitato il loro lato oscuro, il loro costante precipitare nel baratro della viltà, se non dell’abiezione. Pablo Neruda, il dolce e struggente poeta raffigurato nel film Il Postino, dedicava imbarazzanti panegirici a Vyshinskij, mentre i poeti russi cadevano a grappoli nella mattanza stalinista di cui il procuratore generale dei processi farsa era ineguagliabile cerimoniere. Martin Heidegger non aveva bisogno di confermare la sua fedeltà al Führer denunciando con eccesso di zelo, come ha ricordato Paolo Rossi in Paragone degli ingegni moderni e postmoderni (Il Mulino), il suo allievo e amico Eduard Baumgarten come «un assiduo frequentatore dell’ebreo Eduard Fraenkel». Nessuno aveva costretto Robert Brasillach, letterato di rara finezza e profondità, a esortare le autorità di Vichy a non risparmiare nessun ebreo negli anni del tallone nazista sulla Francia. Arthur Koestler, lo ha raccontato lui stesso negli anni della disillusione sul «dio che è fallito», segnalò agli sgherri della Gpu la sua fidanzata russa sulla base di un banalissimo sospetto, e della ragazza consegnata per un’inezia agli aguzzini della polizia politica, Nadezhda, non si saprà mai più nulla. Thomas Mann, indagatore di ogni profondità dell’animo umano, decise di oscurare ogni facoltà critica e di prendere per buone le grottesche argomentazioni con cui i comunisti che amministravano la parte della Germania loro affidata dopo la guerra deliberarono di riaprire i cancelli del campo di Buchenwald, celebre insegna dell’inferno concentrazionario allestito negli anni precedenti, ma con il marchio della croce uncinata.
L’opera artistica, letteraria e filosofica di questi scrittori e intellettuali non viene sfregiata dalle meschinità abissali in cui vollero sprofondare. E non viene sminuita la grandezza di un Martin Buber che, ha raccontato Nina Berberova, si sentì in dovere di prendere pubblicamente le distanze da Margarete Buber-Neumann, negando impetuosamente che fosse sua figlia, solo perché la «prigioniera di Stalin e di Hitler» aveva raccontato la propria specialissima esperienza di ospite prima del gulag, e poi del lager di Ravensbrück, consegnata dai persecutori del Nkvd a quelli della Gestapo per onorare le clausole del patto tra Hitler e Stalin del 1939. Che cosa abbia indotto un uomo noto per la sua mitezza come Buber a decretare la morte civile di una vittima della duplice oppressione totalitaria, non è facile da decifrare.
Ma è sufficiente a negare che una speciale sensibilità intellettuale metta al riparo i protagonisti più ammirevoli della creazione artistica e letteraria dalla triste mediocrità della condizione umana. E anche a prendere atto che la sfera creativa e quella esistenziale possono viaggiare su binari che si divaricano: uno che porta in alto, sulle vette di opere che tutti apprezziamo e ammiriamo; e uno che scaraventa in basso, nel grigiore dell’umano, troppo umano, della piccineria, dell’avidità, dell’egocentrismo forsennato che cancella le sofferenze procurate da comportamenti non degni della missione estetica così come noi, eredi del sentimentalismo romantico, amiamo immaginarcela. Oscurare questo contrasto, appiattire questa duplicità (o doppiezza, o scissione, come si preferisce) comporta necessariamente conseguenze che riflettono un’immagine distorta del rapporto tra un’opera e il suo artefice. Il diluvio di biografie «non autorizzate» che vorrebbero svelare il volto notturno, inconfessabile, clandestino, vergognoso di artisti e scrittori strappati giù dal piedistallo è una delle conseguenze più macroscopiche, fondato com’è sul luogo comune che, guardato dal buco della serratura, ogni grande uomo rivela per forza di cose la propria debolezza o le proprie nefandezze celate agli occhi del grande pubblico. Un’altra è la lettura di una grande opera a partire da congetture biografiche sull’autore che ne disintegrerebbero la stessa credibilità: un po’come ha fatto di recente Michel Onfray con Freud (peraltro seppellito dal sarcasmo stroncatorio di Bernard Henry-Lévy proprio sul «Corriere della Sera») quando ha voluto colpire l’intero impianto della psicoanalisi a partire, tra l’altro, dalla relazione segreta, e dal senso di colpa che ne derivò, che lo stesso Freud avrebbe intrecciato con sua cognata. Un’altra, macroscopica conseguenza è il conferimento all’artista di uno statuto speciale, di un suo diritto soggettivo che si libra al di sopra delle leggi ordinarie. Il genio non sopporta le stesse regole che vincolano i comuni mortali e dunque se dopo un certo numero di anni Roman Polanski viene fermato in Svizzera, dove si era recato per una grande rassegna cinematografica, di sicuro pioveranno firme, appelli e petizioni per impedire che il grande regista sia perseguito per lo stupro di una minorenne consumato tanti anni fa (ma non caduto in prescrizione). Come se davvero il genio non fosse sottoposto, Raskolnikov di successo, ai normali criteri del Bene e del Male e fosse libero di assecondare comportamenti soggetti alla riprovazione sociale quando a essere coinvolti siano cittadini non illuminati dalla luce dell’ispirazione artistica. Uno scrittore non può averlo fatto, si dice da una parte. Uno scrittore può farlo perché non è come tutti gli altri, si dice dall’altra. Un’ipocrisia. Com’era un’ipocrisia, o una prova di sommo opportunismo, o una manifestazione di esplicita doppiezza quella di un intellettuale famoso e riverito come Il’ja Erenburg che, come ha raccontato Alberto Ronchey che ne visitò la dacia lussuosa, da una parte dava sostegno agli imperativi di regime sul «realismo socialista», dall’altra collezionava in cantina, nascosti ma neanche tanto, quadri moderni da Kandinsky a Chagall. O un’ipocrisia venata di autentica bassezza morale, come quella di Theodor Wiesengrund Adorno che negli Stati Uniti preparava ogni genere di ostacolo per impedire la pubblicazione degli scritti inediti di Walter Benjamin, morto suicida al confine franco-spagnolo in fuga dai nazisti, nei confronti del quale nutriva un inestinguibile senso di insana competizione non placato nemmeno dalla tragica scomparsa del rivale. Ed è ancora ipocrisia, o forse qualcosa di più, l’imbarazzato silenzio con cui veniva tollerata, nella Germania Est, il trasferimento delle cospicue ricchezze in Svizzera dell’intellettuale simbolo di quel regime, Bertolt Brecht. Ma l’insieme di queste ipocrisie, con le conseguenti delusioni quando i vizi privati diventano di dominio pubblico, poggia pur sempre sul pregiudizio, o appunto sull’illusione, che tra le opere e le biografie debba correre una continuità perfetta, e che la grandezza di ciò che viene creato debba avere come presupposto l’integrità, la grandezza, la magnanimità, la bontà del suo creatore. Questa continuità non esiste ed è anzi più probabile e sicuramente più frequente il contrario. Gli intellettuali non sono santi, anche se si atteggiano talvolta a santoni. E le loro biografie non sono immacolate, anche se hanno il timbro dell’ufficialità. Antonio Gnoli, a proposito del caso Figes, ha parafrasato una celebre battuta di Groucho Marx: «Non leggerei mai un romanzo scritto da me». È vero il contrario: i romanzi si salvano sempre, le vite dei loro autori quasi mai.

L'autore Pierluigi Battista, editorialista del «Corriere della Sera», ha appena pubblicato il saggio «I conformisti» (Rizzoli). È inoltre autore di vari libri sul mondo della cultura, tra cui «Cancellare le tracce» (Rizzoli) e «Il partito degli intellettuali» (Laterza). Ha curato il libro-intervista con Alberto Ronchey «Il fattore R» (Rizzoli).


«Corriere della Sera» del 16 maggio 2010

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