18 maggio 2010

C’è del marcio negli intellettuali

È affollata la galleria dei grandi artisti e pensatori dalle vite private meschine. Ma nessuno può evitare la scelta tra bene e male
di Carlo Cardia
Diceva Seneca: «Il filosofo predica come si dovrebbe vivere, non come vive lui». Ma a noi, dopo la lezione cristiana, questo non basta. Serve un nuovo umanesimo
Con una bella riflessione sulle pagine della cultura del 'Cor­riere della Sera' del 16 mag­gio scorso, Pierluigi Battista torna su un tema classico, forse mai veramente scandagliato, relativo al 'lato oscuro' di molti intellettuali e gran­di personalità, che emerge quando si conoscono alcune loro meschi­nità, bassezze, vere e proprie effera­tezze. Gli esempi che porta sono tan­ti, alcuni già conosciuti, altri ignoti ai più, che vanno dall’ipocrisia a scel­te di vita privata, fino ad atti tremendi compiuti verso persone ami­che, causandone la condanna in­giusta, persino la morte fisica. Si trat­ta di un tema ricorrente, già discus­so da storici come Paul Johnson con il suo Gli intellettuali, processo ai mo­stri sacri della cultura moderna (1993), da Raymond Aron in L’oppio degli intellettuali (2008), dal premio Nobel John M. Coetzee in Tempo d’e­state (2010). Battista ricorda Martin Heidegger che denuncia il filosofo Eduard Baumgarten, suo allievo ed amico, perché «assiduo frequentatore del­l’ebreo Eduard Fraenkel», Robert Brasillach che esorta le autorità di Vichy a non risparmiare nessun e­breo, e Arthur Koestler che segnala e consegna alla polizia politica so­vietica (Gpu) la fidanzata russa sul­la base di un banale sospetto. Evoca poi grandi ipocrisie, di Bertolt Brecht che approva cinicamente le fucila­zioni staliniane degli innocenti e conserva ricchezze in Svizzera, di Pa­blo Neruda che elogia smodata­mente Vyšinskij, il procuratore ge­nerale dei processi di Mosca degli anni ’30 del Novecento, di Sigmund Freud e della sua relazione segreta con la cognata, altre ancora più che scivolano più nel privato. Battista non tralascia neanche Theodor Wie­sengrund Adorno che boicotta con ogni mezzo la pubblicazione degli scritti inediti di Walter Benjamin, morto suicida al confine franco-spagnolo in fuga dai nazisti. La dissacrazione, se così può dirsi, prosegue con Thomas Mann, Jean-Jac­ques Rousseau, Karl Marx, Jean Paul Sartre, Pasolini, infine Martin Buber che rin­nega la paternità nei con­fronti di Margarete Buber-Neumann consegnata dai sovietici ai nazisti per onorare le clausole del patto tra Hitler e Stalin del 1939.
Con l’esperienza più recente, po­tremmo aggiungere altri contrasti tra la dimensione pubblica osannante di grandi personaggi e i loro vizi an­che repellenti, o tra la professione religiosa e la vita gravemente pecca­minosa di uomini di Chiesa, ma resterebbe il quesito essenziale che Battista pone. Come mai questo di­vario tra la sfera creativa (e l’imma­gine pubblica) che porta in alto, per opere che tutti apprezziamo e am­miriamo, e la dimensione esisten­ziale più vile e colpevole, e come mai quando si scava inizia la discesa ver­so il basso, nel grigiore dell’umano, della piccineria, dell’avidità, del for­sennato egocentrismo che apre le porte al male, fa vittime, scopre il la­to oscuro, o mostruoso, di alcuni. In­sieme ad alcune considerazioni con­divisibili, Battista conclude che non ci si può aspettare che gli intellet­tuali siano dei santi, e le loro biogra­fie immacolate, perché la condizio­ne umana non garantisce la coeren­za tra la purezza dell’opera prodot­ta e la santità della vita condotta.
In una prospettiva del tutto oriz­zontale, non c’è dubbio che le con­traddizioni sono laceranti, e colpi­scono chi non riesce a conciliare la grandezza dell’opera e le bassezze della vita, si sente lacerato tra l’am­mirazione e la delusione, l’omaggio e la condanna. Tutto può cambiare, invece, in una prospettiva verticale nel quale l’uomo è visto nella sua complessità, coscienziale e insieme storica, in un rapporto con il male che la cultura moderna spesso di­mentica, quasi a voler esorcizzare una realtà che non comprende e che però si ripresenta poi come durissi­ma realtà. Non è un caso che molte 'colpe' che Battista attribuisce ai grandi pensatori ed intellettuali sia­no collegati con le ideologie del No­vecento che, inutile negarlo, hanno incarnato nelle loro punte estreme il male assoluto, con il disprezzo per ogni regola morale, elevando a nuo­vi idoli lo Stato, la razza, il partito, o altro ancora, ed hanno per ciò stes­so pervertito la mente dell’uomo (uomo semplice, scrittore, artista, fi­losofo, che sia) che, pur senza mac­chiarsi direttamente ha elogiato, e­saltato, osannato, i più efferati de­litti.
Ma il male esiste anche nella co­scienza individuale, in quella parte più nascosta e profonda, che solo l’uomo e Dio conoscono, e non sem­pre coincidono con le opere dell’in­telletto, con l’ingegno individuale, con i movimenti collettivi di ammirazione che seguono strade diverse. Già Seneca nella Vita felice risponde a chi rimprovera i filosofi, e lui stes­so, per il contrasto tra la loro vita e le loro parole e gli chiede: «Perché le tue parole sono più virtuose della tua vita?». Perché sei ricco, ami il lusso ed il superfluo, sei attento all’immagi­ne più che all’agire bene, mentre pre­dichi il contrario? Seneca risponde che il filosofo predica come si do­vrebbe vivere, non come vive lui, e gli altri devono imparare dalle sue pa­role non dalle sue azioni. E che infi­ne, i filosofi provano a condurre una vita buona, ma non ci riescono sem­pre.
La risposta di Seneca è umana, ma con il passare del tempo non con­vince più, soprattutto se l’incoeren­za raggiunge i vertici dell’abominio. E non convince più da quando la grande lezione giudaico-cristiana che nel frattempo veniva da Geru­salemme mise in scena la lotta del bene contro il male, non come frut­to del fato, ma come una lotta che si svolge nella coscienza dell’uomo, che diviene protagonista del proprio destino. Gli empi, dice il salmista «parlano di pace al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore» (Sal­mi, 27,3), e il profeta aggiunge che usano parole belle però «il loro cuo­re è falso» (Osea, 10,2). Dall’obbligo di scegliere fra il bene e il male non sono esenti i letterati o i filosofi, i ric­chi o i potenti, che pure ammaliano gli umili con il loro sfarzo intellet­tuale o materiale. L’incantesimo, però, non dura a lungo, perché se o­gni cosa è caduca, il fascino del ma­le lo è ancor meno. Si può fare ancora un passo in avan­ti se si tiene presente che una delle tentazioni più forti dell’uomo è quel­la di farsi grande, insuperbire per l’intelligenza e le capacità, dimenti­cando che il profeta prevede «guai (per) coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti» (Isaia, 5,21). Tutti, anche la persona più semplice, verifica ogni giorno quan­te volte un pizzico di potere (vero o presunto) cambia l’uomo, lo fa i­norgoglire, sin sulla soglia dell’onni­potenza, lo fa sentire libero da ogni regola, lo induce ad atti di cui, ad un certo punto, non sente più nemme­no la colpa o l’imbarazzo. Quando questa metamorfosi colpisce, sono rovesciati tutti i valori, l’uomo si sen­te elevato in alto, guarda agli altri uo­mini quasi con disprezzo, e a quel punto tutto è possibile, anche ciò che a noi sembra grave, contraddittorio, assurdo. Questo senso di onnipo­tenza stravolge il cuore, soltanto la coscienza del nostro essere creatu­re chiamate al bene può riproporre il senso della fragilità e della gran­dezza dell’uomo, e può rifondare un umanesimo che si è andato eroden­do e frantumando.
«Avvenire» del 18 maggio 2010

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