03 maggio 2010

Che fine ha fatto la critica militante?

Tra i grandi temi del prossimo Salone del Libro ci sarà il declino delle recensioni, strette tra la crescente insofferenza degli scrittori e la sempre più frequente confusione con il marketing
di Fulvio Panzeri
Gli scrittori non amano più i critici, soprattutto se osano fare appunti sulle loro scelte narrative; gli e­ditori cercano di portarsi i criti­ci al loro fianco per farli diven­tare parte di un gioco di con­vincimento sulla presunta grandezza di uno scrittore; i lettori cercano voci autorevoli che possano guidarli nelle loro scelte di lettura, ma diventa difficile trovare oggi una critica che sia veramente indipenden­te e soprattutto difenda la pos­sibilità di contribuire con un e­sercizio critico, condivisibile o meno, ma autentico, autono­mo, controcorrente se necessa­rio, che non tiene conto di fa­vori da prestare o di amicizie da non deludere. Oggi, lo ha ri­cordato anche Giulio Ferroni, domenica scorsa sul 'Corriere della Sera', la critica è in una profonda crisi e viene recepita da anni come decrepita, se non addirittura morta. Non sono più gli anni Sessanta e Settanta dove le recensioni erano con­cepite come dei 'micro-saggi' e venivano pubblicate da tutti i quotidiani, con una serie di 'critici designati' come voce del giornale, in fatto di libri.
Pietro Citati ha iniziato come critico per 'Il Giorno'; Carlo Bo è stato l’autorevolissima voce critica e morale del 'Corriere della Sera'; Geno Pampaloni ha fatto del suo spazio scritto sulle colonne de 'Il Giornale' di Montanelli, una sorta di per­sonale ed etico diario di rifles­sione sulle sue letture; Giuliano Gramigna indagava le scritture più sperimentali, con una per­sonalissima lettura strutturale, rivelatrice dei significati del te­sto; Giuseppe Bonura ha rilet­to, attraverso la sua attività cri­tica, da vero iconoclasta, e in divenire, il secondo Novecento; Grazia Cherchi, prematura­mente scomparsa, aveva un ru­vido, ma acutissimo approccio ai libri degli altri. La critica spesso veniva affidata anche a­gli scrittori, che in alcuni casi hanno dato modo di definire un nuovo approccio, meno cri­tico ma più interpretativo, del libro: è il caso di due scrittori molto lontani tra di loro come Giorgio Manganelli e Pier Vitto­rio Tondelli. Come è possibile intuire, la critica ha avuto una grande tradizione, anche di e­semplarità etica dell’esercizio critico, di indipendenza dai va­ri salotti mondani-letterari che sono il vero centro nevralgico della società letteraria di casa nostra. Perché tutto cambia e perde di valore in Italia (si veda il caso appunto della critica let­teraria), ma il vero trasformista, colui che rinasce sempre, è il salotto mondano, che via via ha avuto nei decenni i suoi ce­rimonieri e le sue dame di po­tere, d’alta borghesia illumina­ta, ma anche dei nuovi ricchi radical-chic, dei progressisti e via dicendo. Salotti che ci sono anche oggi e dove certi critici si trovano più a loro agio che sul­le pagine dei giornali su cui scrivono, a senso unico e natu­ralmente nella direttiva del 'sa­lotto', compiacendo editori e agenti letterari. Oggi la critica non è più amata dai giornali: un libro interessa di più per al­tri fattori, che sono diversi dall’esercizio critico. Deve rap­presentare un caso, deve essere legato ad una storia da raccon­tare, deve fare un po’ di spetta­colo per attirare il lettore. Così vari critici si sono convertiti all’arte della sublimazione, gri­dando al capolavoro per ro­manzetti gialli di serie B, o per mistici e dannunziani furori da romanzo rosa impegnato; op­pure a quella della denigrazio­ne (stroncare per il puro piace­re di farlo), per 'bucare' la pa­gina e essere sempre al centro dell’attenzione. I critici vera­mente 'militanti' e 'indipen­denti' sono rimasti decisa­mente in pochi. Mosche bian­che. Sui settimanali le pagine di recensione sono praticamente scomparse per lasciare spazio a mini-segnalazioni, della lunghezza del­le 'massime' dei Baci Perugina. Sui quotidiani sembra­no timidamente ri­tornare le pagine 'Libri', in cui però lo spazio di recen­sione vera e propria è sempre minorita­rio rispetto a quello degli articoli di informazione e di descrizione dei libri. Che i critici ormai contino poco nella società let­teraria non lo dice solo la loro lenta estinzione dalle pagine dei giornali, ma lo hanno di­chiarato apertamente anche i premi letterari: come ha fatto il Campiello, qualche anno fa, fa­cendo fuori e rinnovando da zero una 'giuria dei letterati', per la maggior parte composta dai critici letterari di varie te­state, con una giuria sempre di 'letterati', ma dove è in nettis­sima minoranza il critico mili­tante e dove si trovano varie personalità del mondo univer­sitario o del cinema (il cotè mondano che ritorna a domi- nare). Mentre il premio Strega è manovrato dalla società lette­raria: più che la critica contano le amicizie. La sua parte di re­sponsabilità ce l’ha anche la critica letteraria italiana: se la sua considerazione frana così i­nesorabilmente, il motivo prin­cipale sta nell’asservimento cui molta critica si è sottomessa, non distinguendo più i ruoli di­versi che esistono tra chi pub­blica il libro (l’editore) e chi è demandato a giudicarlo (il cri­tico). Quest’ultimo sembra a­ver rinunciato al proprio ruolo di ricerca e di viaggio tra le scritture della narrativa italia­na. Si occupa solo, e in senso positivo, dei libri che vanno in classifica e delle sollecitazioni, che spesso sono imbarazzanti, degli uffici stampa. Giocando in modo disonesto, il critico fi­nisce per perdere credibilità.
Anche lui diventa non più un elemento di qualità e di con­fronto, ma un’esca per attirare ignari lettori. Può rinascere cer­tamente la critica, ma su basi nuove, sul richiamo all’indi­pendenza di giudizio, alla stroncatura vista come libertà di esercizio e non come spesso viene usata come arma impro­pria per rese di conti personali, alla libera scelta di ciò che si vuol recensire, alla riscoperta del valore della scrittura. Lo au­spica anche Ferroni, ha ragione quando scrive che «la critica ha senso se cerca una letteratura che sia conoscenza e non mero intrattenimento, che interroghi ciò che è davvero essenziale per il nostro destino, che miri a saldare il nostro passato con un futuro davvero possibile». Un futuro che potrà esserci anche per la critica se smette di pas­sare il suo tempo nei salotti modaioli o facendosi racconta­re al telefono il libro dall’ufficio stampa, per rimettersi a leggere seriamente, prima di scrivere.
«Avvenire» del 30 aprile 2010

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